Skip to main content

Mese: Maggio 2021

Tre Domande a: 43.NOVE

Come vi immaginate il vostro primo concerto live post-pandemia?

Ricco di emozioni, come giusto che sia, un po’ di tremolio alla gambe miscelata ad una sana dose di batticuore, e il tic (il batterista) che conta one, two, three… E poi giù a lasciarsi abbandonare nella corrente, nella musica, fare quello che sappiamo fare, cercare con lo sguardo gli occhi delle persone, guardare le mani in aria che si muovono, guardarsi negli occhi con gli amici sul palco per caricarsi. Ma soprattutto Ascoltare.

 

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?

Sceglieremo Storia di Uomo probabilmente, quel pezzo è la miscela perfetta tra me ed Eli, siamo molto affezionati a quel pezzo, quindi romanticamente parlando scegliamo quello.

 

C’è un evento, un festival in particolare a cui vi piacerebbe partecipare?

Bella domanda, conoscevamo pochi eventi fino a poco tempo fa, per cui ti direi un MIAMI a Milano, per la risonanza che ha, e poi molti altri ancora… dai noti festival di Prato, Pistoia, Roma e al nostro vicino di casa Lucca Summer Festival, sarebbe un sogno. Magari un giorno…

Maledetti Cantautori @ Teatro della Concordia

Teatro della Concordia (Venaria Reale) // 28 Maggio 2021

 

…E quindi uscimmo a riveder le stelle
Dante, Inferno, XXXIV, 139

 

Ieri sono tornato a un evento live. Chiamiamolo concerto, anche se, a ben vedere, Maledetti Cantautori è molto di più.
Avevo un accredito stampa. E a quel punto anche un vago senso di colpa, così, avvisata la biglietteria della mia presenza, ho comunque pagato l’ingresso. È una questione di karma, è una questione di militanza e di sostegno. Io senza voi non scriverei, in fin dei conti. Ora, devo anche chiedere scusa a VEZ, perché io ai concerti tendo ad ascoltare e a pensare e così, alla fine, ho una timida foto per altro neanche scattata dal sottoscritto. E sorrido a pensarci, perché nonostante non fossimo in molti, la mia etica da concertista over quaranta mi impone di avere cautela nell’uso del telefono a un concerto. Un buon segno, penso, non ho perso le buone maniere.

Il Teatro della Concordia di Venaria Reale è il luogo che accoglierà questo nuovo inizio. Quindi sarò comodamente seduto, con un ottima acustica, in ampi spazi rispettosi di norme anti-covid. Quasi commosso anche dalla birra pre-concerto, un rituale che sembra appartenere a un’era lontana, di baccanali e festival pieni di droplet e sudore.
L’evento principale è stato preceduto dall’esibizione di due nuove proposte del panorama torinese: Carsico ed Eugenio Rodondi, esponenti di un nuovo cantautorato pieno di buoni propositi.
Lo spettacolo principale inizia quindi poco dopo le 21.00. Sul palco sale Nicholas Ciuferri, autore del libro cui si ispira lo spettacolo, Nathalie, cantautrice e vincitrice di X-Factor nel 2010, The Niro, nome d’arte del cantautore romano Davide Combusti, Riccardo Tesio, fondatore dei Marlene Kuntz, produttore e chitarrista, Andrea Angeloni ai fiati e il 23enne giovane talento Pit Coccato.

È uno spettacolo fatto di storytelling e musica, in cui alcuni autori, sia del passato sia contemporanei, vengono presentati con brevi racconti e successivamente da un brano eseguito dagli ottimi musicisti che accompagnano Ciuferri.
Per il sottoscritto è un ripartire dalle basi. Da un racconto che si fa musica, o meglio, da un racconto che arriva alla musica. L’inquadratura scelta per fotografare l’artista descritto non è mai banale e ci porta verso lati poco noti o conosciuti, raccontando aspetti delle grandi star accessibili solo a chi si è dedicato a fondo alle loro biografie. Si parte con Tim Buckley, con un genio eclettico e problematico, dal suo rapporto con il figlio, l’amore, le famiglie, la dipendenza. Il racconto non è mai morale, pietista, anzi, incalza, aumenta di ritmo, lascia indizi sparsi, quasi come fosse un gioco tra chi racconta e il pubblico. E poi, all’apice della narrazione c’è una morte, un punto fermo, un presente. E poi musica, a turno tra Nathalie e The Niro. Il racconto prosegue con la Joplin, il Chelsea Hotel e l’incontro con Cohen, un Thom Yorke alle prese con ospedali, plastiche e una mamma, un Cash che diventa statua e gigante, come nella realtà, sospeso tra Steinbeck e linee bianche da seguire, il Lead Belly di In The Pines, resa famosa dai Nirvana nell’Unplugged, e poi Chris Cornell, Jeff Buckley, Lou Reed.
È una piccola Spoon River in prosa, in cui il soggetto non è rivelato se non dalla sua musica. Un gioco fatto di parole chiave, canzoni nascoste nelle vite narrate, piccoli segreti di grandi personaggi. È come stappare una bottiglia di buon vino e trovare tutti i profumi possibili, e, alla fine, assaggiare.
Risultati della serata: ho comprato il libro oggi. Se Ciuferri scrive come racconta, allora ho delle belle ore davanti. Poi ho scoperto che la musica dal vivo è ancora in grado di emozionarmi. Anzi no, diamo merito anche al sottoscritto: i peli delle mie braccia hanno ancora memoria e sanno alzarsi con fierezza in caso di musica ben suonata. Posso vantarmi di questa cosa, ieri sera ne sono stato orgoglioso e quasi mi sono commosso. Ultimo: cantare, anche sussurrando, dentro la mascherina è come fare l’amore sotto le lenzuola.
Lo fai proprio solo se devi. 

La musica è tornata dal vivo, il mondo è tornato un posto più vivibile, grazie anche a questi artisti che nonostante il poco pubblico si sono impegnati e hanno dato vita a uno spettacolo interessante e appassionante.
Regolarmente conclusosi nel rispetto del coprifuoco vigente. 

Chiudo con un consiglio da amante dei bei racconti raccontati: il podcast. Ragazzi, questo spettacolo deve uscire dai teatri e dalle piazze. Osate. 

 

Andrea Riscossa

Foto di Copertina: Davide Garibaldi

Tre Domande a: The Lost ABC

Come e quando è nato questo progetto?

Questo progetto nasce alcuni anni fa, nel 2014. The Lost ABC siamo io (Gianluca Mancini, NdR) e Massimiliano (Fraticelli, NdR), due musicisti e non solo, che un bel giorno decidono di fare la musica come avrebbero sempre voluto fare, fondamentalmente senza alcuna fretta, per il piacere di farlo. Volevamo costruire un racconto di melodie di piano incrociate a chitarre e registrazioni ambientali e poi stratificare il tutto con archi e noise, chiaramente ispirati alla musica per film.  Come musicisti abbiamo iniziato negli anni ’90, poi le vite si sono specializzate e diversificate in ambienti lavorativi corollari alla musica e per un motivo o per l’altro avevamo smesso di comporre per noi ed abbiamo ciascuno a suo modo iniziato a farlo per gli altri. Quindi nel tempo libero, trovando gli strumenti musicali nelle case di amici, di famiglia, nei tour per altri progetti, è venuto fuori questo album, lasciato maturare lentamene. Poi la pandemia e le sue conseguenze ci hanno costretti  a lasciare tutto in un cassetto. Ed ora grazie alla Memory Recordings di Fabrizio Paterlini, che ha creduto nel progetto, finalmente pubblichiamo.

 

Progetti futuri? 

Abbiamo il grande desiderio di tornare a suonare live, ma anche di continuare a comporre musica. Attraverso il Field Recording, che è una tecnica di registrazione di ambienti sonori per film, e svela sempre nuovi spunti su cui costruire melodie. E continueremo a cercare vecchi pianoforti che suonino bene, che restituiscano immaginazione e contemplazione. Incrociare le nostre esperienze e creare musica con continuità. Anche attraverso il percorso dei live show, non bloccare mai il flusso creativo. Questo è il progetto più ambizioso.

 

Come vi immaginate il vostro primo concerto live post-pandemia?

Ci immaginiamo un live molto minimale, ma tecnologico, come può esserlo un concerto oggi, grazie anche al progredire delle tecnologie digitali nell’arte. Computer che pilotano immagini girate in pellicola, strumenti acustici ed elettronici ben bilanciati, un concetto di live moderno, basato sulla magia del suono acustico e le possibilità di interagire con il digitale. Siamo molto ottimisti sul futuro dei live shows se si imbocca la strada giusta.

Tre Domande a: Cristiana Verardo

Come stai vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?

Con serenità. Da Marzo 2020 ho iniziato a pensare a come sfruttare al meglio la quantità di tempo a disposizione. Ho letto, ho scritto, mi sono annoiata e ho progettato. Credo che questo momento di fermo abbia messo al centro molte problematiche legate al lavoro dell’artista, bisogna anche fare un “mea culpa”, in tanti non hanno potuto richiedere il bonus messo a disposizione dallo stato perché non in possesso di nemmeno una giornata di contributi e questo non va bene. Ci lamentiamo di non essere considerati lavoratori come gli altri e siamo primi a non pretendere che le cose siano fatte in regola. Come si dice, “per cambiare il mondo bisogna cambiare se stessi”.

 

C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare?

Sarò banale, Carmen Consoli. Diciamo che se riuscissi a collaborare con Carmen Consoli avrei raggiunto un obbiettivo che mi sono prefissata da tempo, perché è in linea con la mia idea di fare musica, è un’artista seria, del Sud come me, le sue canzoni ti rimangono sotto pelle, sarebbe bello, chissà.

 

Come ti immagini il tuo primo concerto live post-pandemia?

Mi fa un po’ paura. Non so come reagirò, se riuscirò a tenere il palco, se l’emozione sarà troppa, se sbaglierò gli accordi o le parole, mi sento come una macchina tenuta per tanto tempo in garage, che prima di girare la chiave non hai la certezza che possa partire, mi sento così.

Bennett “II” (To Lose La Track, 2021)

Ce l’avete mezz’ora? Anche qualcosa di meno. 

Allora utilizzando il supporto a voi più congeniale (tipo io me la tiro un po’ perché per il mio genetliaco mi è arrivato il vinile edizione limitata tinta mustard che è ‘na figata anche solo dal punto di vista estetico, ma che poi se lo ascolti la gratificazione cresce esponenzialmente) avviatevi all’ascolto del secondo disco dei Bennett, quartetto toscano in forza alla sempre affidabile To Lose La Track.

Il lavoro in questione si intitola curiosamente II (leggasi due, 2) – mentre il debutto, di quattro anni più vecchio, si intitola I (leggasi uno, 1) – e si articola in otto tracce che travolgono l’ascoltatore con il chiaro intento di non fare troppi prigionieri, anzi.

Ora, l’espressione è casualmente azzeccata, sebbene involontaria, se pensiamo che il nome della band, come si può leggere in rete, è dedicato ad un personaggio del film Commando, quello con l’ex governatore della California che ha i proiettili a tracolla e spara con cannoni in spalla e altre simpaticissime dimostrazioni di potenza e risolutezza.

Aggettivi che ben si sposano con questo II, basta superare i primi quattro accordi di Distant per capire le intenzioni dei quattro: chitarre belle pesanti e distorte, batteria che picchia forte, scream taglienti, insomma ingredienti calibrati e ben amalgamati per un risultato oltremodo convincente. Anzi, a tratti davvero entusiasmante, come nella jesuslizardiana All Right, o nella dirompente Hurricane, davvero bella.

II, vista anche la lunghezza molto contenuta, è un disco che non concede pause (giusto forse un paio di frangenti nella conclusiva Hug(hes) Me), diretto e compatto come uscite di questo tipo dovrebbero suonare – non stupisce infatti scoprire che sia stato mixato da quel Jonathan Nunez, chitarra dei delicatissimi Torche – ed adattissimo, se ascoltato in questo periodo dell’anno nel quale magari fuori dalla finestra le foglie ingiallite cadono a terra e magari piove e magari è martedì, a svoltarvi la giornata. 

 

Bennett

II

To Lose La Track

 

 

Alberto Adustini

 

 

P.S. Va da sé che se le premesse su disco sono queste, qualunque data live nell’arco di 100 km da casa vostra non dovrebbe essere persa per nulla al mondo.

Mighty Oaks “Mexico” (Howl Records, 2021)

A volte la nostra mente inizia a viaggiare, produce a ruota libera pensieri che sembrerebbero scollegati tra loro e poi, ragionando, riusciamo a trovare il filo rosso. Ascoltando Mexico, il quarto album dei Mighty Oaks, mi sono ritrovata a ripetere nella mia testa che “Il fiore che sboccia nelle avversità è il più raro e il più bello di tutti”. Ma cosa c’entra la citazione di Mulan? Apparentemente niente e posso solo sperare che il trio rock indie e folk di Ian Hooper, Claudio Donzelli e Craig Saunders abbia visto il film.

I Mighty Oaks si aspettavano di vivere il 2020 impegnati in un tour mondiale a seguito del loro album All Things Go uscito a febbraio dello scorso anno, ma la pandemia ha stravolto i piani. Tuttavia, la band non ha perso tempo e si è impegnata nella scrittura di Mexico, composto da dodici tracce emozionanti. Per Hooper è stato il momento perfetto per realizzare il sogno di lavorare nel suo studio di registrazione casalingo: “È stata la prima volta dal nostro album di debutto in cui ho avuto il tempo di scrivere un sacco di canzoni per questo album”, ha detto il cantautore statunitense. I tre, infatti, hanno deciso di registrare in casa di Hooper, che ha dichiarato: “Registrare in casa mia è stato un colpo alla cieca. […] Erano tutti nervosi, me compreso. Ma alla fine si è rivelata essere la cosa migliore che avremmo potuto fare. C’è qualcosa nel registrare a casa che ci ha fatto ritornare alle origini, quando io e Claudio avevamo iniziato a fare musica nel suo appartamento insieme.”

Il singolo che dà il nome all’album si apre con un eloquente “Oh right now times are hard” e non possiamo che essere d’accordo: i tempi adesso sono difficili. Sin dagli inizi, i brani dei Mighty Oaks sono intimi, rispecchiano le emozioni del trio e di chi ascolta. Le parole arrivano dirette e ci raccontano di noi ed è bello pensare che un gruppo nato a Berlino e formato da persone provenienti da paesi diversi (Stati Uniti, Italia e Regno Unito) riesca a parlare di sentimenti universali. La musica unisce il mondo. Inoltre, è bene ricordare che i tre sono cantanti e polistrumentisti, una ricchezza che è un vero e proprio marchio distintivo.

Ogni album dei Mighty Oaks è più maturo rispetto al precedente, arricchito dalle esperienze di vita dei musicisti. Oggi la nostra forza mentale è messa alla prova, stiamo vivendo una pandemia, nel mondo si parla di razzismo, ambiente, diritti umani, omobitransfobia e femminismi e pensiamo a quanto sarebbe bello scappare in un luogo o in un tempo senza problemi. Citando Land of Broken Dreams, un altro singolo estratto da Mexico: “Go ahead and cry/What makes you bitter, makes you wise/And I hope you’ll try/To see on past the darkest times/Cuz life, it can seem/Like a land of broken dreams/But now those dreams are all you got/Beneath your feet.”.

La quarantena ci ha portato a riflettere sui valori delle nostre vite e sui rapporti che contano, quindi non poteva mancare un brano come By Your Side, che con grande semplicità esprime la volontà di restare accanto a chi amiamo. “You know that I’ll be/Right by your side/If you need me day or night/Oh I’ll be right there for you/For you” è il ritornello della canzone e termina con “La la la la la”, un verso che riesce a essere il vero protagonista del pezzo e rafforzarne il messaggio.

I Mighty Oaks raccontano di loro e di noi e ci hanno regalato un quarto album che raccoglie le riflessioni che ci hanno accompagnato in quest’ultimo anno. Mexico è musica nata in un periodo di avversità e per me l’arte che “sboccia” nelle avversità è la più rara e la più bella di tutte. 

 

Mighty Oaks

Mexico

Howl Records

 

Marta Massardo

About how Mighty Oaks reflect their emotional state into music

Leggi questo articolo in Italiano qui

Mighty Oaks did plan to spend their 2020 touring the globe, but it wasn’t possible: they have therefore conveyed their energies in recording their forth album Mexico (Howl Records), planned for release on May 7. Due to the occasion, we had a chat with Claudio Donzelli, who told us the emotions and the experiences that brings their music to life.

 

Back in February 2020 you released All Things Go and after a bit more than a year you are here again with your new work Mexico. What does it mean to you to bring something new to life while the whole world is on hold?

“The pandemic changed everything, including the typical lifecycle of an album. When the lockdown started in March 2020, we had an incredible plan for the rest of the year, tons of great shows in Europe and US. We were looking forward to touring our third album All Things Go but it soon became clear that such restrictions were going to have a huge impact on our tour schedule. In the impossibility to play any shows at all, we thought that we would best invest the time in writing new material. Nobody knew what was coming but we knew that once this nightmare would be over, we would have been ready with new music to release and perform live. It’s been our way to cope with the lockdown and besides that, it kept us sane and focused during times of uncertainty.”

 

The trait I prefer out of Mexico is its particular intimacy. What do you like the most of your album? And what is, in your opinion, its uniqueness, that special something that differentiates it from your previous releases?

“I love when an album is a snapshot of where we are individually and as a band at the time of making it. When I know that we managed to reflect our emotional state in the music we make. I think this is the case for Mexico. We lived through unprecedented times, with climate change, racial issues and broken politics. You’ll find some of that in the album, but you’ll also find represented universal traits of the human experience like love, friendship and death. I love the juxtaposition between the two. At the end of the day each of us has to confront his interior world with the exterior world we live in. I think its uniqueness is in the process. We recorded almost everything ourselves in Ian’s home studio. The result is more raw, direct and unfiltered than ever before.” 

 

Ian Hooper said that recording at home felt like going back at the beginning of your career. Is it an experience worth making again?

”Absolutely, and it feels right and very natural to go back to that way of working at this stage of our career. After three albums out and as many EPs it was time to reshuffle the cards and bring some fresh energy in the studio. The same fresh energy that Ian and I were immersed into as we were recording music the first tracks, laying the foundation of the band, in 2010.”

 

You all come from different Countries and the band was born in Germany: how your different origins influence and/or enrich your music?

“First of all, it enriches our experience of working together. Second our music, but it’s really hard for me to say exactly how our cultural background reflects in the music we make and even if we grew up in different places, the music we heard growing up with was not so crazy different. For example, I grew up listening to mostly brit pop and US indie bands in the 90s/00s.
In general, internationality is really part of our nature, even beyond the band: in our team we have professionals from France, Switzerland, Austria, Germany of course and people with Hungarian and Turkish backgrounds. It’s quite common in Berlin as the city became a huge international hub in the past 10 to 20 years.”

 

If I ask you to sum up your artistic journey up to now, what will you tell me?

“Wow, that’s a really hard question! I’ll give it a try! (smiles)
I think we’ve always been interested in finding powerful ways to tell stories that resonate with people. We do that through Ian’s lyrics that are often inspired by autobiographical events. We do that with the music which serves and supports the story. Our artistic journey unfolds in developing, perfecting and experimenting with the craft of songwriting.” 

 

Last but not least, a piece of advice to our readers: which album recently released would you absolutely recommend to listen to?

Earth by EOB (Ed O’Brien, guitarist of Radiohead) has been the best album I’ve heard in while. It really raptured me. It came out during the pandemic last year and it really made me travel without moving when traveling wasn’t allowed. It’s a wonderful multifaceted record with contaminations of different genres and musical flavors.”

 

Marta Massardo

Di come i Mighty Oaks riflettono il loro stato emotivo nella musica

Read this article in English here

I Mighty Oaks si aspettavano di vivere il 2020 in tour ma non è stato possibile: hanno quindi convogliato le energie nella realizzazione del quarto album Mexico, in uscita il 7 Maggio per Howl Records. Per l’occasione, abbiamo chiacchierato con Claudio Donzelli, che ci ha raccontato le emozioni e le esperienze che danno vita alla loro musica.

 

A febbraio del 2020 avete pubblicato All Things Go e dopo poco più di un anno tornate con Mexico. Cosa ha significato per voi far nascere qualcosa di nuovo mentre il mondo sembrava fermo?

“La pandemia ha cambiato tutto, incluso il tipico ciclo vitale di un album. Quando il lockdown è iniziato a Marzo 2020, avevamo un piano incredibile per il resto dell’anno, tonnellate di grandi show in Europa e negli Stati Uniti. Non vedevamo l’ora di portare in tour il nostro terzo album All Things Go ma presto diventò chiaro che le restrizioni avrebbero avuto un impatto enorme sul nostro programma. Nell’impossibilità di non poter suonare per niente i nostri concerti, abbiamo pensato che fosse meglio investire il tempo nello scrivere del nuovo materiale. Nessuno sapeva cosa sarebbe successo ma sapevamo che quando l’incubo sarebbe passato, saremmo stati pronti con della nuova musica da pubblicare e da suonare dal vivo. È stato il nostro modo di affrontare il lockdown, ci ha tenuti sani di mente e concentrati durante tempi di incertezza.”

 

L’aspetto che preferisco di Mexico è la sua particolare intimità. Cosa preferite invece voi del vostro album? E qual è il suo tratto distintivo rispetto ai vostri lavori precedenti?

“Mi piace quando un album è un’istantanea di dove siamo individualmente e come gruppo al momento di farlo. Quando so che siamo riusciti a riflettere il nostro stato emotivo nella musica che facciamo. Penso che questo sia il caso per Mexico. Abbiamo vissuto attraverso tempi che non hanno avuto precedenti, il cambiamento climatico, i problemi razziali e una politica disastrata. Troverete qualcosa di tutto questo nell’album, ma troverete anche rappresentati tratti universali dell’esperienza umana come amore, amicizia e morte. Mi piace la giustapposizione tra i due (aspetti, NdR). Alla fine del giorno ognuno di noi deve confrontare il proprio mondo interiore con il mondo esterno in cui viviamo. Penso che la sua unicità sia nel processo. Abbiamo registrato quasi tutto da soli nello studio casalingo di Ian. Il risultato è più grezzo, diretto e non filtrato che mai.”

 

Ian Hooper ha dichiarato che registrare in casa è stato come tornare agli inizi del vostro percorso. È un’esperienza da rifare?

“Assolutamente, ed è sembrato giusto così e molto naturale tornare a quel modo di lavorare in questa fase della nostra carriera. Dopo tre album e altrettanti EP era giunto il momento di mischiare le carte in tavola e portare un po’ di energia fresca in studio. La stessa energia fresca in cui Ian ed io eravamo immersi quando registravamo le prime tracce, gettando le fondamenta per il gruppo, nel 2010.”

 

Voi provenite da paesi diversi e la band è nata in Germania. In che modo le vostre origini influenzano o arricchiscono la vostra musica?

“Innanzi tutto, arricchiscono la nostra esperienza di lavorare insieme. In secondo luogo, la nostra musica, ma è davvero difficile per me dire esattamente come i nostri background culturali si riflettono nella musica che facciamo e anche se siamo cresciuti in posti diversi, la musica che abbiamo ascoltato crescendo non era poi così tanto diversa. Per esempio, io sono cresciuto ascoltando principalmente Brit Pop e gruppi indie americani negli anni ’90/’00.
In generale, l’internazionalità è veramente parte della nostra natura, anche oltre il gruppo: nel nostro team abbiamo professionisti da Francia, Svizzera, Austria, Germania ovviamente e persone con background ungheresi e turchi. È molto comune a Berlino in quanto la città è diventato un enorme hub internazionale negli ultimi 10-20 anni.”

 

Se vi chiedessi di tirare le somme di tutto il vostro percorso artistico fino a oggi?

“Wow, questa è una domanda davvero difficile! Ci provo” (sorride, NdA)
Penso che siamo sempre stati interessati a trovare modi potenti di raccontare storie che risuonano con le persone. Lo facciamo attraverso i testi di Ian che sono spesso ispirati da eventi autobiografici. Lo facciamo con la musica che si mette a servizio e supporta la storia. Il nostro percorso artistico si rivela nello sviluppare, perfezionare e sperimentare con l’arte del songwriting.”

 

Infine, qual è secondo voi un altro album uscito di recente che dobbiamo assolutamente ascoltare?

Earth di EOB (Ed O’Brien, chitarrista dei Radiohead) è stato il miglior album che ho sentito da un pezzo a questa parte. Mi ha letteralmente rapito. È uscito durante la pandemia lo scorso anno e mi ha veramente fatto viaggiare senza muovermi quando viaggiare non era permesso. È un meraviglioso album pieno di sfaccettature con contaminazioni di diversi generi e gusti musicali.”

 

Marta Massardo

Tre Domande a: Malacarna

Come e quando è nato questo progetto?

Malacarna nasce nel 2016 durante un breve periodo di permanenza nel mio paese d’origine Brienza. Il tutto accade nella mia casa di campagna, circondata da colline fiorenti che inghiottono la valle disseminata di vigneti, ulivi e querce. In cima alla montagna di fronte, si erge un Santuario dell’anno 1000 che con i suoi rintocchi di campana mi osserva da quando ero bambino.Questo luogo ha sempre rappresentato per me uno spazio di profonda ispirazione e intimità ed è stato determinante nella composizione di questo progetto.
Il tutto nasce con dei Blues semplici, rauchi, urlati o sommessi, dove qua e la balenano immagini sacre e profane, amore e morte. La lingua inglese ne costituisce l’ossatura con i suoi suoni semplici e immediati che generano sibilanti impossibili da riprodurre nella lingua italiana.
Le tracce registrate chitarra e voce, venivano spedite con un vocale direttamente sul cellulare di Vince. Ciò che mi tornava indietro era entusiasmante, le visioni di quei testi si vestivano di suoni eterei, pungenti, estremi, rumori grezzi allo stato primordiale ma sapientemente cesellati come sculture con echi e delays, elevati all’ennesima potenza da ritmi tribali, rulli incessanti, tuoni che echeggiavano lontani oppure battiti di ali che accompagnavano la voce.
Due direzioni diverse, diametralmente opposte ma in perfetto equilibrio tra loro. Questa è la caratteristica che da sempre accomuna me e Vince. Io che cerco nel blues, la composizione semplice ed essenziale mentre Vince nella sua ricerca sonica è un “alchimista”, intento ad utilizzare i più svariati metodi per vivisezionare un suono per poi ricomporlo in qualcosa di rumoroso ma allo stesso raffinato ed etereo oppure dolce, struggente e intimo.
Il progetto prende vita in questo modo ispirandoci l’un l’altro, io con la mia voce, Vince con suoi suoni.
Inutile dire che la vera svolta è avvenuta quando Vince ha espresso esplicitamente il desiderio di autenticità in questo progetto e che forse era arrivato il momento di usare la nostra lingua (Il dialetto) per raccontare la nostra cultura e le nostre storie.
Per me è stato un duro colpo, mi sono ritrovato nudo davanti ad uno specchio, ho sempre scritto brani in inglese perché il mio background musicale proviene assolutamente dal Blues e dal Rock in tutte le sue varianti. Mi sono ritrovato senza un linguaggio a disposizione, senza un modello dal quale attingere.
Un giorno riflettendo su uno dei brani che avevo già scritto in inglese (Dead Calm Sea), ho intuito che in realtà le immagini dei miei testi risiedevano nei proverbi, nei racconti e nelle figure retoriche appartenenti alla mia cultura.
Dead Calm Sea quel mare calmo ed insidioso non era altro che un proverbio Burgentino “iumë cittë nun passà” ovvero “fiume silente non attraversare” è stato come scoperchiare un contenitore dal quale attingere.
Gli stornelli di mio nonno, gli aneddoti, le canzoni popolari, i luoghi immaginari, terre di Santi e di riti pagani, abitavano la mia immaginazione da sempre.
Quella storia la conoscevo bene, me l’aveva raccontata mia nonna, si collega alla tragica vicenda di una paesana che camminando lungo l’argine del fiume in piena, mise un piede in fallo scomparendo tra le acque impetuose.

Mare Citte (Mare Silente): La prima canzone scritta in dialetto Burgentino, di fatto il brano che ha ispirato il progetto.

Marë cittë

“Si vuó vëní cu mi’ ind’a stu marë cittë
tu më rëcistë a mi
nun passá ca të nichë“

Mare silente

“Vieni con me in questo mare silente
ricordo quando mi dicesti
di non attraversare prima d’annegare”

 

Se doveste scegliere una sola delle vostre canzoni per presentarvi a chi non vi conosce, quale sarebbe e perché?

Senza dubbio il brano più rappresentativo di questo progetto è Nunn’è Rrëlorë. Questa canzone è stata una delle ultime ad essere concepita ma che porta con sé tutta la consapevolezza di cosa vuol essere Malacarna.
Nunn’è Rrëlorë è un concentrato di tutte le influenze sonore, stilistiche e di linguaggio che io e Vince siamo diventati, componendo questo disco.
Dico: “siamo diventati” perché compere un viaggio musicale inedito, ti porta inevitabilmente ad attraversare un processo di “autoanalisi”, di trasformazione del tuo “io musicale” che ti cambierà per sempre.
Le influenze stilistiche assimilate nel tempo che risiedono dentro di te in forma latente, finalmente vengono alla luce, impregnando così la tua “personalità artistica”, diventando connotati riconoscibili della tua scrittura.
Scavare dentro di sé è un processo di crescita estrema, un processo di maturazione che porta a saziare il proprio “ego creativo” e a rinnovarne la sete.
Tutto ciò è una sorta di effetto a catena che genera nuove energie ed apre a nuove idee e concetti.
Quando si comincia a scrivere, la visione di ciò che si fa è appannata, offuscata, l’embrione non ha forma, sarà il processo finale a definirne i dettagli, i connotati e i contorni con linee definite.
Nunn’è Rrëlorë è la realizzazione del quadro, la visione finale: un insieme di influenze Blues/Tribal/Goth/Industrial/Ambient intrise della passione di Vince per la cinematografia di David Lynch, Jodorowsky e Roger Corman, attraverso una meticolosa e approfondita ricerca.
Anche dal punto di vista lirico il dialetto si impossessa estremamente della sua capacità espressiva, attraverso “la poetica della detrazione “con concetti semplici, evocativi ed eloquenti.
Il ritornello è costituito da uno “Stornello” che recitava spesso mia nonna, la tematica Bene/Male/Vita/Amore/Morte si sintetizza in questo brano, bozzetti di jazz linguistici (come accade nei testi di Bob Dylan) si rincorrono in maniera apparentemente insensata, ottenendo con le due voci in alternanza, la proiezione di visioni contenenti tutti gli elementi costituenti di quest’opera: “la cultura popolare con la sua morale universale, credenze religiose, sacro e profano, superstizioni, detti locali, storie popolari, citazioni, situazioni familiari e storie al confine tra il mitologico e il grottesco”.

Nunn’è rrelore (Non è dolore): Il Vero male Traccia d’apertura dell’EP

Nunn’è rrëlorë

“(Nunn’è rrëlorë) chi rëlorë së sendë (Quand’è rrëlorë) chi perdë l’amandë
(si ‘u pierdë muortë) no nunn’è nniendë
(ma si ‘u pierdë vivë) e ttë passa pë ‘nnandë”

Il vero male

“(Il vero male non è) provare dolore
(il vero male è) perdere l’amato
(se lo perdi morente) non è il vero male
(ma se lo perdi in vita) e ti incrocia ignorandoti”

 

C’è un artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare?

Credo che la questione collaborazioni sia una delle cose meglio riuscite di questo progetto. Prima di elaborare Malacarna in chiave dialettale, Vince mi aveva passato Sanacore (Almamegretta) da utilizzare come spunto per la stesura dei testi. Il caso ha voluto che Vince entrasse in contatto col manager di Raiz il frontman degli Almamegretta, da questo incontro è nata un’affinità artistica e stima reciproca che è sfociata in un suo featuring per il brano Oh Signorë.
Una vera e propria perla nel disco, Il timbro di Raiz dona al brano vibrazioni incredibili e la sua performance è indubbiamente da brividi. Con il suo enorme spessore artistico è riuscito ad immedesimarsi sia nel mio dialetto (Lucano) che nelle atmosfere tribal/noise, donando tridimensionalità a tutto il pezzo.
Il senso di gratitudine e di soddisfazione per la collaborazione di Raiz valgono davvero tutti i sacrifici fatti per questo EP. Le mie parole non sono comunque sufficienti ad esprimere quanta stima artistica provo per lui.
L’altro punto di svolta di Malacarna è l’incontro di Vince con l’artista Dorothy Bhawl, colui che ha ricreato La Malacarna in termini estetici, una donna dall’aspetto inquieto, che trasmette un senso continuo di timore, metallo prezioso e metallo povero, sgorgano a fiotti dai suoi polsi, mentre con fare stanco si lascia andare sul suo trono profano. Questo personaggio appare e scompare sotto forma di donna un po’ dappertutto nel disco, si fa carico del suo fardello di condannata dalle malelingue ad essere causa di espiazione e dolore. Ovviamente questo personaggio vuol essere solo un punto di partenza per un discorso molto più strutturato sulle credenze popolari. Dorothy Bhawl è senza dubbio il terzo membro della band, Vince si è limitato a fargli ascoltare i brani e lui ha fatto il resto riuscendo a rendere perfettamente visibili i temi del disco.
È incredibile come le sue opere sembrino scaturire esattamente dai miei testi. La copertina è di forte impatto, si tratta di una lingua su di un vassoio d’argento che sbava oro ma è trafitta da tre chiodi della crocifissione. Il potere evocativo di queste immagini riesce davvero ad imbrigliare, tutti i temi trattati nel disco.