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Mese: Marzo 2020

Gulliver spicca il volo con “Terranova”

Gulliver è il nome che rappresenta il nuovo percorso artistico di un nome già noto ai più: Giò Sada. L’artista ha deciso di presentarsi con una inedita veste sonora, dall’immaginario preciso e ampio, convogliando il tutto nel suo nuovo album Terranova, pubblicato il 28 febbraio scorso. 

Gulliver ha deciso di ripartire da zero, con coraggio e determinazione, facendo scelte estremamente personali e libere da condizionamenti del mercato discografico attuale. Questo lavoro rappresenta un nuovo inizio per il cantautore pugliese che vuole riportare la musica all’esperienza dell’ascolto svincolandola dal legame con l’immagine, l’esteriorità, dal rapporto col pubblico attraverso il “personaggio” e non il contenuto. L’obiettivo è ritornare a una dimensione più autentica, come esperienza di condivisione.

È effettivamente un cambio di rotta, quello fatto da Giò Sada, l’anima rock a cui eravamo stati abituati, infatti, ha lasciato spazio a toni più pacati, dolci, il cui filo comune è la volontà di trovare e dare pace.

Per l’uscita del suo nuovo lavoro non abbiamo potuto esimerci dal fargli qualche domanda, dal chiedere di raccontarci che percorso lo abbia portato a questi nuovi porti.

Ecco cosa ci ha raccontato. 

 

Raccontaci il tuo nuovo album Terranova, focalizzandoti su quelle che secondo te sono le sue “pietre angolari”.

Avevo in mente come sottotitolo per l’album Elogio al naufragio, perché attraverso un naufragio, spesso conseguenza di una scelta azzardata hai la possibilità (se non prevale il solito piangersi addosso) di spingerti oltre quello che la tua immaginazione può concepire e di avventurarti inevitabilmente verso ciò che non conosci e poi il rifiuto di naufragare va a braccetto con il rifiuto di mettersi in gioco che è tutto il contrario di quello che si dovrebbe fare per poter poi raccontare una storia. La seconda pietra è il ritrovarsi, ossia ritrovare la motivazione alla base del viaggio intrapreso, il naufragio passeggero si sgretola e diventa materiale per costruire la propria strada. La terza è continuare a credere ciecamente alla possibilità di poterci immaginare un avvenire migliore della prospettiva decadente che non riusciamo ad abbandonare.

 

Come è cambiato il tuo percorso artistico in questi ultimi anni?

Sono cambiate principalmente le domande che mi faccio, sono cambiati i miei interessi sonori, la ricerca si è spostata da un approccio musicale più istintivo ad uno più attento ai particolari, ho cominciato a dare fiducia alla fragilità e alla delicatezza che fanno parte di me come la capacità di gridare. Avevo ed ho ancora bisogno di sentire e dare pace.

 

Parlando di nomi, come mai la scelta di Gulliver come pseudonimo?

Gulliver è stato scelto perché in me genera dei ricordi esotici, legati alle immagini che accompagnavano i racconti che ho letto da bambino, allegoricamente avendo attraversato mondi sonori molto distanti tra di loro sia musicalmente che a livello organizzativo mi sono sentito come lui quando passo dopo passo si addentra in terre sconosciute e ci resta fino a quando non sente il bisogno di ripartire.

 

Se dovessi trovare 3 canzoni, italiane e non, per descriverti, quali sarebbero?

Dunque, direi: Bandiera Bianca di Franco Battiato; Conquest of Paradise di Vangelis; E se ci diranno di Luigi Tenco.

 

Ci sono stati degli ascolti che ti hanno particolarmente influenzato nella scrittura del disco?

Dato che non sono solo in questo progetto ma c’è anche Marco, che è colui che ha curato tutta la produzione del disco, diciamo che c’è stato un incrocio di gusti abbiamo cercato una chiave tra i nostri ascolti e continueremo a farlo. Ci ha influenzato il mondo delle colonne sonore, del nuovo e del vecchio utilizzo dell’elettronica e il buon cantautorato moderno e passato.

 

Quale è stato il processo creativo e di produzione che ti ha portato a questo album? Svelaci qualche aneddoto dallo studio!

Il processo creativo è partito nel 2017 in seguito all’arrivo di canzoni che, come ho detto all’inizio, sono volute venire allo scoperto attraverso di me a distanza anche di mesi l’una dall’altra, ognuna di queste in seguito a un evento specifico ed ho usato l’attesa e la fiducia per raccoglierle. Il lavoro in studio è stato invece costante e attento, a tratti estenuante. Abbiamo provato vari vestiti per ognuno dei brani ed è stato centrale in questo anche Pasquale Pezzillo, fondatore dei JoyCut, produttore nel disco dell’ultima traccia.

 

Mi ha colpito molto la copertina, l’artwork ha un significato particolare?

Volevo che la copertina fosse molto suggestiva, che spingesse ognuno a credere che quella sagoma in controluce potesse in qualche modo rappresentarli. Una figura umana che si eleva dalle macerie di un mondo in lontananza (inteso principalmente come mondo interiore) per andare verso “Terranova” ossia una nuova idea di se stesso. Più consapevole.

 

gulliver disco

 

Dici che i tuoi testi parlano di “resilienza”, termine molto usato in questi anni, ci spiegheresti il suo significato nelle tue canzoni?

Forse il tema centrale è proprio questo, ogni canzone di questo disco affronta a modo suo la tematica del ritrovare lo slancio nel superare i propri limiti, spesso emotivi, perché se nella realtà abbiamo l’impressione di essere liberi, siamo poi internamente ancora troppo schiavi delle emozioni, che non sono sempre da preservare.

 

Sappiamo del tuo passato rock, come ti identifichi all’interno della scena musicale attuale e cosa ne pensi dei nuovi fenomeni itpop?

Non saprei come definirci come progetto, cantautorato influenzato da vari mondi sonori che ci piacciono, dall’acustico alle colonne sonore più orchestrali, all’elettronica da sintetizzatore modulare diciamo, cantautorato curioso.

 

Cosa dobbiamo aspettarci dal punto di vista live? Puoi anticiparci qualcosa?

Poche parole e un bel viaggio da fare.

 

Mariarita Colicchio e Filippo Duò

Human Impact “Human Impact” (Ipecap Recordings, 2020)

Il 3 agosto del 1530, durante la battaglia di Gavinana, Fabrizio Maramaldo (da cui il termine di uso comune, nonché fonte di incontrollate risa tra i soldati romani di Life Of Brian dei Monty Phyton) venendo meno alle regole della cavalleria, ferì a sangue freddo e trucidò il corpo di Francesco Ferrucci, condottiero per la repubblica di Firenze, gravemente ferito durante il conflitto ed in punto di morte. In questo frangente Ferrucci pronunciò la celeberrima “Vile, tu uccidi un uomo morto!”.

Ebbene in questa fase della mia esistenza, già duramente provata da queste settimane di clausura, con le difese immunitarie (figurate, s’intende) in lieve difficoltà, una psiche che talvolta vacilla, mi pareva di essere in una situazione analoga. Ora lungi da me dare del vile ai quattro ragazzi dei quali a breve scriverò, sia mai, ma ecco, se ti metti ad ascoltare un disco come Human Impact, che è cosa buona e giusta, devi essere consapevole che stai per affrontare un viaggio tutt’altro che semplice e confortevole e che difficilmente ne uscirai totalmente incolume.

È una partenza abrasiva, quella di November, disturbante, affidata a basso, batteria e synth, con la chitarra di Spencer temporaneamente sullo sfondo. Il primo impatto ricorda decisamente più ciò che erano i Cop Shoot Cop rispetto alle altre forze in gioco, anche se il frontman degli Unsane provvede comunque a fornire il suo apporto con la voce, sporca e cattiva come abbiamo imparato ad amarla negli ultimi trent’anni. 

I ritmi impazziti e le urla lancinanti nel finale di E605 sono un’eco nemmeno troppo lontana degli ultimi trascorsi degli Swans del periodo da The Seer in avanti, mentre con la successiva Protester, sincopata e serratissima, torniamo più in zona Spencer/Unsane.

È infatti da queste tre band immortali e imprescindibili, accomunate dalla provenienza (New York City) e dal non aver mai avuto grande pietà per i timpani dei propri fan, che provengono i quattro Human Impact. Tecnicamente credo sia impossibile non parlare di supergruppo in un caso come questo: come già detto Chris Spencer, col suo berretto, voce e chitarra, proveniente dagli Unsane; ai synth ed elettronica provvede Jim Coleman, ex Cop Shoot Cop; il basso è quello di Chris Pravdica, attualmente con gli Swans (ma che lo scorso anno avevo visto in tour assieme agli Xiu Xiu, e dove c’era anche Thor Harris esatto, anch’egli Swans); alla batteria Phil Puleo, fondatore con Coleman dei Cop Shoot Cop ed attualmente dietro alle pelli dei monolitici Swans.

Insomma non i quattro ceffi più raccomandabili sulla faccia della terra, e le cui esperienze, pregresse ed attuali, sommate tra di loro, fanno presagire ad un risultato ben poco rassicurante; vedasi in Portrait, con Spencer che quasi rende omaggio ai sermoni apocalittici di Michael Gira, ma dura poco, perchè le intenzioni collettive sono differenti, e ben più bellicose, qui si vogliono smuovere viscere e interiora, spazzare via ogni tipo di possibile ostacolo.

E a proposito di ostacoli, non mancano gli inciampi o mezzi passi falsi: Respirator sembra un pezzo alternative degli anni ’90 al quale è stato messo su un ritornello recuperato da vecchie registrazioni e che pare non centrare molto con l’insieme, e Cause pare continuare l’andazzo, salvo poi ristabilire l’ordine stabilito piazzando senza tanto pensarci su un finale travolgente, peccato duri troppo poco.

Consequences alza un po’ il tiro e i giri, anche se non riesco a non trovare continui riferimenti e parallelismi con quel power – electro – rock – metal anni ’90 in stile Static X, Powerman 5000. Non so se rendo l’idea.

Consci del fatto che probabilmente stavano un po’ troppo tirando la corda pronti con la travolgente Unstable, una bella cavalcata con basso in spinta continua e poi ecco This Dead Sea, con un’intro che evoca i Korn di Somebody Someone ed una batteria che ora sì ci smuove dall’interno. Sono schianti e tuoni e saette (cit.), Spencer a sparare fuori tutto dalla sua gola e martoriare le sei corde, i sintetizzatori a creare la tensione massima, per un finale di brano, e di disco, di travolgente e tumultuosa bellezza.

 

Human Impact

Human Impact

Ipecap Recordings

 

Alberto Adustini

 

Therapy? “Greatest Hits (The Abbey Road Session)” (Marshall Records, 2020)

30 e non sentirli

 

Era il ’92 quando il mondo conosceva Nurse, il primo disco major dei Therapy?, trio nordirlandese che festeggia nel 2020 i trent’anni di vita.

Da sempre di difficile catalogazione, caratteristica che al giorno d’oggi suona più come un vanto ed una stella al merito, questo Greatest Hits (The Abbey Road Session) intende raccogliere, a mò di Bignami, i dodici brani che Andy Cairns e soci hanno piazzato nella top 40 britannica, decidendo però di risuonarli ad Abbey Road, in una sorta di ritorno al presente, per brani, come appunto l’opening track, Teethgrinder, che faceva bella mostra di sé nel già citato Nurse.

Partenza schizofrenica, con Neil Cooper a mettere a dura prova il rullante, mentre Screamager ci riporta in territori più punk. I giri tornano a salire su Opal Mantra, con fendenti di chitarra taglienti e ficcanti e non puoi non sorprendenti di quanto fresca e attuale suoni una canzone come questa, che di anni ne ha più di venticinque.

Turn è il primo asso calato dai Therapy?, estratto da quel Troublegum, (probabilmente) il loro punto più alto, sicuramente dal punto di vista commerciale, anche se Nowhere non è da meno, anzi (cosa non fa Cooper in sto brano!), e non puoi non percuotere ogni cosa ti capiti a tiro e cantare “going nowheeere”.

Si salta convinti anche con Trigger Inside, durante il quale si apprezza più che altrove lo stato di salute eccellente (no pun intended) della band e l’ottima resa di questo pseudo live.

Die Laughing vede l’ingresso in scena dell’unica guest del disco, James Dean Bradfield, Mr. Manic Street Preachers, per passare poi ai poliritmi sfrenati di Stories, uno dei momenti più alti del disco.

Loose fa da antipasto per rendere omaggio ad uno dei gruppi a cui i Therapy? sono più legati (ed anche il sottoscritto), ovvero gli Hüsker Dü, con una Diane meno disperata ed arresa forse, ma non sfigura affatto.

Il giro mozzafiato di basso di Church of Noise per una tirata in apnea di tre minuti e la cavalcata punk di Lonely, Cryin’, Only suggellano quella che sulla carta ha i crismi di un’antologia (e che antologia!), ma che nella realtà dei fatti ci mostra i Therapy? che prendono la carta d’identità e ce la strappano davanti agli occhi.

 

Therapy?

Greatest Hits (The Abbey Road Session)

Marshall Records

 

Alberto Adustini

Dai film ai videogiochi, il percorso di Lindstrand

Henrik Lindstrand di recente ha pubblicato il suo nuovo album Builder’s Journey, che abbiamo recensito qui. Incuriositi da questo album particolare, gli abbiamo chiesto com’è stato comporre per la prima volta la colonna sonora di un videogioco e dei suoi progetti futuri.

 

Da musicista rock e compositore di colonne sonore (di film), qual è stata la tua prima reazione quando LEGO Games ti ha contattato per ideare l’ambiente sonoro di un videogioco?

“L’ho presa come una nuova opportunità per addentrarmi in un’area creativa che non avevo mai esplorato prima. Inoltre, è stato incoraggiante sapere che avevano ascoltato il mio primo album da solista e che quindi erano interessati a lavorare con me come compositore per questo gioco. Come compositore di colonne sonore per il cinema, ho lavorato a generi molto diversi. Questo l’ho sentito come un progetto più personale fin dall’inizio.

Anche se il processo creativo era molto aperto, eravamo d’accordo sull’estetica generale della musica. È un sogno per un compositore quando ti viene chiesto di creare per qualcosa che è già parte della tua espressione.”

 

Quali sono, secondo te, le principali differenze fra il comporre musica per il cinema e per i videogiochi?

“La differenza principale è che il tempo non è limitato come nei film. Ogni giocatore trascorrerà un diverso quantitativo di tempo in ogni livello, il che richiede delle composizioni musicali che possano essere dilatate e che varino nel tempo. Builder’s Journey non contiene dialoghi e ha degli effetti sonori molto casuali. Quindi, la musica ha un’importante ruolo narrativo per aiutare a raccontare la storia e creare l’atmosfera insieme alla progettazione del gioco.”

 

Guardando a Builder’s Journey, viene naturale compararlo con Monument Valley: quali riferimenti hai usato per la colonna sonora per questo gioco?

“Non avevo particolari riferimenti nella fase compositiva. Ho scritto i temi per i personaggi e per alcuni dei livelli come Fireplace e Gameshow. Un metodo abbastanza simile a quello che utilizzo quando scrivo per i film. Mi sono focalizzato sulle melodie e sui temi inizialmente più che sull’atmosfera di sottofondo. Più avanti abbiamo guardato ai giochi come Florence e Inside per vedere come la musica i suoni sono stati implementati nelle transizioni tra livelli.”

 

La tracklist dell’album sembra suggerire una narrazione. Mi fa pensare alla mia infanzia quando giocavo sia all’aperto che in casa. Hai immaginato l’album come una storia o come una raccolta di diversi momenti?

“Penso che la musica abbia un aspetto narrativo nel gioco. Era anche importante che la musica potesse essere autonoma e piacevole da ascoltare al di fuori del gioco. Ogni titolo può essere visto come una parte di questo piccolo viaggio. Inoltre, crescendo io stesso con i LEGO, c’era un elemento nostalgico mentre componevo per i mattoncini.”

 

Il design del suono dell’album è denso ed intenso e dà un’atmosfera completa e notevole. Come hai prodotto i suoni dell’ambiente?

“Ho seguito lo stesso schema di regole come per i miei album da solista. Questo significa che ho utilizzato solo un pianoforte e un pianoforte a coda come fonti sonore.”

 

Quali suoni hai usato maggiormente per creare l’atmosfera di Builder’s Journey?

“Tutti gli strati della musica di sottofondo sono vengono da pianoforte e pianoforte a coda e sono poi stati processati e manipolati lungo il percorso. Credo che questo dia un suono organico in generale. Ho usato tape delays, granular synthesis e vari riverberi, delays ecc. per creare quegli ambienti sonori.”

 

Builder’s Journey sarà materiale per delle performance live?

“Ho già eseguito la title track in due concerti in Danimarca quest’anno e spero di utilizzare altro della colonna sonora per i miei concerti live in futuro.”

 

Cosa vedi nel tuo futuro dopo la pubblicazione di Builder’s Journey? Continuerai a focalizzarti sulla tua carriera da solista o dobbiamo aspettarci nuova musica dai Kashmir?

“Attualmente sto lavorando con LEGO a dei nuovi progetti. Sto anche per finire il mio terzo album da solista e sono in contrattazione per nuovo film più avanti quest’anno. È altamente improbabile che pubblicheremo nuova musica con i Kashmir a breve termine ma vedremo cosa ci porterà il futuro. Non vedo davvero l’ora di riunirmi questa primavera per la prima volta dopo sei anni sul palco con i ragazzi.”

 

Grazie mille e ci vediamo in giugno a NorthSide e Tinderbox!

“Prego, grazie per il vostro interesse – a presto!”

 

Giulia Illari Francesca Garattoni

Foto di copertina: Robin Skjoldborg

 

Grazie a Ja.La Media Activities

Anna Calvi “Hunted” (Domino Recording Company, 2020)

Ma perché, mi chiedo io, perché? Hai fatto un disco pazzesco, uno dei miei preferiti del 2018, e decidi di riprenderlo in mano, riarrangiarlo, e pubblicarlo e nemmeno due anni di distanza…

Perché?

Vediamo, forse perché se ti chiami Anna Calvi ne verrà comunque fuori un gran disco. E se decidi di avere anche compagnia, beh, ancora meglio. 

Scrivere di questo Hunted, avendo nei mesi scorsi consumato il fratello maggiore Hunter mi fa strano, lo ammetto, e partivo un po’ prevenuto. Come spesso mi accade per le ristampe, edizioni deluxe, remasterd, unplugged e via discorrendo. Sono snob. O qualcosa di simile, lo so.

Poi però i fatti amano sorprenderti, anzi, sbatterti in faccia la realtà e dimostrarti una volta di più che certi preconcetti, certi giudizi avventati e aprioristici sarebbe la volta buona di lasciarseli alle spalle e pensare che non sono solo operazioni commerciali, o riempitivi, tappabuchi, uscite senza pretese in periodi di magra ispirazionale (non sono sicuro dell’esistenza di questo termine, avviso).

Prendiamo proprio Swimming Pool, la prima di queste sette rivisitazioni, che si presenta qui in versione scarnita, spoglia degli archi e degli altri orpelli rispetto alla versione originale, con un semplice arpeggio di chitarra che trova sostegno nel controcanto celestiale di Julia Holter, ora solo coro, ora intermezzo, ora seconda voce. Sono già brividi.

Lo aveva annunciato la Calvi stessa che uno dei motivi principali di questo Hunted era, nelle sue intenzioni, quello di riportare questi brani alla loro forma archetipale, un ritorno all’essenza per così dire.

Per una Swimming Pool resa celestiale dal duetto con la Holter, una Hunter nella quale Anna torna ad arrangiarsi, regalandoci una versione più disturbante e notturna ed una successiva Eden che, devo ammetterlo, preferisco qui che su Hunter; saranno i bisbigli di Charlotte Gainsbourg, sarà l’ipnotico finale, non lo so, ma questa è poesia. Alta. Punto.

Away è così ridotta all’essenziale che per lunghi tratti sembra quasi a cappella, con la voce riverberata, una chitarra acustica che compare, si allontana, torna a far capolino, per accompagnarci dolcemente, con garbo, lontano.

Se mi avessero chiesto prima “Abbiamo qui Courtney Barnett, che dici? Quale canzone potremmo farle fare in duetto con Anna?” avrei risposto senza indugio Don’t Beat The Girl Out Of My Boy. Ed infatti. Una chitarra, elettrica il giusto, per una versione che sarebbe stata bene addosso alla PJ Harvey del periodo Dry/To Bring You My Love, un po’ acida, un po’ sporca, un po’ cattiva. Brutta no.

Wish era invece quella che aveva attirato più della altre la mia curiosità, non foss’altro per la presenza, ingombrante, inutile negarlo, di Joe Talbot, voce degli Idles (per i quali confesso avere una grande simpatia. E profondo rispetto. Mi piacciono in parole povere). E nemmeno sta volta riesco a rimanere neppure un pizzico deluso. O indifferente. No. Parte quasi bofonchiando, Joe, ma neanche trenta secondi e ci pare di essere quasi in piena no wave newyorkese, con echi nemmeno troppo lontani di Alan Vega e dei suoi sbalzi umorali improvvisi, infatti d’un tratto ecco il dolce duetto, quasi sognante, ma dura poco, poi è di nuovo ossessivo il riff principale, dal quale emergono fendenti di chitarra che dai Suicide portano dritti ai Velvet Underground, giusto per non cambiare città. Poi torna la quiete, ci pensa Anna, a riportare la calma, a condurci dolcemente in fondo.

Il finale, gran finale, con Indies or Paradise, mi ha portato a fare un parallelismo istantaneo con un video che ho visto qualche tempo fa, con protagonista un’altra guitar hero, ovvero St. Vincent. In questo video parla dei suoi riff preferiti, quelli che avrebbe voluto scrivere, e via discorrendo. Ad un certo punto, verso la fine, inizia a suonare, chitarra e voce, Fort Six & 2 dei Tool. Recuperatelo e poi ascoltate appunto Indies or Paradise e ditemi se non parlano la stessa lingua. A ste latitudini i 4/4 non si sono mai visti, Anna ci propina un campionario di altissimo livello, sembra andare a braccio, ora canta, ora sussurra, poi bisbiglia, esplode, s’inarca e si accartoccia, fa un po’ quello che le pare. Ed è magnifico.

 

Anna Calvi

Hunted

Domino Recording Company

 

Alberto Adustini

Henrik Lindstrand “Builder’s Journey” (One Little Indian, 2020)

Henrik Lindstrand, già membro del gruppo alternative rock danese Kashmir, è un compositore svedese di musica contemporanea neoclassica e di colonne sonore per il cinema.

Builder’s Journey è il suo terzo album da solista: dieci brani composti ed eseguiti al pianoforte, ideati per la colonna sonora di un videogioco, LEGO Builder’s Journey per l’appunto.

Un progetto peculiare, questo, ma al cui richiamo emotivo non ha saputo dire di no: “[lo studio di produzione, NdR] Avevano ascoltato il mio primo album da solista Leken e mi chiesero se fossi interessato a comporre la colonna sonora per il videogioco. Mi sembrò un’idea vincente, e dato che ero stato un bambino costruttore con i LEGO io stesso, aveva anche un forte elemento nostalgico per me.”

Ascoltando l’album si ha la sensazione immediata di entrare nella realtà aumentata di un ricordo dell’infanzia. Puoi rivederti toccare curioso i tuoi giocattoli preferiti ed interromperti ad osservare lo spazio oltre il vetro di una finestra, alla ricerca di nuove trame e personaggi.

Come i LEGO, le tracce di Builder’s Journey si completano dando vita ad un arco temporale sospeso, scandito dalla fine di un gioco e l’inizio di un altro mentre si aspetta il ritorno dei genitori a casa.

Lindstrand alterna gli ambienti intimi di brani come Our House e Kid and Dad Reunited, agli spazi all’aperto ed eterni di Sand Castle e Campfire.

Dad at Work è il brano più dinamico e asincrono, la batteria ti coglie di sorpresa.

Ascoltando Builder’s journey, il brano che ha anticipato l’uscita dell’album, non stiamo sbirciando dal finestrino di un auto una foresta di aghifoglie nel nord Europa?

Il suono delicato del pianoforte, perno centrale dell’album, pervade gli spazi abitabili di Builder’s Journey e restituisce la percezione di un luogo serafico. L’ ambiente sonoro, ricercato ed idillico, che avvolge le tracce suggerisce la visione di una luce diffusa e diurna mentre due mani piccole afferrano quei mattoncini di plastica.

La sensibilità di ogni traccia porta l’ascoltatore lontano ma dentro a qualcosa che ha già vissuto. Così la mancanza di parole viene colmata dal suono dei nostri pensieri a ritroso. A tal proposito, Lindstrand racconta di aver cercato di rendere la musica autonoma ed completa in modo che non risultasse un anonimo suono di background e compensasse la mancanza di dialogo nel gioco.

Builder’s Journey è un album tattile, generativo ed introspettivo. Brani come Gameshow e The factory stimolano un’esigenza creativa che affiora ad ogni nota sospesa. Home alone, Light Brick ne affermano la natura intima e nostalgica.

In conclusione, questo disco non è semplicemente la colonna sonora di un videogioco, ma un’opera che testimonia il grande talento di Lindstrand nel dare respiro ad immagini riconoscibili ed universali.

 

Henrik Lindstrand

Builder’s Journey

One Little Indian

 

Giulia Illari

I Deux Alpes e l’eleganza dell’elettronica

Siamo agli sgoccioli di questo inverno indubbiamente difficile e non c’è niente che possa aiutarci a stare meglio più della musica, in particolare quella che ti fa ballare e alla fine dell’ascolto ti scorre nelle vene.

Non sembra, quindi, essere un caso che proprio a fine Febbraio esca Casa Mia, il nuovo singolo dei Deux Alpes, duo elettronico di Milano.

Se, tuttavia, dall’elettronica ci aspettiamo un sound da discoteca, con un brano che gira tutto intorno alla propria esplosione, non è questo quello che troveremo in Casa mia, che sin dal primo ascolto si presenta come un brano introspettivo, quasi intimo, che incanta grazie al basso e alla batteria e, soprattutto, alla voce di Marta Moretti dei Tersø. 

La prima parola che viene in mente ascoltando il pezzo è “ipnosi”, intesa come allontanamento dalla propria dimensione per immergersi nella scoperta del ricordo e di se stessi. Insomma, Casa mia trasporta chi l’ascolta in un limbo in cui i suoni che compongono la melodia scandiscono una serie di immagini incisive ma semplici, senza troppi fronzoli.

La cosa che, a mio parere, contraddistingue il mood dei Deux Alpes (così come la loro musicalità) è sempre stato l’essere unici. È difficile, almeno per me, trovare qualcuno che in questo momento, nel panorama italiano, usi e manipoli la musica come fanno loro. Questa unicità rende certamente più difficile la piena comprensione del loro progetto al primo ascolto perché crea, sicuramente, una sorta di straniamento tale per cui è necessario non solo un secondo ascolto, ma anche una certa attenzione.

 Forse già dal nome è evidente, come lo è sempre stato, che i Deux Alpes appartenessero ad un immaginario d’oltralpe, ad una musicalità nordica. Ma con questo brano hanno definitivamente sancito il loro essere europei tanto che neppure la lingua distrae dal fatto che starebbero davvero benissimo sul palco di un festival francese o danese. Non è infatti distante dall’eleganza che caratterizza le produzioni nordiche, così come la voce di Marta suona quasi come un inno su cui perdersi, sognare ed entrare nell’immaginario onirico tipico di quei luoghi.

I Deux Alpes, anche in lingua italiana, sono quindi un progetto sicuramente ricercato e intelligente, certamente non pop. Il che, sia ben chiaro, nel loro caso non può essere che un pregio. 

Casa Mia, infatti, è un gioiellino intenso ed espressionista, più adatto ad un ascolto intimista e solitario che ad un viaggio in macchina con amici. Ma, nella sua componente essenziale, resta un brano bello, puro, attento e ragionato. Uno di quelli da mettere per impressionare, uno di quelli che, alla lunga, entrano di merito nel bagaglio musicale di un ascoltatore.

È, quindi, ben lontano dalla musica di alto consumo, dalle rotazioni continue in radio accanto a Gabbani o dall’essere adatto a tutti, ma è sicuramente questa la sua dote più accentuata, il suo asso nella manica.

In questo momento in cui tutto è adatto a tutti e davvero poco resta, infatti, sono certa che i Deux Alpes, con questo brano, siano riusciti a creare qualcosa che rimanga, forse non a tutti, ma sicuramente a chi sarà disposto ad ascoltarlo davvero.

 

Mariarita Colicchio

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