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Mese: Luglio 2020

I DEFTONES a Bologna per una DATA UNICA nel 2021!

DEFTONES

UNICA DATA ITALIANA IL 22 GIUGNO A BOLOGNA

 

La band di Chino Moreno si prepara a tornare in Italia per una data unica il prossimo anno: l’appuntamento da segnare in calendario è martedì 22 giugno 2021 al Sequoie Music Park di Bologna. I biglietti per il concerto sono già disponibili sui circuiti di vendita Ticketone, Ticketmaster, Vivaticket e Boxerticket.

 

Tra i capostipiti del nu metal, i Deftones sono attualmente al lavoro sul loro nuovo album, il nono in studio, che secondo indiscrezioni dovrebbe uscire entro quest’anno.

 

L’hard rock trae nutrimento da conflitto e caos, e non esistono band che abbiano saputo creare un mix migliore di aggressività e bellezza meglio dei Deftones.Los Angeles Times

 

www.deftones.com

 

DEFTONES

 

Martedì 22 Giugno 2021

Bologna, Sequoie Music Park / Parco Caserme Rosse – via di Corticella

 

Posto unico in piedi: € 34,00 + prev.

 

Biglietti disponibili su Ticketone, Ticketmaster, Vivaticket e Boxerticket. Diffidate dai canali di vendita non ufficiali!

 

Sharptooth “Transitional Forms” (Pure Noise Records, 2020)

Girls Power Level Pro

 

Molto spesso nella vita mi son sentita dire “Eh ma sei una donna, non puoi farlo”.

Appartenere al sesso femminile implica una serie di comportamenti e atteggiamenti che devono essere socialmente accettati. Chiunque esce dalla norma automaticamente viene additata come strana, diversa.

“Una ragazza non può fare growl, non può fare screamo come un uomo”.

BENE.

Vi presento gli Sharptooth, capitanati dalla strepitosa Lauren Kashan, con Keith Higgins e Lance Donati chitarre, Peter Bruno al basso, Matt Hague alla batteria.

Da Baltimora, nel Maryland, esportano la ribellione punk hardcore con il loro Transitional Forms. 

Suoni duri, arrabbiati, frutto di anni di lavorazione che hanno portato ad una crescita e alla delineazione di uno stile più personale rispetto al primo album. Un punk hardcore visto attraverso gli occhi di una grande donna, supportata da uomini che la incoraggiano in tutto.

La rabbia trasmessa dal growl di Lauren ha la potenza distruttiva di una bomba atomica, e il primo brano dell’album, Say Nothing (In the Abscence of Content) sfata il mito che le donne non siano capaci a cantare in questo modo specifico, e concretizza le doti vocali di Lauren, nonché il talento di ogni singolo musicista.

Un grande senso di tristezza e inadeguatezza precede l’entrata del secondo brano, Mean Brain, dove una voce di bambina ripete, come una cantilena “Nobody likes me, everybody hates me, guess I’ll go eat worms…” e pervade tutto il brano, nella completa sensazione di disperazione e odio verso se stessi.

In Life on the Razor’s Edge inseriscono elementi elettronici, che accompagnano la storia di una vita condotta appunto sull’orlo del rasoio a causa di un amore malato.

La poliedrica voce di Lauren ci stupisce in Hirudinea (tradotto: sanguisuga) con tratti in cui diviene melodica, ma il testo decisamente forte non riesce ad addolcirla. (A riprova che può cimentarsi in qualsiasi stile, ma lei HA scelto il growl.)

La comparsata di Justin Sane (Anti-Flag) con la sua voce acida e acuta crea un forte contrasto con la schiacciante ringhiata di Lauren in Evolution.

Troviamo 153 che inizia come un classico pezzo punk per trasformarsi in qualcosa di più oscuro a livello sonoro, ma come testo rappresenta l’inizio della presa di coscienza di sé e della propria potenza, e dell’accettazione della propria diversità come una cosa positiva su cui costruire dalle macerie della propria rabbia.

La crescita rispetto al primo album è palese, sia nel cantato sia nell’unione degli strumenti. Lauren dimostra tutta la sua competenza nel gestire anche altri stili, passando dallo screamo al melodico.

Una band da conoscere, ascoltare anche per chi non ama il genere. 

Se non siete abituati al growl e ai suoni hardcore spinti, mi raccomando abbassate il volume, perché Lauren è tosta.

 

Sharptooth

Transitional Forms

Pure Noise Records

 

Marta Annesi

Rufus Wainwright “Unfollow the Rules” (BMG, 2020)

La regola di Rufus

 

Nella mia famiglia non ci sono laureati. Mio fratello ed io ci abbiamo provato (o ci stiamo ancora provando) a concludere, mentre i miei genitori per origine, possibilità o sorte si sono fermati molto prima. Eppure tra le mura domestiche, da che ne ho memoria, si è sempre respirata un’aria non direi intellettuale, alta, ma si percepiva in maniera tangibile come l’ignoranza fosse un nemico da debellare, al pari della maleducazione. Un abbonamento ultradecennale al Club degli Editori aveva portato in dote una libreria di assoluto rispetto e un’enciclopedia di svariati volumi. Se dovessi associare il mio papà ad un’immagine sarebbe senza dubbio La Settimana Enigmistica appoggiata sopra alla Garzantina sul comodino accanto al letto. Mia mamma invece è una radio accesa in ogni stanza, simultaneamente, con un repertorio che propone con la stessa facilità la Callas impegnata nella Casta Diva e L’immensità di Don Backy. Giusto per contestualizzare.

Accade che qualche settimana fa stavo disquisendo di nulla in particolare con la mia genitrice e all’interno di una frase, mezza in dialetto mezza in italiano, la sento usare il termine affettato; sul momento non ci faccio troppo caso ma poi torno subitamente indietro e quasi arrogante chiedo lumi. L’arroganza iniziale si è fatta presto resa incondizionata, ma giuro, davvero non avevo mai sentito o visto utilizzare quella parola. Non nell’accezione dell’insaccato s’intende, sia chiaro. 

E perché tutto sto discorso? Perché non nego che in qualche passaggio, in (più di) qualche frangente nella carriera di Rufus Wainwright, io abbia trovato la sua musica artificiosa, sempre di qualità elevata, ma meno spontanea e sincera di quanto non lo fosse ad esempio ai tempi di Poses, per dirne uno.

Ed invece, a questo (nono) giro è davvero necessario riporre l’affettato in frigo (scusate l’eccezionale gioco di parole, non ho potuto resistere) perché Unfollow The Rules è un gran buon disco (chamber?) pop. 

Prendete l’apertura, affidata a Trouble In Paradise, o la successiva Damsel In Distress, per avvertire in maniera nitida la freschezza e la brillantezza di scrittura del nostro, che a dispetto del brio delle parti strumentali, tra i versi sottende una sincera analisi riguardo alle maschere che indossiamo, ai sorrisi coi quali celiamo dei dissidi, all’orgoglio stolto che ci allontana dal nostro vero io.

Il piano e voce che introducono il brano che dà il titolo al disco riportano l’ascolto nelle zone che più mi hanno fatto innamorare dell’artista di Rhinebeck, quei momenti di lirismo assoluto, da quel “tomorrow I will just feel the pain” a precedere un cambio tempo di una bellezza sfacciata, tale da costringermi a “riavvolgere il nastro” più volte; pochi accordi di piano, diluiti, quasi languidi, che trovano un’improbabile quadra con la chitarra e la batteria, che quando ritorna la voce con un significativo “don’t give me what I want, just give me what I’m needing” non sembra nemmeno più di essere all’interno della stessa canzone. 

Eppure funziona così, quando si ascoltano quelli bravi davvero.

Il clima torna a farsi quasi giocoso, con You Ain’t Big, o si sconfina in lidi quasi (quasi) folk con Peaceful Afternoon per poi tornare a volare altissimi con Only The People That Love, una stesura magnifica, curata, immediata, “Only the people that love / May dream / May Cry / May fly”. La successiva This One’s For The Ladies (THAT LUNGE!) strizza l’occhio all’ultimo John Grant (ammesso che non sia più probabile il contrario), ipnotica e sospesa, clima proseguito da una enigmatica My Little You.

I toni si fanno più notturni e compassati in Early Morning Madness, sebbene la coda in crescendo mi perplima non poco; ad ogni modo un piano quasi da cabaret introduce Devils And Angels (Hatred), che si sviluppa poi secondo canoni più classicheggianti di quanto l’inizio facesse intendere (o sperare).

La chiusa di Alone Time è il colpo di coda del campione, la zampata di pura classe, un piano appena accennato, un controcanto ispiratissimo a tinte quasi gospel, un testo di struggente, candida bellezza, che quasi ti muove alle lacrime (“But don’t worry, I will be back, baby / To get you on the wings of a perfect song”).

È il disco che personalmente mi riappacifica, mi ricongiunge con Rufus Wainwright, che una volta affrancato, dimesse le vesti patinate che spesso lo hanno nascosto, torna a mostrare la sua più profonda (e nuda) natura. 

 

Rufus Wainwright

Unfollow the Rules

BMG

 

Alberto Adustini

Make Them Suffer “How to Survive a Funeral” (Rise Records, 2020)

L’estate non è una stagione per vecchi. Le zanzare, il caldo appiccicoso. La drammatica felicità di tutti gli altri che spesso mette a disagio.

Siete incazzati? Delusi? Vi sentite non capiti?

FATELI SOFFRIRE.

Un consiglio che viene dalla terra dei canguri, dove i Make Them Suffer sono nati e cresciuti, presentandosi sulla scena metal nel 2010. 

Dall’Australia, grazie al loro talento, hanno colonizzato il resto del globo, con il loro sound totalmente metalcore.

Il lockdown ha posticipato l’uscita fisica del loro ultimo lavoro How To Survive A Funeral di quasi un mese; anticipato dall’uscita del singolo e del videoclip Erase Me, caratterizzato da una musicalità da hit parade melodic metal, questo pezzo ha tutto, dai cori ritmati, all’alternanza di un growling con una dolcissima voce femminile. Il brano è molto orecchiabile, il testo è una preghiera arrabbiata, “ti ho spezzato abbastanza, quindi non odiarmi, cancellami”. Allontanare le persone è un’azione altruista o egoista? Questa domanda, posta dal gruppo, è uno spunto di riflessione.

L’aria carica di deathcore si respira per tutto l’album. Il primo brano è una dichiarazione di guerra. Ha una partenza morbidissima grazie al suono delle tastiere, per poi subire un cambio schizoide, con la batteria impazzita, in speed metal, con un growl potente. 

Lo speed metal è ripreso anche in Falling Ashes, follia pura, con vocalizzazioni durissime (indubbie le doti canore di Sean Harmanis) che passano rapidamente al growl spintissimo.

Ritornelli acchiappaorecchio sono una particolarità di questo gruppo, come in Bones passa da un metal molto duro ad un metal melodico, nostalgico.

Troviamo Fake Your Own Death che è sulla scia dell’esaltazione del metal, e Soul Decay che ci insegna a lasciar andare le situazioni distruttive, a liberare il cuore dalla prigione in cui ci siamo autorinchiusi.

I pezzi di questo album sono estremamente diversi, ma legati insieme dai testi e dalla consapevolezza del gruppo. Ogni strumento è in piena armonia con il resto, la dualità della voce del cantante testimonia talento, e impegno.

Nonostante i testi sembrino “da depressione giovanile”, la band ha regalato una chiave di lettura diversa. L’accettazione di sé, del proprio passato conduce ad una nuova luce da perseguire, improntata al miglioramento della persona stessa. Ma questo processo è possibile solo venendo a patti con l’anima, con i traumi passati. Riconoscere i propri limiti emotivi e lavorare sodo per innalzare il proprio io verso la liberazione dalle catene mentali autoimposte.

“La vita è troppo breve per passarla sempre arrabbiati”, la citazione di American History X cade a pennello per la visione dei Make Them Suffer, la rabbia è un sentimento vero, e ha bisogno di essere capito e metabolizzato per sciogliersi.

Album consigliatissimo per gli amanti del genere.          

 

Make Them Suffer

How to Survive a Funeral

Rise Records

 

Marta Annesi

Pearl Jam @ Autodromo Imola

Autodromo Enzo e Dino Ferrari (Imola) // 5 Luglio 2020

 

• Il concerto che non c’è •

 

Scena 1
Torino, esterno, giorno.
Inside Job

Il giorno prima di ogni concerto, soprattutto se dei Pearl Jam, corro.
Cuffie nelle orecchie e corro. Lascio che la loro musica entri in circolo con la respirazione, seguo il ritmo, mandando all’aria ogni buon consiglio sulla corsa. Visto da fuori sembrerò pazzo, più che un allenamento è riallineamento, una overdose di musica propedeutica una razione doppia di endorfine.
Ma è liberatorio, col sudore se ne vanno pensieri inutili e preoccupazioni, cerco di tornare alla neutralità, pronto all’urto del concerto.
Correre, quasi un lusso. Appartengo a quella schiera di runner cui è stato impedito di sudare in pubblico. Non è stato un sacrificio, non credo di aver fatto la mia parte rinunciando a così poco. Però mi mancava.
Guardo le gambe, sento la destra che perde colpi, usurata da pallavolo e calcio.
Guardo davanti e sorrido, perché ogni volta, più o meno verso lo stesso albero (sarà l’ossigenazione del cervello che salta sempre allo stesso chilometro), mi suggerisco la solita, facile metafora della corsa come allegoria della vita. Inizio, sudore, fine. Superamento costante dei propri limiti. Un passo dopo l’altro. E giù di cliché a pioggia, un ibrido tra Moccia e i perugina. E se Moccia fosse un ghost writer dei messaggi dei baci? E se avesse iniziato così?
Inizia a piovere.
Corro e scarto pensieri. Corro e costruisco storie che vorrei fermare, vorrei scrivere, ma sono liquide, come liquido sto diventando io. Come stai Andrea? Come arrivi a questo concerto?
Eddie mi ricorda proprio adesso che “how I choose to feel is how I am”. Le parole delle canzoni, mentre il tuo cuore pompa sangue e I tuoi muscoli iniziano a lamentarsi entrano come coltelli nel burro e non fanno a tempo a depositarsi che subito provocano catene di associazioni, è come stare su un tapis roulant al Louvre. Rimangono impressioni, torneranno su più tardi, coll’acido lattico.
Corro col solo obbiettivo di costringere il corpo a cercare il letto prima della mente. Stanco, devo essere stanco. Stasera non penserò a domani, o subentrerà l’ansia da prestazione, per me e per loro.
Cazzo quanto piove.
Oddio, arriva. 

Let me run into the rain
To be a human light again

Dissolvenza in nero.
Inside Job.

 

 

Scena 2
Interno auto, autostrada, giorno.
Light Years

I viaggi in auto verso i concerti sono come le prime pagine dei libri. Hai curiosità e diffidenza verso qualche faccia nuova, o magari sei felice come un bambino, perché ritrovi personaggi lasciati lì, chiusi dopo l’ultima pagina dell’ultimo concerto.
Si parla di qualunque argomento, l’importante è che dalle casse esca musica che vada bene a tutti.
La dimensione del viaggio ci era stata negata, e mai come ora capisco quanto sia importante mettere chilometri tra il proprio divano e un qualcosa che accade altrove.
Chilometri, parole, musica, un’autostrada che si riempie sempre più di automobili piene di nostri simili, diretti verso lo stesso luogo, stessi sorrisi, stesse colonne sonore, magari stesse storie.
Dalle casse riconosco Light Years, e la domanda è sempre la stessa: le canzoni capitano casualmente nei momenti giusti o sono i pensieri che seguono segretamente le note e ti ritrovi a pensare se le canzoni capitino casualmente.
Al Pinkpop Festival del 2000 Eddie Vedder dedicò questa canzone all’amica Diane Muus, scomparsa tre anni prima, a trentatré anni. Eddie così parlò: “sometimes you have got friends that don’t fuck up at all and are great people. And then you just lose them for some reason. They are off the planet and you never had a chance to say goodbye. I only mention this because there was a person we used to know here and that was Diane and ah, we never got a chance to say goodbye. This is goodbye. And if you’ve got good friends, love them while they’re here.
Ecco, la risposta è no, non capitano casualmente. È stato un periodo di addii negati, di persone perse senza uno sguardo reciproco. Un ultimo, consapevole, gesto d’amore. Abbiamo delegato tutto questo senza poterci opporre. È un peso che cala lento.
E allora prendiamoci questo concerto per curarci un po’, per raccontare le nuove cicatrici.
Siamo stati immobili, come pietre, ma la musica ci ha continuato ad illuminare.
Mi giro, I tre sono persi a discutere se con la partenza di Abruzzese sia davvero andato tutto a fanculo.
Sorrido, godiamoci questo viaggio, che mai come in questo 2020 si sta come al Pinkpop sul palco Eddie Vedder.

Your light’s reflected now, reflected from afar
We were but stones, your light made us stars

Dissolvenza in nero
Light Years.

 

 

 

Scena 3
Autodromo Enzo e Dino Ferrari, pit, esterno, tramonto.
Release

Trovato posto, il nostro posto nel pit, conosciuto i vicini di spalla.
Birre, cesso chimico, birre.
È incredibile come l’alimentazione prima di un evento impegnativo come un concerto sia, generalmente, liquida. Siamo astronauti.
L’aria cambia, sale un po’ di vento ad asciugarci, la sera sta arrivando, porta musica. Pixies andati, visti a Torino e recensiti, sapevo avrebbero fatto muovere le chiappette anche a questi giovini, linee di basso come schiaffi, irresistibili.
Adesso però ho bisogno di un’assoluzione.
Adesso ho bisogno di un’onda sonora che riallinei me al mondo, me alla musica, me a questo momento che aspetto ogni anno, come una medicina unica e rara.
In Let’s Play Two c’è un momento che mi rovina la vista, annacquandola, ogni volta. È all’inizio di Release, quando Eddie introduce la canzone. Cerca un certo John, “wherÈs John?”:

TherÈs a guy named John in the front. WherÈs John?
I just want to point out one guy at the front,
because he was the first guy in line two days ago; four days ago.
And he wanted to be in front for this song, because it meant a lot to him.
HÈs going through some stuff, and wÈre gonna help him.
Sing with me

Musica.
Lo stadio intona insieme a Eddie un lungo e profondo Oooohhhhhhhhh….

How are you doing now, John?

Oh, yeah.

Come va adesso Andrea?
Ho resistito, ho tenuto botta, ho teso i muscoli per mesi, per arrivare qua. Altro che quattro giorni, io è una vita che sto in fila. E sono e sarò John per sempre e per sempre avrò bisogno di essere lì, quando ci sarà bisogno di una “o” bella lunga e bassa, per ritrovarsi, riallinearsi e dirsi, senza troppi problemi che siamo passati attraverso qualche casino e che abbiamo un bisogno fisico di catarsi, di una benedetta catarsi di massa possibile solo attraverso la somministrazione consapevole e volontaria di basso chitarra batteria voce. Ukulele q.b. .
Cari John, lo so che siete là fuori anche voi. È tornato il momento di cantare tutti insieme, anche a cazzo di cane, ma farlo, oggi, qui, è la cosa più bella che ci sia.

I’ll ride the wave where it takes me
I’ll hold the pain, release me

Dissolvenza in nero.
Release

 

 

 

Scena 4
Autodromo Enzo e Dino Ferrari, pit, esterno, notte.
Rearviewmirror

Dissolvenza in nero

Fin qui tutto bene.
Belle le canzoni di Gigaton. Sognavo di cantare a squarciagola ravanèi remulass, barbabietole e spinass nel nanananaanaanananana di Superblood  Wolfmoon da mesi. Fatto.
Mai stato un musone da setlist scadente o presunte tali. Sapevo che anche questa volta non avrebbero deluso. C’è però una canzone che non possono non suonare. Una sola chiedo, perché è importante che mi arrivi addosso cantata da migliaia di persone e da loro, lassù, sul palco.
Fin qui tutto bene.
Poi arriva, chitarra, chitarre, batteria e basso. E via, l’autodromo esplode. Si tira fino al What I could not forgive, Mike ha già le mani al cielo. Adesso ognuno se ne va per la sua strada, poi tornano, poi via di nuovo, io vacillo.

Dissolvenza in nero

Migliaia di mani battono insieme, richiamano e reclamano. Un basso esaudisce i desideri.
Saw Things, per quattro.
Al quarto Eddie è posseduto, occhi chiusi, io galleggio. Le ombre si sono alzate, Mr. McCready è già piantato come un palo, mento in su, in estasi mistica, a sparare note sulla folla, la canzone sta per entrare nella sua terza vita, perché Rearviewmirror è una e trina, è composta, come la parola che la definisce.
Rear-view-mirror.
Batteria che corre i cento metri, io ho addosso un paio di baccanti, il pubblico dietro di me sembra un’onda impazzita.

Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.

Quando torno sulla terra, finite le note, è come se mi svegliassero da un sogno. Come se mi venisse tolto qualcosa cui tengo tantissimo. È infantile, me ne vergogno un po’, ne vorrei una al giorno di Rearviewmirror, così, tutti centomila insieme.
Insieme.


I hardly believe
Finally the shades are raised… hey

Dissolvenza in nero
Rearviewmirror

 

 

 

Scena 5
Autodromo Enzo e Dino Ferrari, esterno, notte.
Present Tense

Una Baba O’Riley che ha spostato le stelle per volume e che ha fatto ballare i sismografi chiude il concerto.
I sorrisi che si vedono dopo l’ultima nota, a luci accese, sono unici. Non li puoi trovare da nessun’altra parte. Ci sono sorrisi da sport, sorrisi da paternità, sorrisi di complicità, sorrisi irreverenti. Poi quelli da pit, che, con pochi altri, pongono una condizione precisa di tempo e luogo. Me li guardo per bene, me li tengo stretti.
Ho le orecchie che fischiano, le gambe molli, una sostanza simile al vinavil in gola.
Urge una birra, take a bottle, drink it down, pass it around.
I passi che faccio per uscire sono sempre I più pesanti, perché so che sono quelli più lontani dalla “prossima volta”. Oddio, avrei Zurigo, a breve. Però, mi concedo un sorriso ad angoli verso il basso. E un sospiro.

Dissolvenza in nero

Mi allontano. Mi metto in disparte, voglio osservare tutto questo. Perché con tutto quello che è successo ho cambiato il modo di percepire certi eventi. È come se testimoniare la realtà sia diventata un’urgenza. Ed è come se guardare questo nuovo spettacolo, con nelle orecchie ancora le loro chitarre, mi aiuti a digerire  marzo e aprile duemilaventi. Non vedere i miei genitori, gli amici, dover lavorare in continuazione per rimanere a galla, l’uscire con mascherina, autocertificazione, le code, la gente impaurita e arrabbiata, gli amici medici, gli amici ammalati, gli amici intubati. File di camion che escono da una città, i telegiornali visti di nascosto, spiegare a mia figlia perché sta succedendo tutto questo, perché i negozi nel quartiere sono chiusi e perché alcune serrande non si alzeranno più.
Chiuso, dentro.
Per fortuna c’era la musica, c’era una famiglia, c’era una bambina con cui ascoltare skipping prima di addormentarsi. Sono fortunato, lo riconosco qui e ora, del resto makes much more sense to live in the present tense.
È un mettere un piede davanti a un altro, come la corsa, metafora da due soldi.
Grazie piccolo esercito di John, siamo stati bene anche questa volta. Alla prossima.
 
You’re the only one who can forgive yourself oh yeah…
Makes much more sense to live in the present tense…

Dissolvenza in nero
Present Tense

 

 

Epilogo.
Sotto un albero, privo di ossigenazione, esterno, giorno.
Come Back

Questa volta mi sono fermato.
Ho un ultimo pensiero per me, per chi è ancora qua. Io a questo concerto ci sono andato davvero.
È durato tre mesi, forse quattro, è nato in quarantena ed è continuato ogni volta che una canzone dei Pearl Jam mi richiamava a un attimo di riflessione, a un pensiero, a un ricordo.
È il privilegio della reminiscenza, anzi, della ἀνάμνησις (anamnesi). È un qualcosa di bellissimo, un regalo della mente. È conoscenza, è il risveglio della memoria destata dalla sensibilità.
O forse non dovevo correre con 32° e assenza di ombra.
Ok, se queste saranno i miei ultimi pensieri, i miei ultimi respiri, lascio volentieri il ricordo di uno cui si alzavano ancora i peli delle braccia alla 456esima Rearviewmirror. Oppure cerco di tenere duro, fino al prossimo concerto, magari vero, questa volta.
Ecco. Come back. Il prima possibile, ne abbiamo tutti, per davvero veramente, un grandissimo bisogno.
E piove di nuovo.

If I don’t fall apart
Will my memory stay clear?

Dissolvenza in nero
Titoli di coda
Come back

 

 

 

 

Andrea Riscossa

Foto di copertina: Francesca Garattoni

 

 

MISURARE LA VITA I CUORI AFFAMATI DI AN EARLY BIRD DISPONIBILE DA OGGI RACING HEARTS, ULTIMA ANTICIPAZIONE DEL NUOVO ALBUM IN USCITA A FINE SETTEMBRE VIA ARTIST FIRST.

Incurante delle difficoltà derivate dall’inaspettata pandemia, An Early Bird continua il suo percorso di avvicinamento al nuovo disco Echoes Of Unspoken Words e lo fa con il suo singolo più ambizioso in uscita oggi venerdì 3 luglio.

Racing Hearts, distribuita da Artist First ed edita dai tedeschiEdition Mightytunes/Budde Music, è una folk ballad moderna, che si inserisce all’interno di delicate atmosfere notturne, sospesa tra Villagers e Ásgeir.

Un brano contemplativo ma estremamente pop, perfetto per l’inizio di un’estate strana come quella che stiamo per vivere, grazie a un beat

che pulsa sotto arpeggi di chitarre acustiche e riff di piano e synths.

Prodotta al Faro Studio da Lucantonio Fusaro, Claudio Piperissa e Luca Ferrari, la canzone vede la collaborazione di Old FashionedLover Boy,

alle seconde voci dopo il fortunato featuring dello scorso febbraio.

Clicca QUI per ascoltare la canzone.

È una canzone che affronta un tema che mi fa pensare molto.

Le distanze tra due persone che si cercano in qualsiasi modo.

Canzoni. Lettere. Tentativi. Guerre a distanza.

Ma cosa significa poi distanza?

Per noi tutto ha una misura.  Siamo abituati a quantificare ogni cosa.

L’amore e la vita si possono misurare? Siamo cuori che scoppiano di passione. Abbiamo bisogno di un semplice atto di fede verso l’altro per rendere qualcosa davvero memorabile. Incommensurabile.”

 

Racing Hearts è il quarto singolo in uscita dopo Talk To Strangers, One Kiss Broke The Promise e From Afar.

Il video ufficiale e una live session saranno rilasciate durante il mese di luglio.

ESTATE 2020 ACIELOAPERTO | IL RISVEGLIO In programma Calibro 35, The Comet is Coming, Nouvelle Vague, Francesca Michelin, Andrea Laszlo De Simone, Remo Anzovino

Risvegliati. Apri gli occhi e le orecchie, e guardati intorno. Rialzati, muoviti e riappropriati degli spazi comuni della città. Torna a incontrare le persone, e a far parte della comunità.
Questo è un risveglio. E il nostro è naturalmente musicale.

Dopo l’annuncio del concerto di Remo Anzovino, in programma sabato 18 luglio alla Rocca Malatestiana di Cesena alle 7:00 del mattino, ecco svelato il programma dell’estate 2020 di “acieloaperto”. Un cartellone inevitabilmente differente rispetto a quello inizialmente previsto prima della pandemia: i concerti di Niccolò Fabi, Willie Peyote e Ben Harper infatti sono rinviati all’estate 2021, mentre il live di King Gizzard & The Lizard Wizard è annullato. Ma non tutto è perduto.

Da metà luglio, poi ad agosto e settembre, sono sei i concerti previsti nei due luoghi che in questi anni abbiamo imparato a vivere e ad amare: la Rocca Malatestiana di Cesena e Villa Torlonia di San Mauro Pascoli.
Un cartellone che alterna pura musica strumentale, sia onirica che granitica, sia gentile che passionale, al cantautorato contemporaneo.

Dopo l’apertura mattutina a cura di Remo Anzovino, si torna a vivere la Rocca Malatestiana sabato 1 agosto con i Calibro 35, da oltre 10 anni solido punto di riferimento per gli appassionati di musica. Cavina, Colliva, Gabrielli, Martellotta e Rondanini ora tornano con un nuovo disco, “Momentum”: un album di rara intensità, che produce un suono senza tempo né punti cardinali in cui black music e suoni algidi del Nuovo Millennio si fondono offrendo un punto di vista incredibilmente originale sulla contemporaneità.
Giovedì 13 agosto è il turno dei tre cosmonauti musicali londinesi: The Comet is Coming. L’invito per il viaggio spaziale tra jazz, elettronica e psichedelia è aperto a tutti, e fortemente consigliato. Una volta tornati con i piedi per terra, solo pochi giorni dopo, esattamente il 16 agosto, arriva alla Rocca Malatestiana di Cesena Andrea Laszlo De Simone. Il suo sarà un concerto immersivo, un’orchestra mista tra synth, elettronica, cori, archi e fiati, un intreccio di strumenti classici e moderni: una versione contemporanea della musica da camera proprio come il suo ultimo disco “Immensità”, apprezzato anche in Francia e Regno Unito, ripropone il concetto di suite. Come un’unica sinfonia.
A fine mese si passa a Villa Torlonia a San Mauro Pascoli, dove il
29 agosto fa tappa l’unica data italiana dei Nouvelle Vague, la band che più di tutte ha reinventato il genere della “cover band”, a partire dai brani della scena punk e post-punk, con l’inconfondibile stile sognante della bossanova anni ‘50 e ‘60. Infine, martedì 1 settembreil palco di Torlonia sarà calcato da Francesca Michielin, tra i più giovani e sorprendenti talenti della musica italiana. Autrice e polistrumentista, si è sempre distinta per originalità in tutte le circostanze, anche le più importanti e al contempo complesse, come il palco dell’Ariston di Sanremo.

PROGRAMMA

sabato 18 luglio: REMO ANZOVINO (ingresso libero)
sabato 1 agosto: CALIBRO 35
giovedì 13 agosto: THE COMET IS COMING
domenica 16 agosto: ANDREA LASZLO DE SIMONE
sabato 29 agosto: NOUVELLE VAGUE (data unica italiana)

martedì 1 settembre: FRANCESCA MICHIELIN

 

La rassegna

Organizzata dall’associazione culturale Retropop Live nella splendida Rocca Malatestiana di Cesena nella suggestiva Villa Torlonia di San Mauro Pascoli (FC), la manifestazione ha portato sui palchi di queste magiche location artisti del calibro di Eels, Calexico, Black Rebel Motorcycle Club, Xavier Rudd, Belle and Sebastian, Mark Lanegan, Niccolò Fabi, Gogol Bordello, solo per citarne alcuni. Ha i patrocini dei comuni di Cesena e San Mauro Pascoli, e della Regione Emilia-Romagna.

L’associazione culturale Retro Pop Live è attiva sul territorio cesenate e romagnolo da quasi un decennio. Ha operato in numerosi locali e rock-club del territorio, organizzando concerti e distinguendosi per la proposta artistica che spazia all’interno del rock alternativo in tutte le sue sfaccettature.

Nuove prassi ecologiche

La rassegna musicale prosegue lungo il cammino dell’attenzione all’ambiente, proponendo agli spettatori semplici pratiche per dare ciascuno il proprio piccolo ma importante contributo. Uno stile sostenuto anche dal Gruppo Hera, che conferma la sua presenza affianco alla rassegna: “La multiutility si è impegnata al massimo per assicurare la continuità dei propri servizi – spiega Giuseppe Giagliano, Direttore centrale relazioni esterne del Gruppo Hera – e ora questa partnership rappresenta anche un impegno per il ritorno alla possibilità, interrotta in questi mesi, di godere nuovamente di occasioni culturali che contribuiscono a migliorare la qualità della nostra vita”. Confermata la scelta del “bicchiere amico”, operata sin dal 2015, la prima volta in Romagna. È un bicchiere in plastica resistente, lavabile, graduato, con una cauzione che obbliga lo spettatore a riconsegnarlo, per effettuarne il lavaggio e la rimessa in circolo, abbattendo la creazione di rifiuti. Nella stessa direzione, la scelta di eliminare le cannucce in plastica monouso, che non possono essere riciclate. Rinnovata la collaborazione anche con Sunice, azienda produttrice di ghiaccio alimentare ecologico, tramite un impianto che soddisfa il fabbisogno necessario alla produzione mediante sistema fotovoltaico. Infine ai bar viene somministrata acqua WAMI, in bottiglia in plastica riciclata, la cui vendita finanzia la costruzione di acquedotti in 16 diversi villaggi dell’Africa centrale.

Informazioni al pubblico

I biglietti della rassegna musicale sono disponibili in prevendita sul circuito TicketOne.
Le aree concerto prevedono esclusivamente posti a sedere, e saranno rispettate le norme anti-covid disposte dal protocollo regionale per lo spettacolo dal vivo.
Info line al 339 2140806 oppure [email protected]
Maggiori informazioni sono consultabili sul sito www.acieloaperto.ito sulla fan page facebook “acieloaperto”.

#risveglio #acieloaperto #acieloapertofestival


Associazione Culturale Retropop Live
Stampa e comunicazione
mail: [email protected]
web: www.retropoplive.it

Altra Fedeltà

Nick Hornby, negli anni novanta, riuscì a raccontare le sue passioni usando strumenti non convenzionali: il suo essere incredibilmente british, con tutti i pro e contro che questo comporta, l’ammettere candidamente le proprie debolezze, manie, fobie, idiosincrasie e anzi, farne materia per libri. Ci univano già un paio di elementi: l’amore per l’Arsenal — in quegli anni il calcio inglese era ammantato da un’aura di follia e romanticismo, e i miei Gunners erano fisici, scarsi e picchiatori, perfettamente rappresentati da capitan Tony Adams, un uomo che ha vestito di biancorosso per tutta la vita, lanciando più palloni in tribuna che in campo, anche in riscaldamento… ma questa è un’altra storia! — e ci univa l’amore per la musica e il tentativo di navigare in quel mare magnum dandosi un’idea, anche falsa, di ordine, di possesso. Fu lui che introdusse nella mia vita l’orrida idea di stilare classifiche.

Era il 1995, avevo divorato, qualche anno prima, Febbre a 90′, e adesso avevo per le mani Alta Fedeltà. 

High Fidelity è da poco anche una serie TV, dicono più vicina al testo originale rispetto al film con John Cusack del 2000 e spero arrivi fino a noi, quanto prima.
Nel libro, il protagonista Rob Fleming stila classifiche di cinque posizioni su tutto lo scibile di cui ha avuto esperienza, nel tentativo di rimettere ordine nella sua vita.
Ecco. L’altra sera, mentre scrivevo della colonna sonora di Singles, mi sono trovato in difficoltà nella scelta della canzone da aggiungere in coda alle poche righe di accompagnamento. Quel disco ha almeno cinque tracce che sfiorano la sacralità.
Il pensiero è allora andato a quegli anni e a quelle colonne sonore e ho scoperto di avere anche io una classifica delle migliori colonne sonore dei film degli anni novanta, a insindacabile (seppur sempre opinabile) giudizio del sottoscritto.

Non mi scuso per omissioni o per esclusioni, questo è.

 

10. Natural Born Killers (Oliver Stone, 1994)

Nine Inch Nails su tutti, ma con incursioni anche degli attori: Tommy Lee Jones, Robert Downey Jr., Juliette Lewis, che ai tempi cantava davvero, con tanto di gruppo ed EP.
Colonna sonora schizofrenica, per un film che è un pugno nello stomaco, che è la quintessenza della spettacolarizzazione della violenza, fuori e dentro la pellicola. Il pezzo in cui Bombtrack dei RATM sale a far vibrare i nostri divani è l’inizio della fuga di Mickey dal carcere. Il pezzo parte subito dopo la Danza della fata confetto di Čajkovskij. Contrasti a pioggia, anche a gamba tesa, come il basso di Timothy Commerford che polverizza la fatina mentre Woody Harrelson inizia il massacro finale. 

 

 

 

9. Velvet Goldmine (Todd Haynes, 1998)

È la storia e la caduta di un’icona del glam rock e il film stesso è la celebrazione del mito di quegli anni, a partire dalla swinging London fino al crollo del personaggio/cantante. Ispiratissimo a quel Bowie di Ziggy Stardust, il titolo stesso è riferimento diretto a una canzone del Duca Bianco. Il film in sé non è pezzo da cineteca, ma suona dannatamente bene, sembra una festa di compleanno per celebrare un’epoca: venne creato un supergruppo per realizzare parte della colonna sonora, con membri degli Stooges, dei Sonic Youth, dei Gumball, dei Minutemen, dei Mudhoney. I Placebo reinterpretano 20th Century Boy dei T-Rex, mentre Thom Yorke da voce al gruppo Venus in Furs per celebrare i Roxy Music.
Insomma, Todd Haynes ci regala un finto biopic pochi anni prima del suo capolavoro Io non sono qui, dedicato a(i) Bob Dylan. 

 

 

 

8. Judgment Night (Stephen Hopkins, 1993)

La quota tamarra me la gioco all’ottavo posto. Il film pare un pretesto per avere una colonna sonora che è un monumento al cafone che vive in noi.
Accadde che a vari gruppi hip-hop vennero affiancate band metal/grunge/rock.
Erano anni di crossover volontario e sperimentale, ma qui tocchiamo vette altissime. Altro che ananas sulla pizza. Un paio di esempi: Sonic Youth conditi con Cypress Hill, Helmet e House of Pain, Faith No More avec Boo-Yaa T.R.I.B.E. Nacque quella notte il Nu Metal? Ai posteri l’ardua sentenza. 
Potente. Geniale. 

 

 

 

7. Io ballo da sola (Bernardo Bertolucci, 1996)

Qui c’è stata battaglia. Avevo un clamoroso Empire Records, uno scontato Reality Bites, alla fine vince l’underdog. Qui è la bellezza tra immagine e colonna sonora a portare a casa il settimo posto. Liv Tyler era da arrossire, la colonna sonora, molto femminile, portava nelle cuffie del mio walkman Hooverphonic, Hole, Portishead, Liz Phair.
Riti di passaggio. 

 

 

 

6. Romeo + Juliet (Baz Luhrmann, 1996)

Premi a pioggia per un’opera geniale di un regista che adoro. Colui che pochi anni dopo avrebbe dato vita a quel capolavoro che è Moulin Rouge! recupera qui il testo (quasi) originale di Mr. Shakespeare e lo aggiorna, o meglio, ci mostra come il bardo fosse un genio senza limiti di tempo o di luogo. Verona diventa Verona Beach e da lì in poi è puro spettacolo.
Radiohead, The Cardigans, Garbage, ma soprattutto un Mercuzio da applausi.

 

 

 

5. Trainspotting (Danny Boyle, 1996)

Altro giro, altro regista di livello altissimo, altra colonna sonora da record (mamma mia il 1996!).
Presentato fuori concorso al Festival di Cannes, nello stesso anno di Fargo dei Cohen e di Crash di Cronenberg, fu un immediato successo. Diamo per scontata la visione, è programma istituzionale.
Iggy Pop, New Order, Primal Scream, Blur, Lou Reed, e soprattutto quella Born Slippy degli Underworld che diventò una cosa sola con le immagini finali del film. Generazionale? Di sicuro è diventato un cult.
But, that’s gonna change – I’m going to change. This is the last of that sort of thing. Now I’m cleaning up and I’m moving on, going straight and choosing life”.

 

 

 

4. Singles (Cameron Crowe, 1992)

Un film che è una colonna sonora.  Un tributo a Seattle a e al suo sound, alla nascente scena grunge, a una generazione di musicisti che negli anni novanta hanno segnato un solco nella storia della musica.
I Pearl Jam e Chris Cornell recitano attivamente nel film, sono le spalle di Matt Dillon, aspirante cantante e moderno bohémien.
Nell’elenco degli artisti coinvolti troviamo anche Alice in Chains, Mother Love Bone, Mudhoney, Screaming Trees, The Smashing Pumpkins tra i più noti.
È un manifesto, impossibile escluderlo, anche se, per salire sul podio, serve un quid in più.

 

 

 

3. The Commitments (Alan Parker, 1991)

Lo so. È una debolezza. O forse no.
Ma è una storia di redenzione, di resistenza, di amore per la musica, che ci ricorda di come tutte le periferie del mondo siano uguali e che si può fare Soul and R&B nella periferia di Dublino, allora possiamo spiegarci tutto, da Springsteen ai Fontaines D.C. .
Cito un personaggio, che riassume il concetto di sopra: “Gli Irlandesi sono i più negri d’Europa, i Dublinesi sono i più negri di Irlanda e noi di periferia siamo i più negri di Dublino, quindi ripetete con me ad alta voce: “Sono un negro e me ne vanto!””. È la vittoria di ogni processo di integrazione. È l’abbattimento di ogni differenza, sono i Blues Brothers, ma irlandesi e della working class.
Passo indietro: Alan Parker è un signore che ha donato all’umanità Pink Floyd The Wall,  Birdy – Le ali della libertà e Mississippi Burning.
Passo avanti: Glen Hansard è il chitarrista del gruppo. Quindi The Commitments merita il terzo posto solo per i riccioli di zio Glen. 

 

 

 

2. Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994)

Ecco, questo Cannes lo vinse.  E non solo: diventò genere, diventò testo sacro, citato, recitato, evocato in tutto il mondo. Personaggi perfetti, maschere geniali, dialoghi scritti in stato di grazia, in cui non esiste neanche una pausa fuori posto. Capolavoro.
E a condire questa meraviglia troviamo una colonna sonora che si intreccia nel film, che diventa strumento narrante e che sostiene e accompagna lo spirito di fondo della storia raccontata. È eclettica, come lo sono i personaggi, è di nicchia, come la cinematografia evocata dal regista, e che, come il genere e il film stesso, invece diventerà mainstream. La surf music che sorregge il tutto sarà il genere più utilizzato dai pubblicitari americani, per vendere…qualunque cosa.
Ah, dimenticavo: il podio consideratelo valido per qualunque film di Tarantino.

 

 

 

1. The Crow (Alex Proyas, 1994)

James O’Barr, autore della graphic novel che è alla base della storia del film, perse la fidanzata in un incidente. Per riuscire a superare il dolore accese lo stereo e prese matite, penne, pennelli e creò The Crow.
Il primo numero è dedicato a Ian Curtis, cantante dei Joy Division, scomparso a 23 anni.
Questo primo posto è alla colonna sonora, non al film. Anche se la pellicola è un’altra icona degli anni novanta, anche se la scomparsa di Brandon Lee durante le riprese ha reso lui e il personaggio ancor più un’icona, anche se.
La musica del film fu un colpo al cuore, perché era perfetta, perché era scritta nella storia stessa di James O’Barr.
The Cure, Stone Temple Pilots, Nine Inch Nails, Rage Against the Machine, Helmet, Pantera, The Jesus and Mary Chain solo per citare I principali.
Album sacro, via il cappello, podio e inno, grazie.

 

 

 

Andrea Riscossa

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