Skip to main content

Mese: Dicembre 2020

VEZ5_2020: Francesca Di Salvatore

Fare un bilancio del 2020 di qualsiasi tipo – anche musicale – è un po’ strano, dato che la percezione del tempo è stata completamente distorta e questi 12 mesi sono durati in realtà 57. Ma comunque in questi 57 mesi la musica è stata fondamentale: un po’ bene di conforto, un po’ fonte di nostalgia per una normalità persa per strada e qualche volta anche motivo di dispiacere, ripensando magari a tutti i concerti mancati e che non si sa quando riprenderanno nella loro forma più vera e sincera: appiccicati gli uni agli altri addosso a una transenna.

Ecco allora che abbiamo chiesto ai nostri collaboratori e amici di raccontarci quali sono stati gli album che hanno tenuto loro più compagnia durante questo 2020…

 

Elephant Brain “Niente di Speciale”

Gennaio 2020: le uniche preoccupazioni erano la sessione invernale e quali canzoni sarebbero state portate all’imminente Festival di Sanremo. Questa rock-band perugina fa uscire il loro album di esordio, che è a diventato a tutti gli effetti una delle ultime cose che associo alla normalità pre-pandemia. Non vedo l’ora di poterlo finalmente ascoltarlo dal vivo.

Traccia da non perdere: Agata

 

Cara Calma “Sulle Punte per Sembrare Grandi”

L’album che ho avuto in rotazione costante tra marzo e aprile. Anche se è uscito due anni fa, è riuscito ad incanalare perfettamente tutte le mie emozioni di quel periodo, soprattutto perché trasuda rabbia da ogni nota.

Traccia da non perdere: Qualcosa di importante

 

Achille Lauro “1990”

Non c’è bisogno di presentazioni, né per Achille Lauro né per le iconiche hit anni ’90 che ha deciso di rivisitare con l’aiuto degli artisti più disparati, da Annalisa a Ghali passando per gli Eiffel 65. Un bellissimo flashback, ballabile come solo gli anni ’90 sapevano essere e che ha segnato musicalmente buona parte della mia estate. 

Traccia da non perdere: Sweet Dreams 

 

Bring Me the Horizon “POST HUMAN: SURVIVAL HORROR”

Il ritorno alle origini dei Bring Me The Horizon di cui avevamo bisogno. Nell’anno in cui avrei dovuto assistere alla reunion dei My Chemical Romance a Bologna – ovviamente saltata causa covid – l’ultimo lavoro dei BMTH è stato una manna dal cielo per tutti gli emo kids che non aspettavano altro che poter tirare di nuovo fuori dall’armadio le camicie a quadroni e gli anfibi neri. 

Traccia da non perdere: 1×1

 

Lorde “Melodrama”

Altro album non uscito quest’anno, ma probabilmente quello che davvero ho davvero ascoltato di più in questi mesi. Delicato ma potente, sentimentale senza essere banale e soprattutto triste come pochi. Una colonna sonora perfetta, infatti la scelta di un solo pezzo preferito è difficilissima.

Traccia da non perdere: Sober II (Melodrama), anche solo per quel magnifico intro di archi.

 

Honorable mentions 

The Zen Circus “L’ultima casa accogliente” Non è entrato nella top 5 solo perché è uscito a fine anno.

Duncan Laurence “Small town boy” Perché non si disdegnano mai delle ballad come si deve.

Voina “Ipergigante” Perché per far uscire un album simile a San Valentino ci vuole fegato.

Movements “No Good Left To Give” Rabbia, lacrime e chitarroni.

 

Francesca Di Salvatore

dile. Delusioni, notti in bianco e vodka: nasce così Rewind

Notti in bianco e bicchiere sempre pieno: la vita dopo una delusione d’amore ce la racconta dile nel suo album d’esordio. 

Anno 1989, Francesco Di Lello in arte dile, è un cantautore abruzzese, che nel 2019 decide di consacrare il suo percorso discografico, lanciando il primo singolo Perdersi. In poco tempo, dopo un ottimo riscontro da parte del pubblico, si conquista un posto nella classifica di Spotify Viral 50. Nel corso dell’anno 2019, dile, pubblica altri tre singoli: Rewind, Giganti e finoallesette. Apre il 2020 con l’uscita del singolo La verità e successivamente, durante la quarantena, in occasione dell’uscta del brano America, crea il suo primo videoclip. Decide di farci attendere ancora qualche mese l’uscita del disco, pubblicando altri due singoli, Tangenziale e Vodka. 

Ormai guadagnatosi uno spazio tutto suo nel mondo del cantautorato, accompagnato da chitarra e pianoforte, il 20 novembre, pubblica il primo album: Rewind, pubblicato per OSA e Artist First. Il disco è figlio di una collaborazione con produttori e autori di tutto rispetto, tra cui Federico Nardelli, Marta Venturini, Francesco Rigon, Michael Tenisci e Federico Galli. 

Con molta voglia di scoprire a fondo l’artista e il disco, abbiamo posto qualche domanda a dile. Ecco cosa ci ha raccontato.

Ciao dile, benvenuto. Dopo aver ascoltato il tuo album d’esordio salta subito all’orecchio un mix di sofferenza e voglia di gridare al mondo i propri sentimenti. Quando è nata questa voglia di mettere nero su bianco il dolore di una delusione d’amore?
“Penso che non si possa calcolare quando sia nata di preciso, d’istinto risponderei trent’anni fa. Ho scritto le mie prime cose quando ero solo un bambino quando non sentivo ancora il bisogno di capire il motivo per cui stessi scrivendo.
Nella vita in genere sono molto riservato, parlo poco dei cazzi miei, forse proprio per questo mi viene più facile buttare giù nei testi tutto quello che forse non ho il coraggio di dire guardando negli occhi qualcuno.”

dile è all’anagrafe Francesco di Lello, parlaci un po’ di Francesco nella vita prima di essere dile.
“La cosa simpatica del mio “nome d’arte” è che io sono dile da sempre, i miei amici infatti mi chiamano così da tutta la vita come diminuzione del mio cognome.
Non saprei proprio scindere le due figure, non esiste nessuna entrata in scena del personaggio. Sono molto molto paranoico e ansioso, autocritico e forse un pelo narcisista, per il resto provo semplicemente ad essere molto sincero, riportando le cose che vivo e che provo all’interno dei miei brani.” 

Parliamo del disco. Perdersi è il primo singolo uscito. Trasmette la sofferenza di una relazione finita, ma con la voglia di ritrovarsi e comunicare i propri sentimenti. Ma si parla anche di destino. Quanto ha influito la scelta di affidarsi ad esso nella nascita del brano? E più in generale, nella tua vita privata?
“Io non ho mai capito in realtà se sono uno di quelli che crede nel destino. C’è una parte di me, quella più cinica, che non crede assolutamente che le cose accadano per una ragione ben precisa. Ma per fortuna per riequilibrare il tutto c’è anche quella paranoica e da sempre innamorata della magia degli eventi, cioè in qualche modo le cose devono essere incastrate tra di loro, per forza. Diciamo che tra le due forse preferisco la seconda, tutti i miei brani sono molto legati tra di loro, come del resto anche le cose e le persone che hanno fatto parte della mia vita, come se fosse uno schema libero disegnato a tavolino da un ubriacone.”

C’è un brano che mi ha colpito in modo particolare, America. E’ la descrizione perfetta di una relazione che non sa che direzione prendere. E’ “Complicato fingere”, ma spesso accettare di sbagliare può essere la soluzione per tenersi ancora un po’ vicini. Ti è mai capitato di arrivare al compromesso di accogliere i tuoi errori per poter amare ancora, solo per poco?
“Si mi è capitato diverse volte in realtà e credo che questo elemento sia presente in ogni mio singolo brano. In America ad esempio c’è tanta confusione e contraddizione, c’è la voglia di tenersi stretti ma anche la paura di sbagliare ancora, la determinazione di persistere ed il terrore di cascarci nuovamente. In questo brano, come del resto anche negli altri, c’è l’essenza del mio carattere, un’infinita battaglia emotiva tra giusto e sbagliato, un continuo auto sabotarsi per poi tornare sempre sui propri passi.”

Durante la quarantena è uscito anche il videoclip di America. Come è nata l’idea di creare e girare un video in un periodo così complicato? Sei soddisfatto?
“E’ stata più che altro una scommessa. Le mura di casa non potevano distruggerci anche la fantasia e la creatività. Dopo diverse ore a telefono con il regista Efrem Lamesta ecco l’idea: fare un video usando solo materiali domestici. Faccio ancora i miei complimenti al regista per aver colto il significato del brano ed averlo poi riportato in una storia girata completamente dentro le quattro mura.” 

Dalle tue canzoni emerge una buona capacità di scrittura. Nel corso degli anni quali sono gli artisti che ti hanno ispirato maggiormente nel tuo percorso musicale?
“Ho sempre avuto una grande passione per i cantautori, uno dei principali è Kurt Cobain che ha letteralmente caratterizzato tutta la mia crescita. Contemporaneamente mi sono innamorato della musica italiana a 360 gradi, da Lucio Battisti a Lucio Dalla, da Bersani a Brunori, e ovviamente tanti altri. Di base mi piace ascoltare tanta musica senza distinzioni di genere musicale, non ci sono regole per determinare se una canzone mi piace oppure no, se mi arriva in petto è fatta, l’ascolto in loop fino a farla diventare parte delle mie giornate e di conseguenza della mia vita.”

Il disco è stato prodotto in collaborazione con vari produttori, tra cui Federico Nardelli e Marta Venturini, produttori affermarti nel mondo musicale. Come mai la scelta è ricaduta su di loro?
“Avevo già diversi brani scritti e registrati piano e voce, dovevo trovare la persona giusta che potesse vestirli senza distaccarsi troppo dall’anima del brano. Loro fortunatamente avevano un bagaglio di lavori alle spalle che già parlava per loro, anche in quel caso è stata una scommessa. Con entrambi mi sono trovato benissimo, prima di essere dei bravi produttori sono due persone fantastiche. Poi io vivo un rapporto quasi maniacale nei confronti dei miei pezzi, divento una sorta di padre iperprotettivo che non vuole accettare che la figlia stia per iniziare a camminare con le proprie gambe.
E i produttori, devo ammettere, sono stati molto bravi a controllare le mie continue paranoie.”

Le basi di ogni brano sono composte da sonorità molto semplici, sempre in linea con i testi. E’ proprio questo il risultato che ti eri immaginato durante la stesura dei testi?
“Beh si, per me le parole all’interno di un brano giocano un ruolo fondamentale ed il vestito che mi immaginavo intorno ad esse doveva essere semplice e capace di rafforzare il significato dei testi. Mi piace pensare di riuscire a mettere l’ascoltatore nel mood adatto per comprendere al meglio il significato delle mie parole.”

Tutti i brani hanno riscontrato un discreto successo. Avresti mai pensato di poter avere un riscontro simile quando hai deciso di voler lanciare il disco?
“Assolutamente no, cioè non mi sono mai posto obiettivi da rispettare. L’album è qualcosa che forse ho fatto più per me che per chi mi segue, avevo bisogno di dare una casa a tutti questi brani che giravano da un po’. Vedere che ci sono persone che nelle loro cuffiette si sparano i miei brani è già una grande soddisfazione e sono molto grato per questo.
Per il resto sono ancora all’inizio e ho ancora tantissimo da dimostrare.”

Guardando al futuro, quali sono le tue aspirazioni? Hai già pensato a qualche nuovo progetto?
“Spero davvero che questa situazione finisca per tutti al più presto e che si possa tornare a quella normalità a cui forse non davamo il giusto peso.
Per quanto riguarda i miei progetti non vedo davvero l’ora di tornare sui palchi a portare un po’ in giro il mio disco, per il momento sto scrivendo tanto quindi nel mio futuro immagino sicuramente tanta nuova musica.
Auguro a tutti noi di poterne uscire più forti di prima, grazie di cuore per la chiacchierata.
Vi abbraccio forte.”

 

Elvira Cerri

VEZ5_2020: Alberto Adustini

Fare un bilancio del 2020 di qualsiasi tipo – anche musicale – è un po’ strano, dato che la percezione del tempo è stata completamente distorta e questi 12 mesi sono durati in realtà 57. Ma comunque in questi 57 mesi la musica è stata fondamentale: un po’ bene di conforto, un po’ fonte di nostalgia per una normalità persa per strada e qualche volta anche motivo di dispiacere, ripensando magari a tutti i concerti mancati e che non si sa quando riprenderanno nella loro forma più vera e sincera: appiccicati gli uni agli altri addosso a una transenna.

Ecco allora che abbiamo chiesto ai nostri collaboratori e amici di raccontarci quali sono stati gli album che hanno tenuto loro più compagnia durante questo 2020…

 

Mourning [A] BLKstar “The Cycle”

Collettivo di Cleveland che ruota attorno alla figura di Ra Washington, i Mourning [A] BLKstar hanno sfornato con The Cycle un disco monumentale, imponente e coraggioso. Odora di funk, di hip hop, di trip hop, c’è la black music, il soul, il tutto amalgamato in oltre sessanta minuti di godurioso ascolto. Scelgo tra tutti questa Sense Of An Ending, che ben racchiude le varie anime di questo capolavoro.

Traccia da non perdere: Sense Of An Ending

 

Daniel Blumberg “On&On”

Che Daniel Blumberg sia un genio non lo scopro certo io ma parliamo di un dato di fatto, un assunto incontrovertibile. Vederlo dal vivo è un’esperienza extra ordinaria, così come approcciarsi ai suoi dischi. Se avete amato il precedente Minus adorerete questo On&On, dove tra vette di cantautorato intimo e scarno aleggia sempre quel sentore di spirito libero, di improvvisazione e necessaria irrinunciabile tendenza all’abbandonare il sentiero battuto verso direttrici inesplorate.

Traccia da non perdere: On & On

 

Protomartyr “Ultimate Success Today”

I Protomartyr sono una mia grande, relativamente recente infatuazione, esplosa con lo scorso Relatives In Descent e consolidatasi con questo Processed By The Boys. Un disco che non ha le vette clamorose di Half Sister o di Here Is The Thing, ma è molto più consistente, convincente e, a conti fatti, superiore al predecessore. La base è la stessa, quel post punk con chitarre taglienti ed una sezione ritmica spaventosa, che trova la perfetta quadra con la voce distaccata come no di Joe Casey, ma a spiccare è il maggior azzardo sia a livello di arrangiamenti (comparse di sax e altri fiati qui e lì) che di scrittura e consapevolezza. Discone davvero.

Traccia da non perdere: I Am You Know

 

Keaton Henson “Monument”

Nel 2016 con Kindly Now Keaton Henson era stato il mio disco dell’anno e da allora era diventato il mio spirito guida, il mio faro, per me amante della musica triste o tristissima. Questo Monument è dedicato al padre recentemente scomparso ed è una lenta, accorata personale narrazione familiare, dove noi ascoltatori siamo privilegiati testimoni e necessari interlocutori.

Traccia da non perdere: Self Portrait

 

Waxahatchee “Saint Cloud”

Una delle sorprese per me dell’anno. Un disco che ho ascoltato e riascoltato e che mi ha fatto compagnia nei primi mesi di lockdown. Lei è Katie Crutchfield, statunitense, al quinto disco a nome Waxahatchee. E a mio avviso il migliore. Sarà che gli ingredienti che lo compongono sono tutti a me graditi, con reminiscenze di Macy Gray, Abigail Washburn, addirittura i Postal Service. Il capolavoro tuttavia è alla fine, St. Cloud, chitarra e voce all’inizio, poi poco altro in più. C’è da chiudere gli occhi e lasciarsi cullare. (per altro la qui presente utilizza un lessico pazzesco, se vi piace anche capire quello che ascoltate e vi piacciono un po’ le lingue)

Traccia da non perdere: St. Cloud

 

Honorable mentions 

Phoebe Bridgers “Copycat Killer / If We Make It Through December” Il mio guilty pleasure del 2020.

Claver Gold & Murubutu Infernvm” Un disco che andrebbe fatto ascoltare in tutti i licei. Non scherzo.

Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Viscerals Altresì detti quelli che spaccano i culi.

Non Voglio Che Clara Superspleen Vol. 1” La conclusiva Altrove/Peugeot è roba per pochissimi. 

Philip Parfitt Mental Home Recordings” In realtà è questo il disco dell’anno. Capolavoro senza senso.

 

Alberto Adustini

Vianney e il suo invito a non aspettare

Classe 1991, tre dischi all’attivo e numerosi premi che l’hanno reso uno degli artisti più apprezzati d’Oltralpe: abbiamo fatto due chiacchiere con Vianney, fenomeno francese del pop, dove abbiamo parlato del suo ultimo album, di semplicità e dell’importanza del fallimento.

 

Ciao! Grazie per averci concesso quest’intervista!
“Ciao! Grazie a voi!”

Parlaci del tuo nuovo album, N’attendons pas. Com’è nato questo progetto e come mai hai deciso di pubblicarlo in questo periodo così difficile per il mondo della musica in generale?
“Ho registrato l’album tra febbraio e settembre, da solo, nel mio piccolo studio casalingo. Più registravo le canzoni e più la situazione sanitaria ed economica diventava complicata. Una canzone del disco si chiamava N’attendons pas e ho pensato che fosse davvero la cosa migliore che potessi dire in questo periodo difficile. Allora è diventato il nome dell’album. “N’attendons pas” significa “non aspettiamo”. A vivere, ad amare, ad abbracciare le nostre passioni e i nostri progetti. Se non avessi fatto uscire l’album a causa della situazione così difficile, mi sarei tradito.”

C’è una canzone dell’album che mi ha colpito in modo particolare, J’ai essayé. È raro sentire una simile “apologia del fallimento”. Perché hai scelto questo tema?
“Credo che il fallimento sia molto prezioso. È allo stesso tempo ciò che ci permette di fare meglio la volta successiva o di farci rendere conto di non essere sulla strada giusta. Mi piace l’idea che i progetti più ambiziosi si costruiscano sui fallimenti.”

C’è una canzone di N’attendons pas a cui sei particolarmente legato?
“È la canzone che chiude il disco, Tout nu dans la neige, a cui sono molto legato perché parla del mio defunto nonno. Mi manca, ma è sempre presente, soprattutto per ciò che mi ha trasmesso: i suoi valori così semplici ma allo stesso tempo così belli.”

Sarai uno dei coach nella nuova edizione di The Voice France. Sei emozionato per questa esperienza?
“Sì, è un’esperienza incredibile! Abbiamo cominciato le riprese e concluso la parte delle audizioni al buio. Qui ho ritrovato il ruolo di produttore, il che mi rende estremamente felice. Dare consigli, guidare, ascoltare, parlare con persone appassionate… È la mia parte preferita di questo lavoro.”

In Francia sei uno degli artisti più acclamati. Con lo scorso album, Vianney, hai ottenuto un disco di diamante e sei in gara per vincere il premio di Artista Francofono dell’Anno agli NRJ Music Awards. Ti aspettavi questi risultati?
“Non mi aspetto mai niente. Per quanto mi riguarda, il mio scopo è mettere tutto il mio cuore e la mia passione quando scrivo o registro le canzoni. Sono le persone poi che scrivono il seguito e finora gli devo molto.”

Il mondo della musica è piuttosto complicato e complesso. C’è qualcosa che vorresti dire al Vianney che sta iniziando la sua carriera?
“Il piccolo Vianney ha fatto di sicuro molti errori, ma credeva fermamente nell’idea che l’impegno e la passione fossero le chiavi per raggiungere la felicità in questo lavoro! Allora lo incoraggerei a continuare su questa strada e gli augurerei di conservare il suo sguardo da bambino, di amare ogni giorno e ogni scoperta che fa e non smettere di stupirsi.”

 

Francesca Di Salvatore

Giorgio Canali & Rossofuoco “Venti” (La Tempesta Dischi, 2020)

Ma come accidenti si fa a recensire un disco del genere? È una vergogna!

Per quale assurdo motivo dovrei parlare di questo disco? Io me lo tengo per me. Solo per me.

Come quelle cose belle e preziose, che vuoi proteggere da occhi indiscreti e assetati, avidi e inconsapevoli, immeritevoli perfino; e poterne godere da solo.

Dai capita a tutti, questa sensazione. La provo, la si prova, quando troviamo qualcosa di bello, diventiamo gelosi, egoisti, immaturi. 

Con la musica accade, per esempio, quando il nostro gruppo underground si fa popolare, mainstream. A Giorgio Canali frega un cazzo del mainstream. E io ne sono contento.

Ma allo stesso tempo dico: “Porco cane! La bellezza bisogna condividerla! In culo a chi non saprà apprezzarla, m’importa una sega, sai ma fatta bene.”

Tutta questa premessa per parlare di un disco di cui io, in realtà, non vorrei parlare. 

Non fanno per me le recensioni, le descrizioni, i tecnicismi, gli elenchi. Per cui parlerò delle sensazioni, dei riferimenti a cui mi rimanda, delle bestemmie, delle risate, delle lacrime. 

Parlerò di me. Megalomane! Egoist!

Eh sì, perchè quando ascolti un disco, poi diventa tuo, nel senso più umano del termine. Sei tu.

Come quando esco a fotografare; un paesaggio, una persona, una situazione. Anche se non sono presente fisicamente nel fotogramma, in quella foto ci sono io, sopratutto io. Così nella musica.

Seguo Giorgio Canali & Rossofuoco dal loro secondo album, me ne innamorai subito. 

Non per il passato di Giorgio (CCCP, C.S.I., PGR), ma perché quell’album mi arrivò dritto in faccia come una badilata e mi scosse i neuroni. Era il 2004.

Sedici anni dopo esce Venti, ottavo album della band capitanata da Canali.

Inghiottisco l’album, poi lo rigurgito, poi inghiottisco ancora, e lo rigurgito. In loop.

Ne escono delle emozioni, dei pensieri, brividi, rabbia, imprecazioni, lacrime, malinconia, sorrisi, insoddisfazione, impotenza. No resilienza no! Per Dio!

Venti tracce, un album doppio, c’era troppo da dire. 

Il tempo non mancava per pensare e scrivere durante la scorsa primavera. E Giorgio Canali, che non le manda a dire, butta tutto in musica e parole quello che gli frulla in capo. Che mai è scontato. Ed è un privilegio. 

Lo stile è riconoscibile, la voce inconfondibile. Le chitarre di Giorgio sono un must, qui affiancate da un immenso Stewie Dalcol (Frigidaire Tango). Le percussioni di Luca Martelli (Litfiba, Piero Pelù, Atroci) danno un ritmo perfetto e sostenuto a tutto. Lo si vede, e si sente, sopratutto nei live dei Rossofuoco. E Poi Marco “Testadifuoco” Greco, con quel basso che a volte tira un po’ indietro alla Maroccolo, che tanto piace a Canali. Ingredienti e dosi perfette!

È un album, Venti, che è la perfetta e naturale continuazione del precedente Undici Canzoni di Merda con la Pioggia Dentro, fatto del solito pessimismo cosmico, solitudine (non vista con accezione negativa), senso critico, schiettezza, amore e malinconia, una visione noir del mondo che continua ad andare contro un muro a velocità smodata. Consapevolezza, sempre.

A volte, ascoltandolo, mi viene da pensare a una frase che spesso si usa per apostrofare gli sprovveduti: ve l’avevo detto io!

Nel 2004, in tempi non sospetti, il brano Questa è una canzone d’amore recitava cosi: “..epidemie terrificanti, nuovi contagi e vecchi mondi da evitare e noi qui infila a farci rivaccinare che tanto questa è una canzone d’amore.” Chapeau!

Questa pandemia, con le sue conseguenze sociali, economiche e politiche ha fatto ribollire il sangue a Canali che da sempre ha una visione critica e autocritica di ciò che lo circonda, è palese. Ciò non significa dire sempre NO! Piuttosto di vedere le cose da diversi punti di vista, che non per forza devono essere giusti o sbagliati. Questo fa l’ex C.S.I. nei suoi album. Questo è quello che vedo io perlomeno. 

E lo fa meravigliosamente anche in questo doppio album Venti: venti come i brani, e come questo duemilaventi funesto, ma quanto mai rivelatore. Diciamoci la verità; è un anno che ci ha fatto riflettere, su ogni cosa. Poi a ognuno le sue conclusioni.

Quindi, per stringere un po’, in questo album c’è tutto Canali, è proprio lui, senza filtri e manierismi, politicamente scorretto e socialmente diretto. 

Si apre con Eravamo Noi, un viaggio a ritroso negli anni per poi guardare al futuro, poi la ballad noir Morire Perché, primo singolo estratto dall’album. Prosegue con Nell’aria, un racconto fulgido di quello che abbiamo vissuto quest’anno, tra paura e libertà negate. Inutile e irrilevante è invece un elenco di “mostri” di cui possiamo anche non preoccuparcene più perché ora abbiamo un altro mostro da affrontare. 

A proposito di elenchi; non volevo farne, ma ho perso il controllo. Ora smetto. Non serve, è inutile e irrilevante.

Posso dire con assoluta sincerità che è un bellissimo album tagliagola, in cui le chitarre graffianti e ululanti di Canali e Dalcol si fondono con il combat rock stile Clash e le armoniche folk in stile Bob Dylan. Questo non che cambi i connotati al suono dei Rossofuoco, che è ben presente e vivo; ma c’è un tocco in più, qualche raffinatezza stilistica forse anche dovuta dal tempo a disposizione durante il lockdown. 

Posso dire, inoltre, che c’è spazio per l’incazzatura, la lucida malinconia, la solita consapevolezza come già citata, un pizzico di amore, forse anche di delusione; tutto ben amalgamato.

Posso anche dire che è un album ricco di citazioni d’autore, una su tutte, la più facile, De Andrè.

Il disco si chiude egregiamente con un brano, Rotolacampo, che sembra un brano uscito da un disco di Bob Dylan e che è la firma perfetta, la chiosa di uno sfogo diretto e senza perbenismi, ed inizia così: “È ora di andare dai, basta pensare, partire, ruzzolare via, si è dato già troppo tempo al tempo e via, come un rotolacampo, è ora di spargere in giro semi di follia.”

E qui finisco anche io, da dire ce ne sarebbe sempre tanto, ma come sempre la cosa migliore quando si parla di musica, è ascoltarla.

Quindi fatevi un regalo con questo disco, in alternativa “Fatevi Fottere”(cit.).

 

Giorgio Canali & Rossofuoco

Venti

La Tempesta Dischi

 

Siddharta Mancini

Pinguini Tattici Nucleari “AHIA!” (Sony, 2020)

Da una band che ha deciso di chiamarsi Pinguini Tattici Nucleari ci si aspetta sempre un po’ qualche colpo di genio. E stavolta la genialità si è palesata durante la conferenza stampa – o meglio videoconferenza stampa, “covid oblige”, come direbbero i francesi – per la presentazione della loro ultima fatica, l’EP AHIA!. La band ha infatti scelto come moderatore Valerio Lundini, comico romano diventato una vera e propria star televisiva e di internet grazie alla sua trasmissione Una Pezza Di Lundini.

Tutta la prima parte della conferenza si è svolto in questo clima surreale tipico delle interviste di Lundini, con un susseguirsi di domande che viaggiavano tra serietà ed ironia e risposte che reggevano il gioco. Il connubio tra la band e il comico funziona così bene da sperare di vederli come ospiti nel programma di Rai2. 

L’evento in realtà era una sorta di doppia promozione, dove da un lato si parlava del disco e dall’altro del romanzo di esordio di Riccardo Zanotti, sempre dal titolo AHIA! (decisamente appropriato per questo 2020), e che insieme vanno a comporre le due parte di un unico progetto artistico. Il libro e l’EP sono legati tra loro soprattutto da temi che si ritrovano sia in un uno che nell’altro, come il rapporto con la famiglia o il concetto di maschera, ha detto Zanotti.

La scelta di far uscire un EP, al contrario del solito LP, è stata invece ponderata: sette erano le canzoni pronte e rifinite e sette ne sono uscite. “Poche ma incisive” ha detto Elio Biffi, il tastierista della band, e ad ascoltare AHIA! non si può che dargli ragione. Si parte con Scooby Doo, il secondo singolo pubblicato dopo La Storia Infinita, che con la sua intro che strizza l’occhio alla trap è un po’ una dichiarazione d’intenti: questo sarà un lavoro di sperimentazione, definito più volte “pop art”, che mischierà vari stili in modo eterogeneo. 

Oltre alle sonorità trap, troviamo ad esempio Pastello Bianco, una ballad sulla fine di una relazione più classica e “sanremese”, anche se hanno assicurato che il ritorno all’Ariston non è previsto per il futuro prossimo, nonostante l’istituzione sia stata citata più volte nel corso della conferenza, oppure Ahia, il pezzo che chiude il disco e riprende le origini più folk della band. 

Il cambiamento, l’evoluzione e la ricerca di nuovi linguaggi — pur senza tradire ciò che si è e ciò che si vuole dire — diventano quindi una componente fondamentale di questo EP, ma in realtà, ad ascoltare anche i loro pezzi precedenti, sono sempre state delle costanti nella loro musica e i fan lo sanno bene. 

Ma AHIA! è soprattutto un lavoro pop e non nel senso di commerciale, che è una parola che fa piegare anche la musica alla logica di mercato: questo pop va inteso come popolare e di massa, frutto della consapevolezza — nata dopo il successo al Festival di Sanremo che li ha portati ad un’ulteriore consacrazione, questa volta a livello nazionalpopolare — di arrivare ad un pubblico molto più ampio, variegato e a volte anche più giovane di prima. Una bella sensazione, hanno raccontato, ma allo stesso tempo una responsabilità e una sfida stimolante, perché diventare mainstream — spogliando il termine di tutte le connotazioni negative — significa anche parlare a gente con cui prima si aveva meno a che fare.

Restano però tutti quei riferimenti culturali – dal DAMS al McFlurry alla parola “cringe” — che hanno reso la band bergamasca un punto saldo per la generazione di fine anni ’90: quella dei bambini che videro “quella puntata della Melevisione/Interrotta da torri/Che andarono in fiamme” e della “bambina che baciava Harry Styles in TV”, per citare Scrivile Scemo, probabilmente il pezzo più ballabile del disco.

Sono tutti temi concreti e quotidiani, quelli dell’EP ed in generale della loro discografia, ma sentir cantare di neo-convivenza, di tradimenti che sono più fraintendimenti che tradimenti, di solitudini e difficoltà con l’università in modo così scanzonato e diretto, a volte allegro e a volte meno, è in qualche modo di conforto. Ed è fantastico che questa concretezza e quotidianità siano state sdoganate nella musica, se non altro per sentirci meno soli, a maggior ragione in questo periodo di incertezza e aleatorietà.

Insomma, è un bene che AHIA! sia uscito, anche se per il momento non potrà essere vissuto a pieno come la musica richiede e cioè dal vivo, urlando sotto ad un palco insieme ad altre migliaia di persone. È un bene perché è un barlume di normalità – quella che ci manca anche se non è sempre un granché — in un momento in cui di normale non c’è niente o quasi. 

E abbiamo decisamente bisogno di tornare a commuoverci o a ridere sulle cose normali.

 

Pinguini Tattici Nucleari

AHIA!

Sony

 

Francesca Di Salvatore

Blank, colei che inculca le emozioni nella mente e le lascia in loop

Sulla carta d’identità si parla di Elena De Salvo, ma nella musica si parla di Blank. Nasce a Messina nel 1995, ma la sua vita si svolge a Cosenza, dove alla Jul Academy studia produzione musicale e pianoforte. È Milano la città che sceglie per finire gli studi e riprendere in mano la penna per la scrittura musicale, che trova libero sfogo durante il lockdown con l’uscita settimanale dei brani di Lockdown Freestyle. 

I pezzi 137, NVQ, Via hanno formato l’identità musicale di Blank tra urban, trap e pop e in grado di definire la propria personalità grazie al contributo del producer Ali3n. Nelle sue canzoni lascia sempre pensieri, emozioni ma soprattutto esperienze e testimonianze, in cui l’ascoltatore fa presto a identificarsi. Non c’è la superiorità della trap, ma c’è il ritmo che permette ad una voce quasi sussurrata di mettersi al fianco di chi la ascolta, di chi cerca un confronto, come quello del suo nuovo singolo Armi Pari, uscito il 6 novembre. 

In occasione di questa pubblicazione abbiamo fatto quattro chiacchiere con lei, ecco cosa ci ha raccontato. 

 

Partiamo dall’inizio, dal tuo nome d’arte, il contenitore vacante in cui mettere tutte le tue idee musicali: quali sono quei pensieri che hanno fatto la differenza in questo Blank?

“Mi piace pensare che ogni piccola cosa che abbia fatto ha portato a quello che Blank è adesso. Non mi piace vedere il mio percorso come una serie di scelte sbagliate o giuste, Blank è quello che è per merito di tutta la strada che ho fatto in quest’anno. Credo di aver raggiunto un buon livello di consapevolezza di me stessa e del progetto, ma c’è ancora molto da fare. Blank cambierà e crescerà di pari passo con me.”

 

Parliamo di Armi Pari. Cosa porti al tuo pubblico con questo nuovo singolo?

Armi pari mostra la mia parte più arrabbiata, è uno sfogo contro una persona che ha una posizione di potere in una relazione. È un brano scritto di getto, che richiama il contrasto tra il volere che una relazione finisca ed il non poter fare a meno dell’altra persona.”

 

Che rapporto avete tu ed Ali3n?

“Ci conosciamo da dieci anni, pazzesco no? Lavoriamo bene insieme perché ci capiamo al volo e non abbiamo paura di dire la verità sulle cose. Senza di lui non so che forma avrebbe ora il progetto, avere una persona di fiducia con cui condividere gioie e dolori è fondamentale in questo ambito.”

 

Come lavorate solitamente? Come si sviluppa il vostro flusso creativo?

“Spesso iniziamo dalla scelta dei sample. Quando c’è qualcosa che colpisce entrambi, Ali3n butta giù una base veloce ed io una melodia con qualche parola che mi viene in mente sul momento. In un secondo momento passo al testo ed Ali3n finisce la base e il brano è pronto. Dopo aver registrato la demo solitamente ci diamo una settimana per capire se ci piace davvero o no, poi passiamo alla cura dei dettagli, tutto nel nostro home studio.”

 

Cosa ti ha fatto avvicinare inizialmente al mondo urban-pop?

“Più che altro ho ascoltato per anni il rap e l’r&b, farlo mi è sembrato spontaneo. Adesso non mi definirei più una artista urban-pop, ma pop e basta. È una categoria più ampia dove mi sento a mio agio. Ho capito molto di me in quest’anno e fare melodie tendenzialmente tristi, soffermarmi su testi introspettivi è quello che mi riesce meglio e che mi emoziona maggiormente.”

 

Dopo il tuo ultimo singolo, cosa freme di scrivere la tua penna? Hai qualche idea che aspetta il momento giusto per essere lanciata?

“Assolutamente si, più di una. Ho un bel progetto in cantiere che non vedo l’ora di condividere con tutti. Con Ali3n lo stiamo studiando nei minimi dettagli.”

 

Nei tuoi brani, alla base c’è un amore a cui ti rivolgi o c’è anche un sentimento di amicizia che ti smuove?
“In realtà no, almeno al momento i temi dei miei testi sono più incentrati su amore, delusioni, paure ma anche esistenzialismo. Ho avuto varie crisi esistenziali nella mia vita, l’ultima scatenata dal lockdown (ovviamente), e sfogarle nella musica aiuta.”

 

È stata la mancanza dei tuoi amici/famiglia a darti l’ispirazione durante il lockdown?

“No, il lockdown l’ho passato in famiglia, sono stata bloccata a casa per un po’ di mesi. È stata più la mancanza di stimoli e le routine che si ripetevano all’infinito. Scrivere aiuta a rompere gli schemi e sentirsi un filo più liberi.”

 

Cosa non deve mai mancare in una base? Quale sensazione deve essere scaturita secondo te?

“Non saprei, ogni sensazione diversa può dar vita ad una diversa canzone, dipende più dal mood del momento. Se sono presa male non voglio accordi felici, se sono arrabbiata non voglio un piano lento.”

 

Descriviti in poche parole, essenziali, ma potenti.

“Sognatrice, determinata, felice a metà. Quest’ultima ve la spiego nella prossima intervista.”

 

Giulia Garulli

  • 1
  • 2