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Mese: Novembre 2021

Tre Domande a: Aligi

Come e quando è nato questo progetto?

Il progetto di questo nuovo disco è nato circa due anni fa durante il primo lockdown. Ero a Milano e avevo da poco ricavato un piccolo studio di registrazione nel ripostiglio degli attrezzi che avevo sul terrazzo di casa. Quella è diventata la mia tana che poco tempo dopo ho soprannominato “la nave”: intere mattinate e nottate a suonare, a scrivere e a scartare materiale per poi affacciarmi dalla finestra e assistere a quei momenti dilatati e così inaspettati. Ho imparato ad avere fiducia nei primissimi momenti di scrittura, quando è tutto nella tua mente, ma tu già lo vedi e vorresti come per magia essere al punto in cui stai rifinendo le ultime cose. E invece ero soltanto all’inizio e stava tutto a me, così ho iniziato a tirare fuori suoni da un nuovo synth analogico che avevo comprato da poco, collegato a una drum machine e, sempre presente, la mia chitarra. Ricordo poi con precisione un momento successivo, un’intuizione, la visione sonora di come sarebbe stata effettivamente la strada del mio nuovo percorso creativo. Ho cominciato a unire un suono più acustico e dalle influenze indie-rock con l’elettronica, il sapore psichedelico e sognante delle armonizzazioni dei cori e delle slide guitars a un’atmosfera più clubbing, dove linee di synth bass e arpeggiator si incastrano perfettamente con drum kit caldi e potenti. Infine, la voce. La voce quasi come uno strumento, dove più linee vocali si sommano e armonizzano così da creare un impatto deciso e delineato. Volevo poi poter descrivere quelle sensazioni di incertezza e di mistero che si respiravano in quelle giornate di primavera così insolite e a volte tragiche. Direi che quel periodo è stato davvero decisivo per la realizzazione dell’EP che uscirà, sia nei contenuti dei testi che nelle sue sonorità.

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Con la mia musica cerco di portare chi ascolta (e me stesso in primis) verso una dimensione sonora capace di guidare in atmosfere spesso sognanti. Vorrei far ballare, perché anche io amo ballare, e vorrei che le persone potessero sentire quella stessa esigenza che sento io di scavare sempre più in profondità nella vita, di ricercare l’energia che spinge ad andare avanti, a stupirsi, a non demordere, a sfidarsi, a credere in se stessi e credere che ogni essere umano abbia appunto “una luce sua”, una luce interiore. A volte c’è una velata nostalgia nel mio processo creativo, sia per quanto riguarda le musiche che i testi; altre volte c’è un fuoco dirompente di estasi e di voglia di festa e leggerezza, senza fine. Come sempre luce e ombra coesistono, devono esserci, mi piace tantissimo quest’aspetto delle cose che si ripercuote in tutto, in natura così come nell’arte e nella musica. Esporre il lato più sensibile e autentico di quello che vedi e poi saper accoglierne le sue oscurità più improvvise. A questo proposito, cito Il Piccolo Principe perché penso sia un grande esempio artistico e letterario, una grande guida per molti di noi (e a volte, io mi rivedo un po’ in lui).
Dal punto di vista sonoro, mi piace invece pensare e comunicare che la mia musica sia un mix tra le armonizzazioni psichedeliche e taglienti dell’album Revolver dei Beatles e le incessanti e aggressive drum machines dei Chemical Brothers, dove il Cosmo dei giorni nostri è sicuramente un artista da cui prendere esempio per stile e inventiva.

 

C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare?

Uno dei miei sogni sarebbe quello di poter conoscere e collaborare con Josh Homme, frontman e leader dei Queens of the Stone Age. Amo il suo sound e le cose che ha creato, anche nelle produzioni che ha fatto separatamente con altri artisti, c’è qualcosa di mistico e spirituale nella sua musica che sento molto vicino e mi incanta sempre. Mi piacerebbe poter andare insieme nello studio che ha nel Joshua Tree che si chiama Rancho de la Luna e registrare qualcosa, magari un nuovo EP o delle Desert Sessions. Spesso fantastico su quanto potrebbe essere stimolante e interessante lavorare al suo fianco, unendo il suo stile ipnotizzante e dal sapore californiano alle mie visioni più elettroniche e “danzerecce”(cantate, perché no, anche in italiano).

 

Idles “Crawler” (Partisan Records, 2021)

“Io penso che scandalizzare sia un diritto, essere scandalizzati un piacere. Chi rifiuta il piacere di essere scandalizzato è un moralista, è il cosiddetto moralista.” 

Così diceva Pasolini durante la sua ultima intervista nel 1975, riguardo al suo film Salò o Le 120 Giornate di Sodoma, e sembra che gli Idles abbiamo preso questa frase alla lettera.

Che i moralisti si tengano a debita distanza, dunque, perché loro intendono scandalizzarci portando la loro musica sempre al limite, sperimentando nuovi sound e fondendo il tutto con attacchi improvvisi di punk.

Se il 2020 è stato l’anno della rivelazione, il 2021 è quello della consacrazione grazie al loro ultimo lavoro, Crawler uscito dopo un anno da ULTRA MONO.

Sulla carta possono essere identificati come appartenenti al post punk all’inglese per via della particolarità del timbro vocale del cantante Joe Talbot, della rozzezza delle linee di basso, dei suoni distorti e delle tematiche trattate, ma il gruppo stesso (già dal precedente album) non accetta di essere categorizzato in una nicchia così ristretta e hanno solo voglia di dire le cose a modo loro. Divertendosi, nel frattempo. 

La loro voglia di sconvolgere è palese già con il primo singolo, The Beachland Ballroom, una ballata dall’intro delicato e romantico, lontanissima dalle corde della band. Eppure l’enorme talento e l’accorata interpretazione di Talbot rendono il pezzo inequivocabilmente malinconico e rabbioso.

Nonostante non vogliano dedicarsi solo al punk, provando ad inserire sempre elementi sonori innovativi per creare qualcosa di unico, la loro anima post punk esplode in When the Lights Come On, che risuona di chiare vibrazioni alla Joy Division.

Basso, batteria e le due chitarre (rispettivamente Adam Devonshire, Jon Beavis, Mark Bowen, Lee Kiernan) non si tirano indietro quando c’è da pestare seri, e in The New Sensation e Meds si fanno ben sentire.

La genialità di questo gruppo risiede nel fatto che tutti i membri hanno una personalità e un talento allucinante, ed ogni strumento risuona chiaro e preciso. A testimoniare ciò è l’incalzante intro di The Wheel, che prosegue per tutto il brano con un ritmo convulso, e la linea di basso è sempre più profonda e scandita. Il brano parla di un rapporto problematico con la propria madre e il ritmo insistente riesce a trasmettere l’angoscia di quella relazione complicata.

La dimostrazione della loro versatilità invece la troviamo in Car Cash, iniziando il brano con del rap metal (alla Rage Against The Machine), per poi concludere il pezzo con qualcosa simile a The Smashing Pumpkins (solo per far capire le sonorità trattate).

Uno dei brani più peculiari è senza dubbio Progress, un qualcosa che assomiglia più ad un mantra. Un brano utilizzabile tranquillamente per la meditazione, l’ennesimo esperimento stilistico degli Idles. Subito dopo, Wizz: trenta secondi di grindcore puro. Dopo la calma benefica di una preghiera c’era bisogno di una botta di adrenalina, è un po’ come il sorbetto di limone per togliere il sapore del pesce.

Quattordici brani per un’esperienza fuori dal comune. Una band che racconta di traumi, relazioni difficili, abbandono e sofferenza, ma anche di ripresa e auto-realizzazione. 

Una band che possiede talento, cuore e personalità.

E voi, siete dei moralisti?

Nel caso la risposta sia “No”, andatevi ad ascoltare questo album e lasciatevi scandalizzare!

 

IDLES

Crawler

Partisan Records

 

Marta Annesi

 

PS: Per capire la grandezza degli Idles consiglio l’ascolto di The God That Failed contenuto in The Metallica Blacklist. L’identità musicale della band è talmente consolidata da stravolgere completamente il brano per farlo definitamente loro.

Tre Domande a: Davide Sammarchi

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Nel momento in cui decido di pubblicare un mio brano mi piace, che chi lo ascolta lo faccia nel modo più personale possibile, perciò tendenzialmente lascio una grande libertà all’ascoltatore di associare qualsiasi cosa alla mia musica, di viaggiare con la mente, andare lontano, dove più preferisce. Questo, per me, dà un senso profondo a ciò che faccio. Quel momento in cui una musica che ho composto raggiunge la sensibilità di chi ascolta e gli viene attribuita un’emozione, qualsiasi essa sia, lì trova la sua ‘conclusione’.

 

Progetti futuri?

Fare musica, naturalmente. Non potrei fare altro, sto già lavorando a dei nuovi brani.
Continuare a lavorare sul suono del pianoforte per renderlo sempre più personale e riconoscibile, come fosse un’estensione della propria voce.
Sto anche pensando a delle visuals da portare nei live, per creare uno spettacolo ancora più coinvolgente per lo spettatore.

 

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non ti conosce, quale sarebbe e perché?

Probabilmente sceglierei Ad occhi chiusi che è il brano che ho scelto come prima traccia, in apertura del disco ‘And in silence I found my voice’. È caratterizzato da una melo- dia particolarmente spontanea, che mi è uscita di getto e non ha avuto bisogno di parti- colari revisioni o scritture successive…è il mio ‘attestato’di sincerità, che rappresenta una componente fondamentale del perché faccio musica.
Semplicemente non potrei farne a meno. 

 

VEZsparks: Fatherson “The Rain”

di Laura Faccenda

 

Da più di un decennio, con l’avvento dello streaming e delle piattaforme digitali, la musica viene ascoltata in modo differente, rivoluzionario – per certi versi – rispetto alla concentrazione e all’attenzione analogiche al cospetto di un giradischi, di un mangianastri o di un lettore cd. Skippare una canzone, in quei casi, richiedeva un gesto meccanico di non poca responsabilità. Si avvertiva quasi una sorta di reverenza di fronte alla volontà dell’artista di concatenare i brani proprio in quell’ordine matematico. Ancora oggi, in molte interviste, i musicisti rimpiangono quei tempi d’oro, complici nell’infondere ai propri lavori in studio senso e continuità. 

Tuttavia, oltre qualsiasi nostalgia anacronistica, oggi a prevalere è la legge del salto compulsivo e la logica del singolo che anticipa – con una promo ben studiata – album e dischi attesissimi. Spotify ci ha dato in pasto tutta la musica immaginabile ma, per quanto questo sia un gran beneficio, il rovescio della medaglia è il rischio di mancato approfondimento. “Ah, non ci sono più le band di una volta, quelle che appassionavano e facevano sentire parte di qualcosa”, si sente dire spessissimo. Forse dipende anche da quanto ci si possa perdere nell’oceano di novità, senza mai trovare un porto sicuro. Ma deve scattare qualcosa affinché questo avvenga, affinché si possa scorgere una stella polare come bussola della navigazione.

La nuova rubrica bisettimanale #VEZsparks tratta proprio di queste illuminazioni. Brani che, attraverso playlist, radio, classifiche, reminiscenze di ogni genere, anno e provenienza sono riusciti a catturarci e a far sorgere le fatidiche domande: “Ma chi sono questi? Di chi è questa canzone? Quale disco la contiene?”. La scintilla, appunto, per bruciare di curiosità. Per correre a scoprire, collegare, ampliare la rete dei propri ascolti. Cliccare play e farsi cullare, poi, dalla tracklist completa. E La Scintilla è anche il titolo di uno dei tre paragrafi in cui è suddiviso il format, assieme a quello dedicato alla review della traccia e alla presentazione della band o dell’artista in questione.

Allora, accendete i vostri dispositivi preferiti. Accendetevi. Si parte con The Rain dei Fatherson.

Buona lettura e buon ascolto!

 

Il brano

Quando ci si approccia all’ascolto di un disco, la canzone di apertura porta sempre con sé una grande responsabilità. Possiede un’aura particolare, riconoscibile – talvolta – pur non sapendo con precisione l’ordine della tracklist. The Rain, traccia numero uno di Sum of All Your Parts (2018) dei Fatherson, si cala perfettamente in questo ruolo. L’intro, distillata in note chiaroscurali al pianoforte, si distingue già come uno scrigno di sperimentazione sonora, marchio di fabbrica del gruppo. Il fruscio meccanico che si innesca nei primi secondi e che rimanda ad un’antica cinepresa tornata in vita è, in realtà, la campionatura di un radiatore elettrico presente nella stanza dell’autore al momento della composizione. “Si adatta così bene a quel frangente iniziale” – ha dichiarato il frontman Ross Leighton – “Mi ricorderò sempre dove ero quando è successo e chi ascolta metterà in relazione questo particolare con il nostro album. Penso sia un ulteriore elemento per imprimere una certa personalità”. Personalità che emerge sia nel timbro vibrante, sapientemente calibrato tra asprezza e morbidezza nei momenti di picco e quelli di risoluzione, sia nell’effetto evocativo del testo, in catarsi ascendente, in corrispondenza con la linea melodica. Una coltre argentata di versi ed accordi enigmatici ma ispirati per la libera interpretazione ed identificazione. Una pioggia che, dal nembostrato di significato universale, penetra in quello personale, intensificandosi in un temporale di emozioni. E chissà, in quiete dopo la tempesta.

 

 

La scintilla

In merito a The Rain, a conquistare è proprio l’effetto catarsi. L’espansione di toni e ed energia che viaggia in parallelo alla compatta simmetria del brano, permettendo l’esaltazione dei particolari più pregnanti. E più disperatamente contraddittori. La parola “violins” della prima strofa muta, con un raffinato espediente, in “violence” nella seconda (anche i Pearl Jam avevano utilizzato un simile vezzo, fonetico e non lessicale in quel caso, in Daughter); l’esaltazione di una priorità — “You sleep in the exit rows / when there is a problem you will be the first to know” — assume contorni di irrinunciabile presenza, pur nel dolore. Un microcosmo di confessione racchiuso in un macrocosmo di distorsione. Distorsione di suono, negli effetti elettrizzanti della chitarra e del basso, e di visione del reale, nel sentirsi sovraesposti emotivamente, sottoposti ad una pioggia metaforica che scava le pareti del cuore. Come nel titolo dell’album la contiene, anche in questa canzone si può rintracciare una somma, un avvicendarsi di frequenze che — come gocce velocissime su una superficie vitrea — crescono in numero e potenza, intersecandosi, senza perdersi mai. Lo sviluppo strumentale d’impatto, supportato dall’esplosiva sezione ritmica, infonde un’aura di epica resilienza, di consapevolezza del qui ed ora (“But this violence / is just present tense”), nonostante l’imperversare del temporale. L’acqua, come simbolo di purificazione, lava via persino la rabbia. Nell’epilogo, infatti, una richiesta, una preghiera: “Call me when you need me over / call me when you need it done”. Per trovare riparo. O per ballare, insieme, tra un tuono e l’altro. O per aspettare, con fiducia, che torni il sereno.

 

La band

Arrivano da Kilmarnock, nella contea dell’East Ayrshire, in Scozia. Sono giovanissimi, sono un trio e sono anche fermamente convinti che se non avessero formato una band chiamata Fatherson non avrebbero potuto suonare con nessun altro. Ross Leighton (voce e chitarra), Mark Strain (basso) e Greg Walkinshaw (batteria) si conoscono dall’età di otto anni ed hanno iniziato a sognare insieme dai tempi della secondary school. Una crescita, un’indole alla costruzione che ha a che fare con la vita. Vita che confluisce, in modo autentico e diretto, nella loro musica. Canzoni strutturate, empatiche, edificanti che necessitano di sedimentazione per sprigionare la magia. Non c’è bisogno di altro, nessuna strategia da hit, né stratagemmi per attirare pubblico. “Se fai sul serio, se la fiamma viene dal cuore, le persone capiranno”. Così i Fatherson hanno conquistato grande seguito in patria, guadagnando consensi e passaggi nelle principali radio, già a partire dai primi due album, I Am an Island (2014) e Open Book (2016). Nel Regno Unito, il loro nome è apparso come opening act di gruppi del calibro di Idlewild, Twin Atlantic, Lonely The Brave, We Were Promised Jetpacks, Enter Shikari, Biffy Clyro, Frightened Rabbit. Ed è la formazione capitanata dal compianto Scott Hutchison ad aver delineato uno sliding doors fondamentale nel percorso tre dei amici e colleghi. “Ci siamo ispirati ai Frightened Rabbit da sempre. Midnight Organ Fight è stato ciò che di meglio la musica scozzese abbia prodotto negli ultimi venti anni. Ed è un’opinione assodata, già prima che Scott ci lasciasse. Gli dobbiamo molto. Quando avevamo sedici anni, dopo che ci vide suonare in una data locale, ci trovò uno slot per esibirci allo show Next Big Thing di HMV. È stato incredibile”. Parlano di eredità, riguardo Scott, sia in termini generali sia per le influenze che hanno plasmato il terzo disco all’attivo, Sum of All Your Parts, registrato in una full immersion di quattrocento giorni in una casa/studio indipendente. “Siamo soltanto dei ragazzi emo cresciuti ascoltando i Death Cub For Cutie ed i Manchester Orchestra, prima di innamorarsi di Radiohead e Bon Iver. Tuttavia ci rendiamo conto di quanto ci riflettiamo nelle nostre radici. Molti scherzano su noi musicisti scozzesi… Sono convinti che siamo condizionati da un grigiore meteorologico, che passiamo molto tempo chiusi in casa con la chitarra, in mancanza di alternative. Credo, invece, che questa attitudine, questa spinta ad andare a fondo nei significati non sia tanto un mood depresso quanto un’imprescindibile sensibilità. Fa parte della nostra identità. Potrebbe essere un cliché parlare di scena scozzese ma ce n’è davvero una. Gruppi che non si prendono mai troppo sul serio, che abbracciano le stesse riflessioni e guardano nella stessa direzione. È una consapevolezza che ci lega, oltre ogni genere musicale”. 

 

Fontaines D.C. @ Barezzi Festival

È sabato sera, sono all’interno del Teatro Regio di Parma. 
Ho superato colonne ioniche, ho adocchiato Muse, un Apollo, Baccanti e sulla mia testa incombono Aristofane, Euripide, Plauto e Seneca. Attorno velluto e un pubblico abbondantemente over trenta, non ci sono abiti da sera e binocoli da teatro.
Il contrasto è già potente, da un palco laterale pende una bandiera irlandese.
Sul palco un telone con la grafica dell’ultimo album dei Fontaines D.C., A Hero’s Death. Caso vuole sia rappresentata una statua raffigurante un eroe del ciclo dell’Ulster.
Il gruppo nasce nel grembo del British and Irish Modern Music Institute di Dublino, appena quattro anni fa. Pubblicano due raccolte di poesie, la prima, Vroom, è dedicata ai poeti beat Jack Kerouac e Allen Ginsberg, mentre la seconda, Winding, si ispira alla tradizione irlandese: James Joyce e William Butler Yeats su tutti.
La setlist della serata è ampiamente annunciata. I ragazzi hanno solo due album alle spalle e durante il tour nel Regno Unito hanno eseguito le canzoni seguendo un indice ben preciso, con pochissime eccezioni. E sarà breve, perché non amano chiacchierare, quando sono sul palco.
Questo il contesto. Questo il menù.
Le variabili siamo noi, molti dei quali a digiuno da concerto da diversi mesi (anni?) e la reazione dei cinque davanti a un pubblico seduto, mascherato e comodamente alloggiato tra velluti e stucchi dorati.
Abbiamo il materiale esplosivo, l’innesco e il detonatore. Abbiamo alte aspettative e un bisogno disperato di ritrovare la musica condivisa dal vivo.

 

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E infatti quello che attendevo, accade poco dopo.
A pochi metri da me, con una prepotenza stupefacente, la musica si riprende la sua parte fisica, carnale. Mi ero dimenticato di quanto fosse importante, di quale fosse l’impatto di un live. Il contesto aiuta, il cantante, Grian Chatten, fa il resto. Durante la prima canzone distrugge l’asta del microfono, ci rimette un dito, ma sembra posseduto dalle Muse del foyer, sembra lui stesso una baccante. Cammina, corre, le dita delle mani a seguire emozioni, parole, quasi che la musica la si possa toccare, mentre dal palco scivola verso il pubblico. Canta, enuncia, elenca, si sbraccia, si sdoppia, si perde. È uno spettacolo di furia e gioventù, è una guida tra le parole che escono a valanga, soprattutto nei pezzi del secondo album.
E mentre lui gioca a fare il pazzo, sbagliando raramente una nota, gli altri sono colonne che reggono una parte monolitica e precisa dello show, perché i Fontaines riescono a passare da pezzi puliti e precisi a veri e propri muri sonori, con testi e sottostesti, ricchi e opulenti, come durante la grassissima doppietta Living in America e Hurricane Laughter, cotta per l’occasione nello strutto e unta di Sangiovese.
Il vaccino mi consente di urlare Sha-Sha-Sha scevro di sensi colpa, e poi mi perdo senza vergogna nelle stanze più oscure dei loro pezzi più intimi , evocatori di fantasmi (Ian Curtis ieri sera era a teatro, sia chiaro) e di immagini quasi cinematografiche.

 

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La musica ieri sera si è ripresa i corpi di chi la esegue, si è ripresa lo spazio di un palco. Anche l’asta del microfono, massacrata, maltrattata, spostata e abbandonata da Chatten diventa parte della band. Crea vuoto, crea attesa.
È un flusso di coscienza, sopra e sotto il palco. Ed è meraviglioso.
Così il pubblico scopre la sesta legge di Otis Day, quella che recita “qualunque natica, prima o poi, si stacca dalla sedia e inizia a ballare”, e quindi, vinto l’imbarazzo di farlo in un tempio, la platea rompe gli indugi e abbandona i velluti dei sedili. Alcuni raggiungono la più preziosa e artistica transenna della loro vita e l’unione tra gruppo e pubblico si completa. Aggiungiamo un paio di giri di pelle d’oca e direi che abbiamo saziato pancia e cuore. Il diaframma già era in festa nel risentire quel sano riverbero musicale.
È stato un ritorno alla grotta di Platone. Un ritorno allo spettacolo, alla proiezione della realtà, che di realtà ne abbiamo già presa sui denti un po’ troppa, da un paio di anni a questa parte. Solo tornando sotto un palco ho potuto sentire il reale peso di quella assenza. Attendere così tanto per tornare a rivivere un concerto lo ha però anche riempito di nuovi significati, lo ha reso ancora più speciale.
Cari Fontaines D.C., sarete la mia “seconda volta”, perché il primo vero concerto dopo una pandemia, credo, non lo si scorderà mai. Quindi, consiglio per gli acquisti: a marzo i ragazzi torneranno in quel di Milano. È quasi d’obbligo esserci. 

 

Andrea Riscossa

 

Setlist
A Hero’s Death
A Lucid Dream
Sha Sha Sha
Chequeless Reckless
You Said
I Don’t Belong
The Lotts
Living in America
Hurricane Laughter
Too Real
Big
Televised Mind
Boys in the Better Land

Roy’s Tune
Liberty Belle

 

 

Grazie per le foto ad Andrea Ripamonti e Rockon.

Springtime “Springtime” (Joyful Noise Recordings, 2021)

Vi siete mai sentiti inadatti, insufficienti, inadeguati, non-abbastanza-capaci-per, quasi inermi?

Avete mai provato quella sensazione di sconforto misto ad ammirazione che si tramuta poi in stupore e meraviglia tanto da farvi dimenticare lo sconforto iniziale?

Ad esempio io ricordo con molta nitidezza di aver avuto un’esperienza simile ad un concerto dei Sonic Youth, a Bolzano, in un’ex acciaieria (com’era quella questione del luogo che determina la musica ecc…); al tempo ancora suonavo (tentavo miseramente diciamo, e senza alcuna velleità per altro) e ricordo che quella sera ero in prima fila, proprio in transenna, e dopo meno di un giro di lancette di Lee Ranaldo che, con una bacchetta della batteria infilata tra le corde della chitarra, mi stava facendo sentire suoni, rumori, note, qualcosa che comunque non avevo mai sentito prima, mi girai verso un amico dicendo qualcosa del tipo “ma cosa suoniamo a fare se c’è chi lo fa così”. Poi questo passa, il concerto prosegue, accadono cose, si susseguono brani, e finisci per sentirti la persona più fortunata al mondo ad aver assistito a un tale evento e dimentichi lo scoramento di un paio d’ore prima.

Ecco, tutto sto preambolo per dire cosa? Che ascoltando Springtime, il nuovo primo fresco di stampa disco degli Springtime, ho avuto un’esperienza similare anche se con uno sviluppo opposto. Da un’iniziale stato di beatitudine durante l’ascolto si è fatto avanti un sentimento di inadeguatezza pensando al momento in cui mi sarei trovato di fronte ad un foglio per scriverne.

Allora mi son detto che la scelta migliore in queste occasioni è quella di rendere un servizio, una sorta di raccomandazione, un consiglio vivamente sentito: se vi fidate del sottoscritto e dei suoi gusti e del suo parere, fatevi un regalo enorme ed ascoltate allo sfinimento quello che potrebbe, a circa cinquanta giorni dalla fine di questo 2021, quindi candidatura molto forte e autorevole, il disco dell’anno.

Gli Springtime sono una band formata da poco, sono un trio, ma in realtà si tratta di una specie di dream team, tipo quando in qualche videogioco sportivo formi la tua squadra coi tuoi giocatori preferiti: quel genio mai abbastanza considerato di Gareth Liddiard dei The Drones, sua maestà Jim White, che mi rifiuto di dover presentare, e Chris Abrahams, pianista di lungo corso coi The Necks (e molto molto molto altro), terzetto avanguardistico sperimentale in qualche modo accostabile al jazz.

Il risultato va dal meraviglioso al clamoroso, e il giudizio si sposta dal primo al secondo termine a seconda di quanti ascolti siate al momento riusciti a dare a questi 46 minuti (io ho abbondantemente superato i dieci per dire, e non tende a stancarmi e a propormi sempre nuovi spunti e nuove chicche), e risulta almeno al sottoscritto davvero difficile trovare un momento che stacchi sul resto, sia in positivo che in negativo; c’è così tanta bellezza in questo Springtime, dall’iniziale Will To Power (che a me ricorda tanto un Nick Cave pre Skeleton Tree che canta coi The Black Heart Procession) alla pazzesca cover live di Will Oldham, all’epoca ancora Palace Music (West Palm Beach), all’improvvisazione di The Island, che da pochi accordi di hammond di Abraham cambia pelle più e più volte, sorprendendo di continuo.

Ci sarebbero così tante altre cose da dire, dai contributi ai testi del poeta Ian Duhig, alla dichiarazione d’amore verso il disco di David Yow, a questa sottotrama da Murder Ballads che si espande un po’ ovunque, che l’unica cosa a cui riesco a pensare al momento è “quanto potrebbe essere indimenticabile sentire The Killing of the Village Idiot dal vivo”?

 

Springtime

Springtime

Joyful Noise Recordings

 

Alberto Adustini

Lorenzo Kruger, “Singolarità” come manifesto artistico

Prodotto da Taketo Gohara e preceduto dai singoli Con me Low-Fi e Il Calabrone, il disco dell’esordio solista di Lorenzo Kruger – ex frontman dei Nobraino – racchiude un itinerario di cambiamento e ricerca, tra live e sperimentazioni sul suono, durato quattro anni. In Singolarità emerge la spiccata identità del cantautore romagnolo, raffinato nel tracciare una propria linea stilistica, pur non rinunciando alla spiccata ironia. Emozione e coinvolgimento, lo stesso messo in campo per la realizzazione della cover, attraverso la campagna Spazi Miei. È stata indirizzata ai fan la call to action per l’acquisto di una porzione dell’artwork, diventato un collage di foto di appassionati di musica ed una “missione” solidale: il ricavato dell’intera operazione è stato donato alla scuola di teatro Casa di gesso di Cesena, che ha potuto così erogare nove borse di studio destinate ai bambini dell’associazione. Su questa scia, abbiamo chiesto a Lorenzo un po’ di “spazio” per scoprire ed approfondire temi e visioni riguardo il nuovo lavoro in studio. E non solo.  

 

Ciao Lorenzo e benvenuto su VEZ Magazine! Per questa intervista volevamo utilizzare – ampliandolo con qualche curiosità in più – il format collaudato delle “Tre Domande a…”. In questo caso volevamo approfondire il concetto di Singolarità, titolo del tuo nuovo album, pubblicato il 10 settembre. Quanto c’è di singolarità intesa come inedito percorso solista?

“Beh, involontariamente parecchio. Il brano che dà il titolo al disco doveva chiamarsi in un altro modo (Stereotipazione dell’amore). Ed il disco doveva chiamarsi in un altro modo anche quando il brano si chiamava Singolarità (il disco doveva chiamarsi Spazi Miei, come conseguenza della campagna). Poi alla fine la parola singolarità si è presa sempre più spazio, è cresciuta: da dettaglio in un ritornello è diventata il simbolo di questo disco. Credo che, inconsciamente, il mio percorso solitario di questi anni ed il passo solista che mi accingo a fare stavano cercando una definizione e l’hanno trovata in questa parola.”

 

Quanto c’è di singolarità come sostantivo che indica la particolarità, la stravaganza e l’unicità?

“Stranamente poco anche se l’aggettivo singolare per indicare qualcosa di particolare mi è sempre piaciuto tanto. Benché abbia sempre giocato con la mia originalità ed eccentricità non è il primo significato che mi viene in mente quando penso a quella parola.”

 

E come singolarità di brani, c’è una canzone a cui sei particolarmente legato?

Copernico è l’unico brano del disco che suonavo regolarmente in tutti i miei concerti negli anni precedenti a questa uscita, è stato con me in questo percorso di solitudine fin da subito.”

 

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Chi ti ha seguito nel corso del tour della scorsa estate ha ascoltato alcuni brani non contenuti nella tracklist. Hai detto di avere tantissimo materiale. A che cosa è ispirata la scelta delle canzoni ufficiali?

“Con il produttore abbiamo cercato un insieme di brani che avessero una tensione simile, una vocazione classica. Quelli scartati sono generalmente più pop o più ironici o in qualche modo meno raffinati. Volevamo fare un disco che fosse il più possibile monotonale ed elegante. In altri contesti capirò se e quando usare le tracce che mi sono rimaste.”

 

A proposito di live, essendo quello dei concerti e della relativa capienza delle location uno dei temi oggi più dibattuti, che cosa immagini possa avvenire in Italia? E che cosa auspichi?

“Credo di essere preoccupantemente ottimista e che il tempo riporti sempre le cose al suo posto. Probabilmente questo posto subirà degli aggiornamenti e spero si adatti in positivo alle future esigenze. Nello specifico spero che si riattivino con più vigore i circuiti dei concerti più piccoli che prima della pandemia erano un po’ agonizzanti; è un peccato perché quei circuiti sono preziosi per la salute della musica e dello spettacolo in genere. Gli eventi a piccole capienze hanno dimostrato di essere i più sostenibili durante questa emergenza e speriamo che quando tutto tornerà alla normalità non ci si dimentichi di loro.”

 

Laura Faccenda

Foto di copertina: Luca Ortolani
Foto nel testo: Isabella Monti

Tre Domande a: 99paranoie

Come e quando è nato questo progetto?

Amnistia è nato a fine 2019, poco prima della pandemia, e l’ho chiuso a Maggio 2020. È una raccolta di brani che descrive il periodo antecendete: avevo lasciato l’università, chiuso My Name is Rose (il mio primo EP), avevo cominciato a lavorare e nel frattempo ero uscito da due relazioni.
È stato un periodo per me di profondo cambiamento. Questo cambiamento si sente sia confrontando Amnistia con My Name is Rose, ma ancor di più confrontando gli stessi brani di Amnistia. Il progetto spazia da brani RandB , a brani old-school, al soul acido e distorto più moderno. Ero ancora alla ricerca della mia identità. 

 

Come ti immagini il tuo primo concerto live post-pandemia?

Grazie a Dio non lo devo immaginare. Dopo la pandemia sono riuscito a suonare parecchio per gli standard a cui ero abituato. Sono riuscito a suonare all’Edonè di Bergamo, al Dumbo, al Covo di Bologna, al Bitter di Asola. È stato splendido, mi sono divertito un sacco e ho imparato tanto, ho vinto qualche insicurezza, ho suonato e conosciuto parecchie persone. Ma soprattutto ho imparato ad amare il palco. L’ultima data al Bitter in particolare, nella mia zona, mi ha veramente acceso e spronato a fare di meglio. Quando giochi in casa la barriera artista/pubblico non esiste, la gente non è li solo a vederti. La gente è li con te. Sono due cose molto diverse.

 

Quanto punti sui social per far conoscere il tuo lavoro?

Ora punto tanto. Attualmente sono in una fase di creazione del materiale per social, ovviamente legato a progetti futuri. Oggi come oggi sono la base di partenza, soprattutto per chi è nella mia stessa situazione. Per chi parte da zero sono imprescindibili. È importante però capire che contenuto portare e come connetterlo alla propria musica, perché troppo spesso si cade nel tentare di cavalcare l’onda. Non ha senso però cavalcare l’onda se non è la nostra. I social devono diventare un’estensione della nostra musica, e della nostra figura; sono risorse, e vanno sfruttate, in maniera consona all’artista.

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