The Stooges. Intervista col Vampiro. Tim Burton. Garage rock. My Bloody Valentine. Cupezza. Virginia Woolf. Joy Division. Sonic Youth. Victorian age. Wicked game. Killing Joke. Cure. Hole. Western. New wave. Synth. Hope Sandoval. Deserto. Velvet Underground. Ipnosi. Stoner. The Edge. Shoegaze. Punk. Saletta (scalcinata). Gothic. Venus in Furs. “Like swimmers in a shadowy dream”. Anfibi.
Da questo collage di suggestioni, echi e rimandi ritagliati dagli appunti presi durante l’ascolto di DOGGOD, l’ultimo lavoro in studio delle L.A. Witch, e incollati qui bisognerà estrapolare una recensione organica e strutturata. Ad ogni modo, questo insieme scheggiato e sconnesso di parole chiave può essere funzionale ad inquadrare fin dal principio lo stile del trio, californiano, come si può facilmente evincere dal nome: un garage rock tardo vittoriano o una new wave impolverata dal deserto, che dir si voglia, un genere ibrido e personale che segnala l’evoluzione musicale di un gruppo che sfugge alle costrizioni ed ai ragionamenti, ormai commerciali più che artistici, dell’industria discografica. Per citare Virginia Woolf, spuntare una voce dall’elenco di cui sopra e descrivere quello che sembra essere il mantra, l’approccio alla musica delle L.A. Witch, si potrebbe dire: “Senza fretta, senza scintille, senza dover essere altro che se stessi”. L’impressione che si ha ascoltando il disco è infatti che le ragazze gotiche di Los Angeles cerchino solamente di essere loro stesse, di crescere, di trovare la propria strada e di suonare senza avere la psicosi del successo o l’ossessione dei numeri, delle statistiche e delle vendite: un privilegio, un grande pregio ed una fantastica premessa per un album.
Si apre il sipario e la prima traccia, Icicle, chiarisce due punti: DOGGOD, titolo palindromico e straniante in cui risuona il ricordo di un’accordatura aperta, è permeato da un’atmosfera prettamente dark ed è, per così dire, sottoprodotto; neologismo che forse necessita di una spiegazione. Al giorno d’oggi, i dischi sono ricchi di arrangiamenti, sovraincisioni e strumenti aggiuntivi ma le L.A. Witch, in totale controtendenza, adottano uno stile corrosivo del superfluo: i suoni sono ruvidi e screpolati, quasi come se il disco fosse stato registrato in presa diretta (e non è da escludere) nella loro sala prove, in uno scantinato o in un luogo del genere. Così vengono immediatamente stabiliti i paradigmi di un album che non si contraddice mai.
Le canzoni si susseguono oscillando come un pendolo tra l’estremo new wave e quello garage, spesse volte avvicinandosi al primo più che al secondo, ma vengono continuamente introdotti elementi nuovi. Kiss Me Deep, ad esempio, si fa portatrice di un velato romanticismo e delle atmosfere oscure tipiche dei Sonic Youth (le cui melodie rivivono in molti di questi pezzi) mentre 777 spicca per il riff indiavolato accompagnato da una batteria martellante, ambedue di matrice punk. In questo brano, inoltre, va notato ed elogiato il diversificato lavoro chitarristico di Sade Sanchez. La frontwoman offre un ampio ventaglio di soluzioni compositive regalando momenti eterei, che fanno da contraltare al giro principale, suonando delicati armonici e accordi che si piegano come alberi mossi dal vento (Kevin Shields, sei tu?). A dispetto del titolo, tuttavia, 777 non è la canzone più mefistofelica del disco, premio che spetta ad I Hunt You Pray; lunga suite dilatata e notturna, scandita da rintocchi distorti di basso, in cui Sanchez canta come se stesse officiando un rito satanico trasportandoci in un’altra dimensione, in un sogno confuso.
DOGGOD prosegue così tra ritmi tribali, arpeggi ipnotici, intermezzi recitativi, voci distanti, sintetizzatori fantascientifici, poco appariscenti assoli di chitarra, aperture pop e conduce all’anomala Lost at Sea; la vetta più alta del disco nonché culmine di un fortunato trittico, che comprende Eyes of Love e la magneticamente decadente The Lines e che rappresenta la parte meglio riuscita di questo lavoro. La voce si fa languida e sembra essere sul punto di rompersi, la chitarra sarebbe perfetta in Californication (l’album, non la serie TV con David Duchovny) e il basso riesce ad enfatizzarne il tono malinconico e crepuscolare con poche note, quelle giuste. Lost at Sea è il canto di una sirena, una ballata fragile in cui ogni elemento è al suo posto: stupenda! Ma è solo la quiete prima della tempesta giacché le ultime due canzoni, i cui titoli sono scritti in un imponente carattere maiuscolo, riprendono il discorso garage/punk con riferimenti al mondo dark solo temporaneamente interrotto e possono essere assurte a vero manifesto artistico del trio.
Le L.A. Witch sono una band minore, non una di quelle che riempiono gli stadi e hanno a disposizione budget da capogiro per la registrazione di un disco. Ne consegue che questa, come le altre della loro carriera, è una produzione dal basso ed è proprio questa caratteristica, apparentemente poco desiderabile, a rendere DOGGOD interessante. Libere dal peso delle aspettative e delle pressioni, le tre musiciste losangeline hanno potuto sperimentare, sviluppare uno stile personale e scrivere un pugno di pezzi che rispecchiano e rispettano l’immaginario sonoro ed estetico che hanno voluto creare. Forse ascoltato al contrario DOGGOD non rivelerà significati nascosti, ma è un ottimo album che ha la qualità di essere assolutamente originale.