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Monitor Festival @ sPAZIO211

Monitor Festival @ sPAZIO211

| Andrea Riscossa

Torino, 10-11 Luglio 2025

C’era una volta Torino e c’erano una volta i TOdays.
Poi cambia il mondo, i governi, il clima, le mode, ma i torinesi no, quelli mai. Tanto che ieri sera, allo sPAZIO211, sembrava quasi il 2019. È cambiato il mese, c’è qualche ruga in più, nel 2024 si è sperimentato su organizzazione, location e formula, ma il Monitor Festival riparte su basi solide, ingranaggi già oliati e un meccanismo che sa di funzionare. L’ultima volta sul prato di via Cigna era stato nel 2023, quattro proposte ogni sera e tanta sperimentazione, l’idea di fondo è la stessa.

Monitor nasce dal programmatico incastro tra MONdo, ITalia, TORino, indica un obbiettivo e un orizzonte, propone artisti noti e altri che sono piccole scommesse. Per la cronaca, in passato molte di queste “proposte minori” sono poi diventate realtà solide, confermando il fatto che gli organizzatori spesso hanno anticipato i tempi, con lungimiranza e competenza. 

Nella settimana successiva al Kappa FuturFestival, nella stessa in cui viene annunciata la lineup del prossimo C2C, contemporaneamente al Flowers Festival, Torino si gode una nuova iniziativa musicale, figlia di Gianluca Gozzi, ideatore dei TOdays.
E possiamo definirlo festival indie, senza sentirci in colpa. 

È indie nelle scelte musicali, perché pesca tra generi e luoghi diversi e lontani dal mainstream, perché si prende la libertà di uno sguardo laterale sul panorama musicale, perché consente di conoscere nuova musica dal vivo, e se ti piace, torni a casa con un vinile. Autografato. E con una colonna sonora per l’estate 2025, ma andiamo con ordine. 

Il vostro inviato sul posto da anni ha inserito tra i parametri per valutare livello culturale dell’evento e del pubblico le t-shirt di gruppi musicali, indossate come biglietto da visita da astanti bisognosi di comunicare i propri gusti.
Solitamente i Joy Division vincono a mani basse, quest’anno invece segnalo la loro quasi totale assenza, e invece riporto casi notevoli, come Sonic Youth, King Hannah, Kraftwerk, Porcupine Tree e Pixies. Questo per indicare un marker culturale variopinto e ad alto tasso di malinconia.

Un festival si valuta infine anche da cibo, acqua, servizi, da come vive uno spettatore l’evento e da quanto può pensare solo alla scoperta musicale, senza dover tentare di sopravvivere. E, di nuovo, come i vecchi ToDays insegnavano, lo sPAZIO211 è come un giardino di casa. Tutto funziona bene, forse aiuta la dimensione raccolta dell’evento, o forse è proprio la formula corretta. La stessa, del resto, che ti permette di vedere i live a pochi metri dal palco, senza essere pressati, di poter parlare con gli artisti nel backstage, di incrociarli nel pubblico (presi una birra con gli Arab Strap, anni fa) e di poterli ringraziare di persona. 

E, ovviamente, c’è la musica. Qui bisogna andare con ordine e far le cose per bene.

• Giorno Uno •

Apre il Monitor un gruppo di casa, The Cherrie Pies, nato come duo durante il lockdown del 2020 e che a maggio ‘24 ha pubblicato l’LP Don’t Just Say Things. A loro l’onere di rompere il ghiaccio, con uno stile molto americano, retrò, sospeso tra folk e garage. Tutto si gioca sul cantato diviso e condiviso tra la coppia Isaia/Zucca e su un consapevole e divertente sconfinamento tra generi, rigorosamente d’oltreoceano. 

Segue Richard Dawson, dieci album alle spalle, l’ultimo del 2025, che vince, a mani basse, il premio per la non classificabilità del suo live. Il set è da busker, sedia, chitarra, microfono. Quello che nessuno immagina sono i suoi riferimenti musicali. Tralasciando la sua carriera sotto pseudonimo di compositore di musica elettronica, per sua stessa ammissione i numi tutelari della sua arte sono Henry Makobi, semisconosciuto chitarrista keniano attivo negli anni novanta e il qawwali pakistano, ossia musica sacra sufi. Poliedrico, sicuramente, e padrone del mezzo senza dubbio. Forse l’ascolto più impegnativo del festival. 

Luvcat è la quota underdog ma anche rivelazione della prima serata, perché porta un live solido e di inaspettata maturità. Anche qui, il miracolo, sta nell’alchimia degli ingredienti. Prendete il Rat Pack, nella sua essenza crooner e miscelate con Cohen, Cure, Waits, magari un po’ di Velvet Underground. Il nome stesso da lei scelto deriva da una canzone dei Cure, anche se, leggenda vuole, avesse scelto inizialmente l’Elisa Day di Nick Cave e Kylie Minogue nella stupenda Where the Wild Roses Grow. Questo per chiudere il quadro dei riferimenti. Perché Luvcat e la sua ottima band sono il prodotto di cotanta miscela meravigliosa, sono romantici e gotici, sono oscuri e ironici, davvero notevoli. 

Gli Shame sono reduci da diversi concerti in Italia, divisi tra festival e l’apertura dei concerti dei Fontaines D.C..
Al Monitor arrivano come nome di punta della prima serata, e si prendono il palco, il pubblico e tutto lo sPAZIO211 in un set muscolare ad altissimo tasso di sudore e polvere. Tutto come previsto, sia chiaro: Charlie Steen, frontman, rimane vestito per i primi due pezzi, poi rimangono pantaloni e bretelle. Le due colonne ai lati, Eddie Green e Sean Coyle-Smith immobili e puntuali, precisi e affidabili alle chitarre, mentre Josh Finerty macina chilometri con il suo basso. Charlie Forbes alla batteria.
Incasellati nella ormai logora e affollata casella del post-punk, gli Shame sono laterali rispetto ai blasonati Idles o già citati Fontaines. Li ho sempre considerati più educati musicalmente, più melodici, vicini ad art-rock e punk, anche se i loro live sono un crescendo che genera un meraviglioso caos. Non a caso Steen finirà il live sopra le teste del pubblico, letteralmente, e dopo aver provocato nelle prime file un piccolo ma attivissimo mosh che ha accompagnato la band per buona parte dello show.
La setlist pesca dall’intera discografia degli Shame, accontentando i fan dei primi lavori e chi apprezza invece gli ultimi album. In conclusione la band londinese ha reso onore al festival con un live ruvido, ben suonato, ben costruito e sicuramente divertente.
La prima serata chiude in perfetto orario, in una notte fresca e con una luna spettacolare a salutare il pubblico che guadagna l’uscita.

• Giorno Due •

Il secondo giorno del Monitor Festival è, probabilmente, quello con la lineup più intrigante. 

Apre le danze Maria Chiara Argirò, romana trapiantata a Londra, che sul palco costruisce paesaggi elettronici che evocano immagini quasi cinematografiche. È un’architettura, tessuta con elementi jazz, ambient e synth pop. Il suo live è etereo e onirico, perfetto per aprire con eleganza la serata. 

Si cambia completamente registro con Gia Ford, britannica ma con un mood decisamente statunitense, prodotta da Tony Berg, lo stesso di Phoebe Bridgers. Lo stile ricorda Sharon Van Etten, qualcosa di Lana Del Rey, l’art-rock di St.Vincent, anche se le atmosfere sono decisamente più languide, complice anche il set acustico scelto per la serata. Nei testi, cupi ma velati di sadica ironia, riemerge il lato britannico della giovane cantautrice, autrice anche di poesie, mentre il lato compositivo, come già accennato, pesca ampiamente oltreoceano. 

Poi arrivano gli Yin Yin, e il Monitor pesca il suo jolly. Durante il set questi sono gli ingredienti che il mio subconscio ha evocato: i Calibro 35, i Teletubbies, qualche oppioide, il Giappone, un’estetica tra Kraftwerk e Lidl. Un mood stupendo, tanto che il pubblico è impazzito dopo pochi minuti e la loro esibizione è terminata con pubblica acclamazione, festa che è poi continuata sotto il portico dove si sono presentati per gestire in toto il merchandising.
Tre dischi all’attivo, olandesi di origine, programmaticamente devoti allo psych‑rock thailandese. Da aggiungere un bassista che trasuda funk, chitarre che virano surf, percussioni poliedriche dotate financo di gong (usato per una sola nota), un synth che programma viaggi spaziali.
Momento saliente: solo di batteria mentre il resto del gruppo consuma una sigaretta condita e condivisa, comodamente accasciati a terra, in contemplazione cosmica.
Non sono un gruppo, sono un’esperienza. 

Il festival si chiude con un momento musicale alto. Molto alto. Sul palco sale Arooj Aftab, compositrice e cantante pakistana che vive e lavora a New York. Ha vinto un Emmy e un Grammy, ha ricevuto riconoscimenti in tutto il mondo, citata da Obama e osannata in patria, è stata da poco in Italia per due concerti ad aprile.
L’atmosfera è ricercata, luci soffuse e fumo, un profumo di incenso che per un attimo penso sia frutto di suggestione, tre musicisti di altissimo livello con lei: Petros Klampanis al contrabbasso, Engin Gunaydin a batteria e percussioni e Michael Haldeman alla chitarra.
Sembra di essere in un jazz club newyorkese, in cui si palesa una band che fa della fusion un elemento strutturale. Arooj canta in urdu e in inglese, gli elementi jazz, elettronici e folk si mischiano alla perfezione, si gioca con stili e stilemi, fino al metal, o al minimalismo. Lei è ironica e a suo agio, tra un pezzo e il successivo racconta e spiega le sue canzoni. Offre birre alla prima fila, gesto che le vale un applauso.
Il suo live è una conclusione dolce e di classe per il Monitor.

Sono state due serate intense, che sapevano di passato e di futuro allo stesso tempo, due serate che consegnano una promessa: che sia un reboot o qualcosa di completamente nuovo, poco importa, intanto è successo.
Ed è stato bello, come sempre.