
Tre Domande a: Kety Fusco
Come e quando è nato questo progetto?
Il progetto Kety Fusco nasce da una storia che comincia prestissimo. Ho messo le mani sull’arpa a sei anni, a nove ho fatto la mia prima esibizione pubblica, a undici sono entrata in conservatorio e ho concluso il mio percorso accademico a venticinque. Sono cresciuta nella disciplina della musica classica, studiando ore e ore ogni giorno: un percorso che mi ha dato rigore, tecnica e resistenza, ma che a un certo punto mi ha lasciato una domanda fondamentale — come può l’arpa parlare il linguaggio del presente senza perdere la sua anima?
Questa domanda ha preso forma quando mi sono trasferita in Svizzera, al Conservatorio della Svizzera Italiana, dove ho concluso il mio secondo Master of Arts in Music Performance. In quegli anni ho seguito anche un corso di improvvisazione libera: per me è stato come aprire una finestra. Ho capito che l’arpa poteva uscire dal suo ruolo tradizionale e diventare gesto, corpo, respiro, materia sonora. Per il mio progetto di laurea ho scelto di presentare The Crown of Ariadne di R. Murray Schafer, un brano in cui l’arpista è al tempo stesso strumentista e percussionista: si pizzicano e si colpiscono le corde, si usano oggetti, si cammina tra campanelli e crotali. Lo studio di questo pezzo è stato per me una rivelazione: non dovevo più solo “eseguire” l’arpa, potevo trasformarla. Finito il Master ho acquistato la mia prima arpa elettrica. Non volevo insegnare: volevo vivere di concerti. Ma il conservatorio non mi aveva preparata a questo: non mi aveva insegnato come costruire un curriculum artistico, come propormi, come trasformare la tecnica in un progetto di vita. Ho dovuto imparare tutto da zero. Così ho iniziato a sperimentare con pedali, microfoni a contatto, tecniche preparate ed elettronica. Fino ad allora avevo ascoltato soltanto classica e contemporanea: mi sono immersa nel resto del mondo musicale con curiosità e ostinazione.
La vera svolta è arrivata quando i Peter Kernel, band svizzera molto nota a livello europeo, mi hanno invitata in tour. Nei lunghi viaggi in furgone tra una data e l’altra ho cominciato a scrivere le mie prime composizioni. È stato lì che ho capito qual era la mia strada: viaggiare, vivere di palco, suonare la mia musica con l’arpa elettrica, costruire un linguaggio personale. Da quell’energia è nato il mio primo album, DAZED (pubblicato in piena pandemia con Sugar Music): un disco che considero un vero esperimento, un primo manifesto sonoro. In DAZED volevo che l’arpa cantasse, perché io non canto e perché lo strumento è spesso relegato a un ruolo decorativo — “da aperitivo” o da “sala da tè”. Io invece volevo che fosse una frontwoman, con una voce riconoscibile. La produzione era digitale, e il contrasto tra l’arpa e l’elettronica mi sembrava la chiave per darle una nuova vita. DAZED è stato anche un modo per uscire da una bolla: dopo anni passati a studiare otto, nove ore al giorno in conservatorio, ero arrivata a vivere nell’ansia e nella paura della mia stessa ombra. Nonostante sia uscito in un momento complicato, quell’album mi ha portata a suonare oltre 200 concerti in tre anni, dimostrando che quell’estetica aveva senso, e funzionava davvero davanti al pubblico. La mia ricerca è continuata. Ho sviluppato un sistema di sustain per arpa (grazie al programma SUISA Get Going), ho ampliato le tecniche estese (corde preparate, e-bow, oggetti), e ho pubblicato un lavoro che definisco un album sperimentale- concept, intitolato The Harp – Chapter I. È una composizione di 19 minuti, costruita a partire dalla scomposizione fisica dell’arpa: ho lavorato separatamente su legno, metallo e corde di budello, trasformandoli in voci autonome per poi ricomporle. Le piattaforme digitali non lo hanno nemmeno riconosciuto come album, perché “troppo corto”, ma per me lo era eccome: un’opera compatta, radicale, volutamente estrema. Quando Iggy Pop lo ha scelto e presentato alla BBC, è stato un punto di svolta: la conferma che l’arpa poteva dialogare con mondi culturali diversi, senza dover chiedere il permesso. Parallelamente ho creato una libreria digitale con 400 suoni di arpa preparata, capaci di sembrare tutto tranne che un’arpa: un archivio di possibilità che continuo a esplorare.Tutto questo percorso confluisce oggi in BOHÈME (A Tree in a Field Records, 19 settembre 2025). È un lavoro che nasce dall’idea di libertà radicale: libertà dai ruoli, dai generi, dalle aspettative su cosa “dovrebbe” fare un’arpista. In BOHÈME l’arpa torna a cantare, ma all’interno di una cornice che definirei di elettronica organica: non artificiale, perché ogni suono elettronico è intrecciato con la fisicità dello strumento, con campioni, gesti percussivi e visuali generati con l’AI. È un dialogo tra il mio lato accademico e la mia urgenza di sconfinare, un viaggio che unisce materia acustica ed elaborazione digitale.
Ho continuato a sperimentare portando l’arpa anche in una nuova dimensione: l’acqua. Questa ricerca sonora è nata durante la colonna sonora del documentario Wider Than the Sky di Valerio Jalongo, realizzata insieme a Daniela Pes. Ognuna di noi ha composto una parte della colonna sonora: io con la mia musica, lei con la sua. Gran parte del mio lavoro è stato registrato con l’arpa immersa parzialmente in acqua: questi suoni sono confluiti anche in Hi, this is the Harp, il brano di apertura di BOHÈME. Un paradosso affascinante: chi lo ascolta mi dice sempre “ma dov’è l’arpa?”, quando in realtà è solo arpa, trasformata dal suo incontro con un nuovo elemento.
Se devo riassumere tutto questo percorso in una frase: il progetto Kety Fusco è nato quando ho smesso di chiedere all’arpa cosa potevo farci, e ho iniziato a chiederle cosa potevamo diventare insieme. Dalla bambina di nove anni sul suo primo palco, alla donna che oggi porta BOHÈME nel mondo, il filo conduttore è sempre lo stesso: spingere i limiti dello strumento per trovare una verità sonora che parli al presente.
Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?
È una bella domanda, davvero. Perché io in realtà non ho mai fatto musica pensando a cosa avrebbero voluto sentire gli altri. Ho sempre fatto musica pensando a me stessa, per puro egoismo, perché ne avevo bisogno. Per me la musica non è mai stata “prodotta per il pubblico”: è sempre stata una questione di sopravvivenza personale. Paradossalmente, la musica è condivisione, ma nel mio caso nasce prima come necessità intima. Ho l’arpa in mano da quando sono bambina, e ormai non so più chi sono senza questo strumento. Non potrei fare altro nella vita, non ho un piano B. Non potrei desiderare nient’altro nella vita, ho tutto quello che voglio, ma questo tutto passa dall’arpa.
A un certo punto ho deciso di condividere la mia musica perché dovevo vivere di questo mestiere. La condivisione per me è stata la parte più difficile: esporsi, aprire la propria intimità sonora, accettare che ciò che nasce per un bisogno personale arrivi ad altre persone. Io amo tantissimo suonare, amo tantissimo i concerti, amo l’energia del pubblico, ma questa esposizione non è mai stata “facile”. E forse la domanda giusta sarebbe: cosa vorrei far arrivare a chi mi ascolta e cosa vorrei che mi arrivasse da chi mi ascolta. Perché per me è vitale quello che ricevo dal pubblico. È vitale sentire che con la sola arpa, con le mie dita, con il mio tocco e la mia creatività, riesco a generare qualcosa che tocca davvero la vita delle persone. Come quella signora anziana che mi ha detto che è stata felice di ascoltare la mia musica prima di morire. O quella ragazza in Kenya che è scoppiata a piangere perché le aveva ricordato suo padre che non c’era più. O quella donna incinta di nove mesi, al termine, che nonostante tutto è venuta al mio concerto. Sono cose che mi lasciano senza parole. Mi chiedo anch’io come sia possibile che la musica generi questo amore, questa energia, questa collettività. Per quanto io sia una persona estremamente complessa, che spesso non si capisce nemmeno da sola, vorrei che le persone che mi ascoltano – lo dico in modo egoista – continuassero a darmi quello che mi stanno dando. Perché è quello che mi tiene viva, che mi fa capire che vale la pena.
Se devo provare a dare una risposta più tecnica, allora sì, vorrei che arrivasse anche l’idea che l’arpa possa finalmente essere sdoganata, svecchiata. So che non succederà in pochi anni: ci vorranno decenni prima che sia normale vedere un’arpa accanto a basso e batteria, o al Festival di Sanremo. Ma qualcuno deve iniziare. Io ho iniziato, altri miei colleghi lo stanno facendo in modi diversi. Non è una cosa immediata. Magari fra 80 anni sarà normalissimo, e nessuno dirà più “esiste ancora chi suona l’arpa?”.
Progetti futuri?
Voglio portare l’arpa dove non c’è mai stata, metterla in posti che non hanno nulla a che fare con lei, farla incontrare con mondi che nessuno si aspetta. Mi piacerebbe fare ogni volta un abbinamento diverso: arpa e hip-hop, arpa e trap, arpa e techno… senza paura di sembrare fuori posto. Penso a FKA Twigs, a Nils Frahm, a Rosalía, a Jacob Collier, a Jeff Mills… ognuno di loro aprirebbe una porta diversa. Non so cosa verrebbe fuori, ma è proprio questo il punto: rischiare, sporcarsi, sorprendere. Non è solo un capriccio. Io mi inserisco in una tradizione che ha già provato a rompere le regole: penso al Fluxus, a John Cage, a chi ha ribaltato le convenzioni sonore, e anche a chi con l’arpa ci ha già fatto cose fuori dagli schemi, come Zeena Parkins, Dorothy Ashby o Alice Coltrane. Io prendo quella eredità e provo a portarla oggi in spazi nuovi. Perché alla fine il punto è semplice: non voglio che l’arpa sia “bella”. Voglio che sia necessaria.