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Vitalogy compie trent’anni e io no

Vitalogy compie trent’anni e io no

| Andrea Riscossa

Erano sicuramente i primi giorni di dicembre.
Ed era, altrettanto sicuramente, il 1994.
Le nostre telefonate non erano lunghe: due maschi, diciassette anni, stesso nome e stesso amore per il mare.
“C’è d’onda, vieni?”
“Non ho neanche la muta, però cerco di scendere sabato, non garantisco”.

(Per un piemontese andare al mare implica dirigersi verso sud, quindi si scende al mare, inevitabile).

“Ah, hai sentito l’ultimo di Ligabue?”
“Andrea”
“Eh”
“Ma vaffanculo”.

Andai.
Valigia, walkman, chiavi di casa, treno.
Al mio arrivo il mare era una tavola, in un’era senza previsioni meteo in tempo reale, laptop e telefoni in tasca, l’unico oracolo valido erano le ginocchia di Tonino, bagnino emerito, e le sue sensibilissime cartilagini. Un igrometro umano, un barometro alimentato a focaccia. Ma, talvolta, falliva.

Finimmo a far finta di studiare, perché dalla metropoli avevo portato qualcosa per salvarlo dal Ligabue mannaro che si trasformava nei i R.E.M. dopo mezzanotte. Avevo, nel walkman, la medicina per guarirci da un anno nero e pesante. 

Il 1994 era iniziato con il più grande EP della storia, Jar of Flies degli Alice in Chains, che mi procurò non poche vertigini causa altissimi livelli di oscurità e intimità. Jeff Buckley, Soundgarden, Nine Inch Nails, Portishead, Weezer, Beastie Boys, avevano pubblicato i loro capolavori, mentre all’orizzonte si intravedevano nuove realtà, dagli Oasis ai Blur, dai Low ai Green Day, e poi Prodigy, Aphex Twin e tanti altri.
L’8 aprile di quell’anno trovarono il corpo di Kurt Cobain. Anche allora, in qualche modo, Andrea era intervenuto, ma è un’altra storia. Sei mesi dopo, a inizio novembre, avevo nel walkman l’Unplugged dei Nirvana, e ivi sarebbe rimasto, fino a quando un’altra cassetta avrebbe preso il suo posto, il terzo disco dei Pearl Jam, Vitalogy

Una medicina, dicevo. 

Avevo studiato quel disco a memoria, avevo una montagna di risposte a un sacco di domande e stavano tutte in quelle quattordici tracce. Facciamo tredici. Forse dodici. 

Vitalogy era arrivato come una boccata d’aria che ti riempie i polmoni, dopo un’apnea forzata, dopo aver sentito il cuore esplodere.
Kurt non c’era più e un disco incredibile come l’Unplugged lo aveva fatto tornare, come un fantasma, come un tormento. Avevo consumato quella cassetta come se un ascolto quotidiano fosse l’unico modo per tenere vivo il legame. 

Non andava tutto benissimo. L’adolescenza è un discreto mistero, con picchi altissimi e baratri piuttosto profondi, scarsa visibilità e nessun navigatore. Però c’erano gli amici, la musica, la famiglia, lo sport e qualche amore. Il problema era l’intensità con cui si vivevano certe emozioni e determinati eventi, o, forse, era proprio la parte divertente.
Il nostro studio alternativo aveva lati in realtà produttivi e creativi.
Fu così che letteratura e musica si fusero, in iperbolici supergruppi, con un Baudelaire come seconda voce degli Alice in Chains, un Pascoli padre dello shoegaze e Leopardi che scrive l’Infinito con A Forest dei Cure nelle cuffie. 

“Ah, in Corduroy muore Vedder/Werther, un suicidio letterario”.
“Ecco, questo Vitalogy, com’è?”
“Questo Vitalogy è come l’inferno di Dante. Pieno di fantasmi, qualche buon consiglio e memorabile monumento per le generazioni future”. 

In realtà era lo specchio di un gruppo a pezzi. Vedder e soci erano sulla trentina, ma quello che avevano partorito, per dinamiche e cronologia, era l’album dell’adolescenza. Avevano incantato il mondo con i primi due lavori, il terzo fu rottura, fu opposizione, fu affermazione di sé. Il problema fu che sembrava stessero facendo questo percorso in tempi e luoghi separati, cuciti insieme solo dalla lungimiranza di Brendan O’Brien, che non concesse loro il lusso dell’implosione. O di sparire, come fece Kurt. Anche di questo si parla in Vitalogy, della responsabilità del continuare a vivere, del sopravvivere a certi eventi e farlo non solo per inerzia, ma testimoniando una certa visione positiva, così démodé in quegli anni. Vitalogy era rabbia verso chi aveva mercificato ogni cosa, dalle mutande di Vedder alla “morte del Grunge” avvenuta, secondo la stampa, ad aprile di quell’anno. Last Exit, Not for You, Whipping erano lì per mandare a stendere tutti e per affermare a gran voce la propria identità. 

Come può non amare tutto questo un adolescente che, nel suo piccolo, ha davanti a sé dinamiche molto simili? Come può non perdersi dentro Nothingman e sapere che ogni volta che verrà lasciato da una ragazza ci sarà la canzone perfetta per struggersi con un certo stile? Come non si può amare Betterman, una canzone rimasta nel cassetto per anni, esclusa da due album e che Vedder tentò di tenere fuori anche da Vitalogy, per difendere il suo privato, perché non esiste la giusta misura nel darsi agli altri, soprattutto se sei sopra un palco, o appeso sopra di esso?

Non si può non amare Vitalogy, che ci lascia con Immortality, in cui il suddetto palco diventa patibolo e che termina con quel “some die just to live” che sa di dedica, di epitaffio e di monito allo stesso tempo. Quella frase, pochi anni dopo, la scrissi sul fondo della mia tavola da surf di allora. 

some die just to live

Vitalogy è stato, è e sarà sempre il mio album preferito perché contiene al suo interno tutto quello che amo e tutto ciò che odio dei Pearl Jam. Perché mi ha aiutato dopo una perdita molto più dolorosa di quella di Cobain. Perché lo suonava in spiaggia Stefano, ottimo chitarrista, che poi ha fatto di mestiere proprio il chitarrista. Perché è stato il primo vinile acquistato quando mi sono potuto permettere un impianto. Perché Betterman è un dolore intimo per chitarre e stadio. Perché l’unica volta che ho ascoltato Nothingman dal vivo fu a San Siro, 2014, quando allo stadio, vicino a me e dentro la pancia di sua mamma da pochi mesi, c’era mia figlia.
Vitalogy fu l’amore conclamato, Ten e Versus erano stati solo sesso.

Cosa, ancora?
Il karma ci vede lungo. Dopo un sabato di studi, dopo pasta al tonno e numerose birrette, la domenica a pranzo le ginocchia di Tonino iniziarono a vacillare.

“Ti fermi?”
“Ho solo una versione di greco, domani”
“Perfetto, allora”.

All that sacred comes from youth,
dedication, naïve and true.

Nulla di più vero.
Grazie per questi trent’anni, mio disco preferito. Sei stupendo come allora, imperfetto e trasparente, sono fortunato ad essere stato adolescente assieme a te. 

vitalogy 30