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VEZ5_2024: Marta Annesi

VEZ5_2024: Marta Annesi

| Marta Annesi

Viviamo tempi incerti. Incerti e frenetici. Assorbiti da quotidianità sempre meno “a misura di persona”, oramai anche leggere un libro, ascoltare un disco, sta diventando un atto quasi elitario, per pochi. Anche noi della redazione di VEZ siamo presi dentro a questa gigantesca centrifuga, ma cerchiamo ancora, spesso a fatica, di ritagliarci del tempo per continuare a starci, in quella élite, e nutrirci di arte, in qualunque declinazione essa si presenti. E quindi eccoli qui i nostri 5 dischi del 2024 che ci hanno in qualche maniera aiutato a sentirci, anche per poco, più felici, migliori.

Quando si avvicina la fine dell’anno cominciamo a tirare le somme di tutto quello che è successo nel corso dei vari mesi. E “fare questa lista” di VEZ5 mi fa rendere conto, anno dopo anno, quanto la musica influisca su di me in base al mio umore. La mia classifica è un po’ stramba, c’è un po’ di tutto perché mi hanno accompagnato durante i miei vari cambi d’umore della giornata.

Quindi: c’è grinta e tenacia, necessario per dare sprint e carica alla mia giornata; c’è sensualità ed eleganza, per coccolarmi; c’è dolore e rassegnazione al vuoto, per crogiolarmi nei piantini; ma c’è anche la voglia di uscire da tutto ciò. E infine c’è la perseveranza: essere se stessi e credere in quello che si fa è l’unica strada per rimanere veri e sopravvivere in un mondo che sembra volerci solo copie di copie di copie.

Kim Gordon The Collective

Sua Maestà.. Khaleesi del suono distorto, Prima Signora dei Sonic Youth, Protettrice del Noise Rock, Dea del basso, Madre degli Alternativi…..Ci ha fatto questo immenso dono, è tornata! Per far capire a tutti che il talento e la grinta non hanno età. Il suo The Collective è la prova che non esiste un limite alla volontà umana, la Signora Kim Althea Gordon ha deciso di giocare con le sonorità beat trap e hip hop, partorendo per noi un disco unico, aggressivo, caotico, provocatorio.
Sfrutta a suo vantaggio una modernità così (apparentemente) lontana da lei, creando un pandemonio di suoni industrial, di voce reale e di autotune (in Psychedelic Orgasm), chitarre elettriche esagitate, testi molto contraddittori (in Bye Bye ci trolla con la lista delle sue cose da portare per il tour? E in I’m a Man dissa malamente gli uomini, traendone un ritratto becero e patetico.)
Ma c’è un brano più di tutti che colpisce per la aura sexy e intrigante, con la voce a tratti sussurrata e lasciva, ed è Shelf Warmer. Ricorda molto lo stile dei Massive Attack ai tempi di Mezzanine.

Traccia da non perdere: Shelf Warmer

Billie Eilish Hit Me Hard and Soft

Una delle voci più emozionanti per quel che riguarda il panorama pop degli ultimi anni.
La ragazzina strana sta lasciando il posto ad una creatura magnifica che sta abbandonando il disagio e la ribellione adolescenziale, dimostrando una maggiore coscienza di sé e delle sue potenzialità, e conseguentemente una voglia di sperimentare e di migliorarsi. Se in Happier Than Ever il fiore sta sbocciando, in Hit Me Hard and Soft ha spalancato i suoi petali vellutati verso il futuro.
Questo periodo di crescita si denota dalla voce, più delicata e ricercata. Questo nuovo disco scopre una Billie Eilish dolce e assertiva; gioiosa e giocosa; seducente, aperta a parlare del suo mondo interiore, delle proprie emozioni e sentimenti.
La bellezza di questo album? Non è pop. Ci sono dei pezzi più ritmati, veloci, da passare alla radio, ma il resto dei brani è talento incanalato nel verso giusto.
Ma crescere significa anche fermarsi, ogni tanto, e guardare indietro a ciò che eravamo, alcune volte con non poca nostalgia, e questo succede anche a Billie, che si lascia sfuggire Blue, un pezzo elegante, in cui la sua voce inizialmente ci coccola con una raffinatezza e sensualità sconsiderata, in una ballad ritmata per circa 1 minuto e 50, per poi cambiare drasticamente registro e diventare improvvisamente malinconico e dannatamente doloroso. Tutto sprofonda lentamente nell’Oceano, la voce di Billie ci accompagna giù nelle acque oscure e misteriose, fino al disperdersi della sua voce. Rimangono solo i violini.

Traccia da non perdere: Blue

Mannequin Pussy I Got Heaven

Sono Punk. Sono la speranza per il futuro. I Mannequin Pussy pestano palchi dal 2010, non sono proprio dei ragazzini. Ci sono stati vari cambiamenti all’interno del gruppo, ma i fondatori del gruppo (Colins “Bear” Regisford, bassista e Marisa Dabice, cantante) tornano quest’anno con una nuova formazione, soprattutto dopo l’entrata di Maxine Steen che ha portato con sé il suo talento, la sua chitarra e anche le sonorità synth.
I Got Heaven è un disco VERO. Crudo, romantico, disperato, divertente, contraddittorio come solo le persone reali possono essere. Musica fatta da comuni mortali, per i comuni mortali.
La voce di Marisa è cangiante, è maturata e col tempo ha imparato a capire e gestire le proprie emozioni, lasciando la rabbia e la disperazione negli album precedenti. Sul palco si muove provocatoria e magnetica, si è attratti dalla sua voce, dal timbro e dal suo dualismo, capace di estrema grazia come di aberrante aggressività.
Ora con queste nuove capacità è in grado di donarci leggerezza in pezzi come I Don’t Know You e Nothing Like; brani più contaminati dall’indie rock come Split Me Open, e due attacchi da 1 minuto e mezzo circa l’uno di cattiveria punk.
L’anima della band risuona in OK? OK! OK? OK! un esplosione incontrollata di furia bestiale punk, dove il ruglio di Bear alternato alla voce acutissima di Marisa crea un contrasto violento, l’orso grande e grosso che sembra voglia ingoiare la piccola ragazza indifesa, in realtà la vuole solo proteggere, così lei si sentirà al sicuro e potrà fare pace con sé stessa ed evolvere.

Traccia da non perdere: OK? OK! OK? OK!

Tom Odell Black Friday

L’artista è una persona fortunata, rispetto a noi poveri umani senza arte né parte. Se hai talento e provi un forte dolore, puoi veicolarlo tramite le tue abilità, facendo del bene a te stesso e anche agli altri che possono immedesimarsi, e tramite l’esperienza del dolore dell’artista il pubblico ne esce salvato egli stesso. Quindi dobbiamo ringraziare e benedire il dolore perché riesce a portarci a livelli che forse da soli non potremmo arrivare. La dimostrazione di ciò tra tutti è forse Tom Odell, dopo essere stato mollato dalla sua etichetta nel 2021, la sua canzone è stata “popolarmente” eletta come canto di ribellione. Nelle piazze tante donne cantavano intorno al fuoco “And if somebody hurts you, I wanna fight…”, la sua canzone di 10 anni fa. Questo forse ha dato la spinta per tornare, mettersi in studio registrare Black Friday, che celebra il suo ritorno sulla scena musicale. Un disco profondo, intenso e senza dubbio intimo. Si ha la sensazione che Tom sia con noi sul divano, e ci stia parlando dei suoi guai come un vecchio amico che non vediamo da un po’.
La sua forza è una sorta di empatia vocale, con la voce riesce a emozionare, colpendo in un punto molto profondo dell’anima di chi lo ascolta. Ci fa entrare nel suo personale universo, fatto di depressione, di rifiuto della realtà e del chiudersi dentro una mente che gioca contro di noi. Non si può incastrare dentro uno stile, lui semplicemente scrive, prende la chitarra e in studio registra. E’ la sua vita in musica, senza troppi fronzoli. Solo cuore, voce e musica. (e l’orchestra)
Il dolore, la malinconia e la rassegnazione sono i punti su cui verte l’intero disco. Ma parla anche del modo in cui ognuno di noi trova un modo per tirarsi su, accettando che nulla è perfetto ed eterno.
Non esistono filtri con Tom Odell, è dolore reale quello che trasmette in Nothing Hurts Like Love eci commuove in Black Friday con le sue spiccate doti vocali. La semplicità con cui tratta temi delicati sconvolge e interisce, alcune volte provenire da un’altra epoca come in The End Of The Summer e in Somebody Else, che è una carezza di un nonno, una ninnananna sussurrata appena.
The End è la canzone più soave e triste del disco, qui la voce di Tom diviene eterea, svanisce quasi, fondendosi con il piano e il violino.

Traccia da non perdere: The End

God Is an Astronaut Embers

Questo gruppo è una sicurezza del mondo del post-rock strumentale. Da circa vent’anni si impegnano per mantenere alto lo standard in questa musica (manco tanto) di nicchia.

I God Is an Astronaut sfornano il loro undicesimo album, sempre con lo stesso scopo: catapultarci attraverso la musica verso l’Universo, tra costellazioni brillanti e nero profondo. La loro musica è in grado di aprire i chakra dell’immaginazione e far lievitare la tua anima fino a posti meravigliosi.
Questa volta hanno lasciato un po’ da parte la loro peculiare vena malinconica per spostarsi verso luoghi tranquilli, immersi nella calma perenne. Ma il loro stile rimane invariato, hanno solo modificato la destinazione del viaggio, ma la carrozza rimane la stessa di sempre.
Forse è proprio questa la loro ancora di salvezza, rimanere imperturbabili alle mode e ai tempi che cambiano.
L’album si apre con Apparition, un pezzo che inizia timidamente, per poi sconfinare in melodie multietniche con sitar e sonorità epiche, che sembrano voler riecheggiare fino alla fine dell’eternità. La nostalgia tipica che li contraddistingue si manifesta in Falling Leaves, che contribuisce a creare quell’impalcatura del sogno che ci condurrà durante tutto il viaggio in cui ci condurranno.
A bordo della loro astronave sonora toccheremo isole paradisiache orientali, terre incontaminate, scenderemo giù negli abissi fino a lambire la volta celeste, e ci spingeranno più su, grazie a intro epiche e transizioni uniche. Con la musica creano ambientazioni che esulano dal contesto fisico.
In un brano in particolare, Realms, la presenza della violoncellista e compositrice londinese Jo Quail contribuisce a creare uno mondo onirico, con echi ancestrali che rievocano epoche antiche.

Traccia da non perdere: Realms