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Any Other, fare pace col tempo che passa

Any Other, fare pace col tempo che passa

| Alessandra D'aloise

Any Other, all’anagrafe Adele Altro, è una polistrumentista e produttrice di base a Milano. I suoi segni distintivi sono: canzoni introspettive e profonde, un’armonia semplice e leggera e testi unicamente in inglese. A fine gennaio è uscito il suo terzo disco stillness stop: you have a right to remember e noi abbiamo approfittato per farle due domande a riguardo.

Ciao Adele, grazie per la tua disponibilità. Prima di addentrarci maggiormente sul tuo nuovo splendido disco vorrei chiederti una cosa, soprattutto in considerazione del lasso di tempo che è passato tra Two, Geograpy e stillness, sei anni, che normalmente, nell’industria musicale brutalmente detta, sono un’eternità. Qual è il tuo rapporto col tempo, e col trascorrere di esso? Inteso sia con l’accezione naturale come maturare/invecchiare ecc, sia in riferimento alla musica e ai suoi, di tempi.

“Vero, sei anni sono tanti, però solo se li si prende come un di tempo di pausa artistica, però la questione non è così semplice. Da una parte penso che sia giusto che quando si fanno le proprie cose, a livello artistico e non solo, non mettersi pressa. Almeno io mi rendo conto che con me funziona così: non ha senso accelerare soltanto perché il mondo mi chiede di farlo. E qua mi collego la seconda questione: ho la fortuna di fare il lavoro della musicista e quindi è vero che sono passati sei anni, però in questo periodo il progetto Any Other non è mai stato fermo, e nel frattempo ha fatto un sacco di altre cose. Non li ho sentiti questi sei anni ecco. Più in generale che dire? Mi sembra che più si diventa grandi più il tempo passi velocemente. A parte che non so quand’è che si smette di diventare grandi, però diciamo che più passa il tempo più il tempo passa in fretta. Quindi diciamo che adesso mi sto facendo tante domande anche su come potrei gestire il mio tempo.”

Stillness, stop: you have a right to remember è il tuo terzo lavoro, uscito per 42 records il mese scorso, a sei anni dal tuo ultimo disco, Two, Geography. Com’è stato il processo creativo, hai cambiato qualcosa rispetto a prima? E i brani nuovi sono più o meno tutti recenti o c’era materiale già esistente, pronto per essere ultimato?

“Si e no. Per alcuni pezzi, cioè Zoe’s Seed e Need of Affirmation, le prime bozze risalgono addirittura al 2016, quando era da poco uscito il mio primo disco. Invece Awful Thread che è l’ultimo pezzo del nuovo album, l’ho scritto in studio mentre stavo già registrando. Quindi tutto molto spalmato nel tempo. Poi per dire anche i due pezzi che ho abbozzato otto anni fa in realtà poi li ho rimaneggiati nell’ultimo anno prima di registrare. Non mi è successo di avere un pezzo già pronto che era stato scartato e di inserirlo direttamente in un nuovo disco. Diciamo che ho salvato dei pezzettini che mi piacevano e me li sono portata dietro per riscriverli. In realtà questa modalità di scrittura dei testi è stata abbastanza analoga a quella che ho usato per scrivere gli altri due dischi: organizzare il materiale e vedere cosa mi piace, cosa risuona con me in quel momento. Perché magari una cosa scritta otto anni fa non mi sembrava giusta e oggi invece, rimaneggiata, mi suona perfettamente. In generale è stato molto naturale suonare questo disco, anche grazie al coinvolgimento di Marco Giudici, per quanto fin ora la produzione è sempre stata una cosa che facevo da sola e non avevo mai condiviso con qualcun altro. Ma farlo in questo modo e con questa persona lo ha reso estremamente naturale.” 

Te lo avrei chiesto dopo ma, visto che lo hai citato, quanto è importante avere una figura come Marco Giudici che, immagino, funga da aiutante e ti aiuti a cercare un equilibrio nelle scelte musicali? 

“Io e Marco suoniamo insieme da dieci anni ormai, c’è un tale livello di confidenza e di intimità che a me piace dire che abbiamo un neurone solo. Mi rendo conto che affidargli la coproduzione di questo disco è stato molto utile. Infatti avere il supporto di qualcuno che ti conosce molto bene, conosce molto bene la tua musica e il tuo modo di fare musica spesso mi ha permesso di rilassarmi visto che non ero lì a dover prendere le decisioni da sola. È stato molto utile e molto bello avere a fianco a qualcuno così.”

Sono curioso di chiederti in merito alla copertina del disco. In passato “c’hai sempre messo la faccia” mentre questa volta niente colori, niente volti, come dobbiamo interpretare questa “svolta”?

“La copertina è stata realizzata da Jacopo Lietti. Siamo partiti da una mia necessità che era appunto quello di rompere un po’ la catena rispetto alle copertine dei dischi vecchi, dato che avevo sempre messo un elemento fotografico a tutta copertina, senza scritte. Questa volta avevo voglia di fare un po’ una cosa opposta quindi non avere foto nella parte esterna ma solo un immagine stilizzata e magari dei segni grafici. Volevo mantenerla anche molto minimale dal punto di vista della palette. Infatti questo bianco e nero insieme ricorda un po’ una stampa. In realtà una volta che si apre il disco c’è una foto molto colorata un po’ massimalista proprio perché volevo dare questo contrasto.”

La tua discografia al momento è composta da tre capitoli principali, cioè i tuoi tre dischi, che sono frutto della stessa mente eppure tra di loro sono non direi diversi quanto piuttosto dotati di una propria chiara identità. Come li vedi tu, sono delle istantanee del momento, per quanto complesse e variegate, o sono piuttosto tre tappe di uno stesso percorso?

“Senza dubbio un mix delle due cose. Perché, secondo me, è molto importante metterci tanto tempo a scrivere un disco ma poi farlo uscire in poco tempo, proprio perché sono fotografie di un momento specifico della tua vita, di chi sei tu sia a livello umano e, quasi soprattutto, a livello artistico. Però, allo stesso tempo, chi sei tu non è un evento legato dal contesto o da una storia o da un percorso, quindi inevitabilmente sono più cose sono legate insieme semplicemente dal fatto che le hai fatte sempre tu.”

Credi sia giusto affermare che uno dei grandi temi centrali del disco sia quello della crescita personale? E in riferimento a questo quanto sei cambiata tu e in che maniera rispetto dal tuo primo lavoro Silently. Quietly. Going Away? Sia in termini di consapevolezza di te, della tua musica, di quello che cerchi da un disco e di quello che vuoi trasmettere.

“Non saprei perché mi metto proprio in un’altra prospettiva. Diciamo che essere capito o riuscire a comunicare qualcosa è incalcolabile, quindi, per quanta consapevolezza si possa avere è sempre difficile pensare di fare qualcosa perché così poi in quel modo si viene capiti più facilmente. Sicuramente però dopo anni a scrivere canzoni e fare i dischi diciamo che mi conosco io e so quali sono le mie le mie capacità, so cosa ho da mettere sul piatto. Poi non è detto che quella cosa lì riesca sempre ad innescare un click con le persone. Ti direi che sicuramente ho più consapevolezza di me come musicista e come compositore però non è mai una certezza.”

C’è un brano del disco a cui sei legata particolarmente? E ce n’è uno che è risultato particolarmente difficile da scrivere, per ciò che rappresenta per te?

“Se sono legata ad un brano più di un altro ti direi di no, non sento una preferenza di un pezzo di rispetto ad un altro. Invece, sicuramente invece Awful tread è stato il più difficile da fare. Ne abbiamo fatte credo tre versioni prima di arrivare a quella definitiva. Sì, se non sbaglio, quella che poi è uscita sia la terza o quarta versione che abbiamo registrato. Perché musicalmente è un brano molto semplice ma a livello di contenuto è molto pesante, ed è molto complesso riuscire a bilanciare questi due aspetti. Inoltre è un pezzo in cui sentivamo sia degli elementi acustici che gli elementi più di elettronica insomma ci ha dato un bel filo da torcere. Però la versione che siamo riusciti a tirar fuori ci è piaciuta. C’è un lieto fine fortunatamente!”

Quanto sono cambiate le canzoni da prima di entrare in studio a quelle che sono uscite poi sul disco? Non solo a livello di editing ma anche di arrangiamenti e di modifiche fatte in studio.

“Va un po’ da pezzo a pezzo. Ad esempio If I Don’t Care e anche in Zoe’s Seed, che sono brani più legati ad una scrittura “accordi, chitarra e voce”, la parte poi arrangiamento è stata più semplice. Infatti la parte di archi di Zoe è stato molto naturale, tante parti sia di piano che di basso le avevamo già quindi non c’è stata una gran fatica. Allo stesso modo per If I Don’t Care, ha un arrangiamento molto semplice a livello musicale quindi non è cambiato così tanto rispetto al provino che c’è stato prima di registrare. Invece ci sono altre canzoni su cui il lavoro è stato molto più grande ma perché avevano delle necessità un po’ diverse, come Awful Thread oppure Stillness, stop in cui c’è un accordo solo però ha una melodia ricchissima. La difficoltà infatti era come facciamo a dare tridimensionalità una cosa che non ce l’ha? Oppure Second Thought era un pezzo che avevo scritto all’inizio con un arpeggio di chitarra e la voce ma alla fine ho deciso che non avevo voglia di fare l’ennesimo testo con la chitarra quindi abbiamo buttato via tutto facciamo e abbiamo fatto l’arrangiamento delle voci. Quindi direi che sì, dipende molto dal pezzo in questione, alcuni sono proprio cambiati altri invece sono rimasti nella loro versione originale.”

Il tour come sta andando? Ho visto che farai diverse date non solo in Italia ma anche in Europa. Queste date le stai facendo in quintetto. Oltre a Marco che è anche il produttore del disco, gli altri compagni di viaggio come li hai scelti? C’è una differenza a livello di rapporto e ricezione col pubblico tra l’Italia e l’Europa?

“A livello di ricezione ti direi di no ma la differenza più grande che ho sempre notato è che negli altri Paesi europei c’è un po’ la tendenza positiva di partecipazione ai concerti anche di gruppi e/o artisti che non si conoscono. Qui è un po’ più difficile riuscire a mettere su una serata quando l’artista già non è conosciuto. Comunque premetto sempre che le mie considerazioni sono tutte pre pandemiche perché io non vado in tour all’estero dal 2019 quindi non so se negli ultimi cinque anni è cambiato tipo tutto. La mia band che spacca tantissimo con ovviamente Marco Giudici al basso, Giulio Stermieri al piano e ai synth. Giulio, tra l’altro, ha registrato il piano di Indistinct Chatter ed è stato incredibile. Poi c’è Arianna Pasini alla chitarra elettrica e sintetizzatore e Nico Altramondino che invece suona la batteria e le percussioni. Infine, ci piace pensarla come al nostro sesto elemento, è la nostra fonica Annalisa Vetrugno, che spacca veramente un sacco e anche grazie a lei la resa ai concerti è incredibile. Noi siamo tutte persone che spaccano, ognuna di queste personalità ha dei progetti musicali personali e sono tutti artisti oltre che musicisti. E infatti consiglio sempre di andare ad ascoltare e cercare loro cose perché sono tutti molto interessanti.”

Avete lavorato molto molto a livello di preparazione al tour? Cioè gli arrangiamenti sono stati manipolati molto per essere poi riproducibili dal vivo? 

“No, devo dire che è stato tutto molto naturale. Ovviamente abbiamo dovuto spostare alcune parti di certi strumenti. Certo, sarebbe molto bello portare gli archi in tour ma non siamo Bruce Springsteen e non possiamo permettercelo. Scherzi a parte, alcune cose sono state spostate ma più in termini di posizionamento, magari parti di piano acustiche le abbiamo cambiate di ottava perché non suonava bene ma piccole cose.”

Foto di Copertina: Ludovica De Santis