Le varie volte in cui mi sono imbattuta a parlare con i miei soci, che conducono una vita casa-concerti, dello strano caso di Niccolò Contessa e de I Cani, in qualche modo seguiva tassativamente l’appellativo di “Storia dell’Indie italiano”. Per chi scrive è molto impegnativo elaborare il report di ciò che ha avuto luogo lunedì sera 10 novembre all’Estragon. Essere toccata fino alle viscere da emozioni travolgenti nate dalla delicatezza affilata tipica della band di Contessa, senza averla davvero vissuta e consumata ai tempi d’oro, fa uno strano effetto. La sensazione che ho provato fin dalle prime note era un misto fra il dispiacere per non poter condividere gli stessi ricordi delle ragazze e ragazzi protesi a recitare a memoria ognuno dei pezzi della setlist e l’inestimabile privilegio di poter assistere, dopo nove anni di ritiro dalle scene, ad un concerto de I Cani.
I sei componenti della band prendono posto sul palco e veniamo ipnotizzati da questa scenografia incorniciata da un cerchio di luci che ricorda un po’ il varco di luce o la navicella spaziale che ci porta avanti e indietro fra gli album della loro discografia. Sono in compagnia di alcuni fedelissimi, paladini dei primi lavori: Il sorprendente album d’esordio de I Cani, Glamour fino al penultimo (ormai datato) Aurora. Io, voce fuori dal coro, sono lì, sì anche per qualche storico vecchio brano, ma principalmente per sentire dal vivo Post Mortem, ultimo album uscito a sorpresa lo scorso aprile, che con 2-3 tracce ben assestate in pancia, mi ha stregato.
Il pubblico non comprendeva solo i più prevedibili alternativi, hipster giovani trentenni, punkettoni, ma anche un sacco di ventenni che magari dal loro indie pop hanno approfondito arrivando fino a loro. Chi si stringeva la mano, suggellando l’appartenenza a tutto ciò che arrivava dal palco. Tutti ballavano un proprio ballo. Si respirava qualcosa di più di un semplice concerto: era un rito collettivo, un raduno.
Non posso non osservare fin da subito una netta distinzione fra i brani della setlist selezionati dal passato, energici, ballerini e frizzanti – penso a Le coppie o Post-punk – e il tono, invece, più profondo, cupo e quasi rassegnato del nuovo disco – cito Io, Carbone, Felice e Un’altra onda (unico spiraglio finale di speranza).
Il risultato: una dicotomia sensoriale, volta a raccontare una storia che dura 25 anni e che mantiene però fedelmente la forma, l’elettronica, e l’oggetto, lo sguardo ironico sul tema sociale.
Contessa, anche se evidentemente emozionato, me lo aspettavo forse più loquace nell’ultima data bolognese (ultima di cinque iniziate il primo novembre). Non dedica, infatti, tanto tempo all’interazione col pubblico: saluta timidamente dopo i primi due brani, si concede un crowdsurfing proprio solo all’ultimo momento su Lexotan, sembra tutto concentrato a rispettare la lunghissima setlist, senza chiacchiere di intermezzo.
Nell’attesa dell’encore, mi unisco al coro “Vorrei stare sempre così / avere cose pratiche in testa / i soldi per mangiare, i dischi, videogiochi e basta” che invoca l’iconica FBYC (Sfortuna), meglio conosciuta come Maledetta Sfortuna. Ma irremovibile, Contessa si dirige al pianoforte per regalarci una toccante versione acustica di Una cosa stupida.
Si termina sulle note appunto di Lexotan, la folla in altissimo giubilo crea addirittura un circle pit nella zona centrale, dando fiato alla – così probabile, fotogenica e niente affatto patetica o mediocre, ma davvero adeguata – felicità.
Lucia Rosso
Setlist
Io
Buco nero
Colpo di tosse
Come Vera Nabokov
Hipsteria
Questo nostro grande amore
Carbone
Nella parte del mondo in cui sono nato
Nascosta in piena vista
Le coppie
Post Punk
Aurora
Sparire
Corso Trieste
Post mortem
Felice
f.c.f.t.
Davos
Un’altra onda
I pariolini di diciott’anni
Velleità
Calabi-Yau
Il posto più freddo
Una cosa stupida
Lexotan