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Roskilde Festival 2023

Location

Dyrskuepladsen (Roskilde)

Data

28/06-01/07/2023

È ancora viva nel mio cuore l’emozione del Roskilde Festival dell’anno scorso, che mi ritrovo ad arrancare di nuovo sul cavalcavia dell’autostrada, di nuovo schiacciata da uno zaino pesantissimo verso l’ingresso Nord a ridosso dell’Orange Stage, con al polso il braccialetto arancione brillante che fa pendant con il tendone del palco più iconico del Nord Europa.

Quella di quest’anno è un altro tipo di emozione quando, dopo essermi liberata dello zaino andando a botta sicura nel Backstage Village, metto piede nell’area del festival vero e proprio: il timore reverenziale è stato rimpiazzato da un senso di affetto e appartenenza (quello che qui chiamano orange feeling), forse la magia del primo anno è un po’ svanita sostituita dall’esperienza, ma rimangono intatti il fascino e la meraviglia di come tra poche ore, quello che ora è un campo deserto disseminato di palchi e punti ristoro diventerà una festa lunga quattro giorni.

È proprio la sensazione di ultimi preparativi prima dell’arrivo degli ospiti quella che si respira, insieme i vapori delle bombolette spray per i ritocchi ai murales e l’odore di legno fresco usato per le strutture dei chioschi, camminando un po’ a caso verso l’Orange Stage e poi, inevitabilmente, verso il memoriale dei “nine friends we’ll never know”.

Alle 17:00 in punto si aprono i cancelli e quest’anno, protetta dalla pettorina viola dei Media, vado a fare l’esperienza del rospo che si trova in mezzo al GRA nell’ora di punta, cioè vado a fotografare la grande corsa dell’apertura. Perchè correre, vi chiederete? Perchè è tradizione che il primo che arriva a toccare l’Orange Stage vinca l’ingresso al festival per l’anno successivo (e venga annaffiato di champagne dai volontari che gestiscono il palco).

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Finiti i momenti di folclore, si inizia con il programma musicale, che in fondo è il motivo per cui sono qui.
La lineup, sulla carta, è forse una delle più deboli mai viste, con pochi nomi di spicco come headliners, una carenza notevole di rock e una manciata di nomi ad alto livello di hype derivato da album freschi di pubblicazione.
La cosa interessante che ho notato a posteriori, soprattutto scorrendo le foto, è la forte presenza femminile nel cartellone: donne forti, donne punk, donne eteree, donne che amano il loro corpo nonostante tutto e donne il cui corpo è una prigione per il proprio io maschile, artiste che, specialmente in questo periodo storico in cui l’immagine perfettina da social media sta diventando uno standard estetico, mandano un messaggio molto diretto al pubblico che le ascolta, cioè di amarsi per chi si è veramente, la personalità sopra l’aspetto.

E allora Fever Ray come opening act a ragione riempie il tendone dell’Arena fino a farlo straripare, con le sue atmosfere notturne e la sua figura ambigua, inquietante, ma in qualche modo magnetica. Sullo stesso palco qualche ora più tardi si esibiranno i Queens of the Stone Age, agli antipodi dell’ambiguità sessuale, ma solida certezza in fatto di dare al pubblico una botta di rock come si deve: dall’attacco con No One Knows alla chiusura con I Appear Missing, un’ora e un quarto di pezzi con cui era impossibile non ballare, nonostante 8 Kg di attrezzatura fotografica addosso (la mia schiena non ringrazia, ma il mio animo si).

Grande delusione della giornata d’apertura invece è stato Kendrick Lamar: premio Pulitzer, sulla carta uno dei nomi più blasonati in tour, ha portato sull’Orange Stage la versione sciatta del suo spettacolo. Niente di quello che si era visto qualche giorno prima a Glastonbury ha trovato la sua via per Roskilde: niente scenografie, niente coreografie con i ballerini, niente corona di spine in pavé di brillanti, niente! Una felpa nera, pantaloni rosa barbie e un backdrop al limite delle recite parrocchiali. OK, ci sono stati un po’ di fuochi d’artificio, ma no, non abbastanza, anzi, così poco interessante che il deathcore dei Lorna Shore al palco vicino è stata una scelta più saggia.

Il secondo giorno vede una tripletta di nomi interessanti sull’Orange Stage: il redivivo Busta Rhymes, la conturbante Tove Lo ed infine lo spettacolare Lil Nas X. Se Busta Rhymes ha intrattenuto la folla con il suo hip hop stagionato ma pur sempre coinvolgente e Tove Lo l’ha provocata con il suo bustier finto nudo e un finto pene ma un vero culo al vento, è con Lil Nas X che si vede dello spettacolo vero, con la S maiuscola. Una produzione imponente, ballerini, scenografie, animali giganteschi e una presenza tanto statuaria quando aggraziata sul palco.

Per rimanere in tema ballerini e coreografie, un altro spettacolo davvero meritevole è Rina Sawayama, che non canta, interpreta. Chi invece sul palco è davvero statico in giusta contrapposizione al tumulto emotivo che smuovono le proprie canzoni, sono i Dry Cleaning, per me ultimo concerto di questo giovedì misto e assortito.

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Venerdì il mio programma prevede pochi concerti ma buoni, anche se vedo con grande amarezza che i due nomi grossi del giorno sono pressoché sovrapposti: Blur e Rosalía. Ma andiamo con ordine e seguitemi nelle avventure dei fotografi al Roskilde, che la cosa non è affatto semplice.

Dal primo pomeriggio iniziano ad arrivare notizie che il palco all’Arena è stato cambiato: via le piattaforme per i fotografi per la produzione di Rosalía, pit chiuso, niente fotografi, ma forse si, non si sa, anarchia totale perchè ogni palco a questo festival è una parrocchia per conto suo e non comunicano con il centro stampa dove si ritrovano fotografi e giornalisti. Il panico. Con la scusa di arrivare presto per vedere i Japanese Breakfast, con un’altra amica fotografa iniziamo a sondare il terreno e a prendere i primi contatti con gli addetti alla sicurezza con scarsi risultati: è tutto nelle mani del management. Passiamo la staffetta delle negoziazioni ad altri fotografi, nel mentre vado ad ascoltare l’hardcore punk dei Code Orange con alla batteria un figlio d’arte, Max Portnoy, stesso cognome di quel Mike dei Dream Theater e, tale padre tale figlio, anche questo picchia sulle pelli come un fabbro.

Il tempo inizia a correre verso le 22:30, ora di inizio dei Blur sull’Orange Stage: dall’Arena ancora nulla e in caso, con il concerto di Rosalía programmato per le 23:15, abbiamo solo 15 minuti utili per coprire la distanza tra i due palchi. Andare e rischiare o giocare sicuro e godersi i Blur? Rivedere un gruppo amato e meraviglioso o provare a vedere qualcosa di nuovo e – viste le foto di qualche giorno prima a Milano – potenzialmente molto interessante? Poco prima di andare dai Blur, arriva la notizia che si potranno fare foto all’Arena, non si sa ancora da dove ma lo scopriremo lì per lì. Decisione presa, si prova a fare il record olimpionico di slalom tra la folla.

Prima però, i Blur. Ed è qui che arriva il momento emozione pura del festival: sono salita sulla pedana per i fotografi e mi sono girata verso il pubblico. Un brivido lungo la schiena e la presa di coscienza di essere davanti ad una distesa di 80,000 persone, io a pochi passi da quegli idoli delle folle che sono grandi come formichine agli occhi di chi è nel punto più lontano dal palco; il privilegio che ho ogni volta per quei 10-15 minuti in cui posso sentire l’artista o la band come se fossero lì solo per me come io sono lì solo per loro. Alzo lo sguardo, l’insegna blur è semplice ma carica di promesse e poco sopra, mi fanno notare, c’è il porta fortuna del palco montato in cima all’arcata: una paperella di gomma gigante. In un attimo tutto diventa più leggero, l’emozione che mi stava quasi soffocando svanisce nella festa che sta per iniziare.

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Mettiamo agli atti che la corsa tra i due palchi appena finiti i tre pezzi canonici dei Blur è stata completata in quattro minuti. Arrivati da Rosalía, il pit per i fotografi era già chiuso e c’è voluta una buona mezz’ora di trattative per farne entrare altri tre – nel frattempo, da lontano, sento distintamente Coffee & TV e dentro di me, molto vicino, un astio profondo per questa principessina spagnola che si è pure presenta sul palco come se fosse appena uscita dalla doccia.
Tre pezzi, palco altissimo, non vedo l’ora di tornare dai Blur. Sento che stanno facendo Girls & Boys, ho ancora mezz’ora da godermi: Song 2 e Tender sono una boccata d’aria a pieni polmoni, la chiusura con The Universal un abbraccio da cui non vorresti mai scioglierti.

In chiusura di giornata, un altro spettacolo peculiare: un set spettrale, molto teatrale, un simil-cimitero gotico con una rella porta abiti di scena; a popolare questo luogo metafisico, un uomo intrappolato nel corpo di una donna. Christine and the Queens non fa un concerto, lui danza, recita, urla la sua libertà a pieni polmoni e arriva come uno schiaffo in faccia. Un artista decisamente da approfondire.

Il tempo è volato ed è già ora di fare i conti con l’ultima giornata di festival. La pioggia che doveva inzupparci da giorni, arriva lieve durante il sabato. Qualche scroscio più inteso degli altri, ma niente di troppo fastidioso per fortuna.

Non so come, riesco ad infilare sette concerti, alcuni più interessanti di altri, altri più delusione di alcuni.
Per farla breve: Black Country, New Road – non ci siamo; Weyes Blood – una dea in bianco, conferma la qualità vista al concerto dello scorso inverno; Caroline Polachek – si alla presenza scenica, mah alla musica; Whitney – carini, se si è nel mood high-school-band-sunny-pop; Loyle Carner – fa rap.

L’Orange Stage chiude la sua lineup con la dirompente Lizzo, massiccia quanto energica nella sua performance, riesce a far sculettare tutti, ma proprio tutti, e il sorriso che le si stampa in faccia è contagioso.
Il mio festival invece si chiude poco più tardi con l’electro-punk dei Wargasm, una botta di vita per contrastare la malinconia di un lungo weekend che sta già diventando ricordo caro.

Francesca Garattoni

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