Parte prima o “della ricorsività”
Torno a distanza di un anno al Barezzi Festival, un nome se c’è n’è uno di festival (forse più adatto il termine rassegna ma vabbè) virtuoso, vuoi per l’idea alla base, vuoi per la proposta musicale che è anche culturale (il che è tutto fuorchè scontato al giorno d’oggi). Ci torno di sabato come lo scorso anno. Allora furono i Lankum, oggi gli Spiritualized. Diluvia, come la volta scorsa, col Teatro delle Celebrazioniallagato, stavolta per fortuna il Regiosarebbe stato risparmiato. Oggi come allora sarebbe però stata una serata “one for the ages”.
Parte seconda o “one for the ages”
Gli Spiritualizednon si possono spiegare, non si possono rinchiudere in una definizione, non si possono inquadrare. Una cosa ti concedono, ovvero lasciarti trasportare, travolgere, cullare, stordire, incantare. Che la serata fosse da circolino rosso nel calendario lo si capisce presto: Teatro Regiopraticamente sold out, pubblico delle grandi occasioni, età media effettivamente alta rispetto agli standard ai quali ultimamente sono stato abituato (praticamente a ‘sto giro non ero tra i più vecchi dei presenti insomma), location che mette i brividi solamente a guardarla, quando provi ad alzare lo sguardo verso l’enorme lampadario che pende dal soffitto, circondato da magnifici affreschi. Ah, il lampadario ha un nome, si chiama Astrolampo ed ha più di 150 anni, così giusto per.
Ancora a sipario chiuso, sono da poco passate le 21, si avvertono le prime note. Cop Shoot Cop…
Parte terza o “dell’abbandono”
Si apre lentamente il sipario. Gli Spiritualizedin formazione “standard” a nove elementi con Jason Pierce all’estrema destra e a semicerchio le tre coriste, al centro basso e batteria a formare una delle sezioni ritmiche più clamorose che a memoria abbia mai avuto il piacere di vedere ed ascoltare, a seguire tastiera e le due chitarre.
Si va.
Cop Shoot Cop ad aprire dicevamo, unico brano in scaletta che pescherà da Ladies And Gentleman, un quarto d’ora, forse più, nei quali il bianco/nero delle parti cantate si alternano alla sequenza blu/rosso delle parti più rumorose ed improvvisate, un effetto talmente alienante che mi pare di essere attirato verso il palco ed inglobato da quel caos così educato e controllato. Non c’è materialmente il tempo per realizzare o applaudire che sono travolto nuovamente, stavolta da una furiosa She Kissed Me. Penso che quelle chitarre così ipnotiche che non ricordavo nella versione su disco non le dimenticherò facilmente.
Parte quarta o del “tanto con poco”
Shine a Light e poi Let It Flow, il palco che si fa rosso, Piercea duettare con le tre coriste, il gospel che si sposa alla psichedelia, i ritmi che tornano a salire con These Blues, Born, Never Asked, Electric Mainline e All Of My Tears, a chiudere un poker interamente proveniente da Pure Phase, disco che ha da poco compiuto trent’anni e che gli Spiritualizedhanno portato in tour per alcune date. In uno stato di beatitudine e quasi straniamento con gli occhi insisto con ostinazione su basso e batteria, basso e batteria, mentre fatico a realizzare e ad accettare come i due possano tenere in piedi un tale complesso e articolato scenario sonoro con una pulizia ed una semplicità sbalorditive. Deve essere così che suonano quelli bravi davvero, ah?
Parte quinta o dell’ “alzo le mani”
Non letteralmente, però insomma già sono psicologicamente incapace di reagire, le difese azzerate, in totale balia di quello che accade sul palco a pochi metri da me che il colpo di grazia arriva con The A Song (Laid In Your Arms). Devastante. Un’orgia di suoni, dieci minuti clamorosi a metà dei quali c’è spazio per una digressione rumoristica prima di riprendere da dove si era lasciato. Mi abbandono alla mia poltrona mentre a puntino arriva Damaged, che se fossi una persona capace di esprimere senza filtri i propri sentimenti credo scoppierei a piangere, “I wanna just close my eyes, feel like I’m floating”, invece mi limito a sentirmi una delle persone più fortunate al mondo, almeno in quale preciso istante.
Parte sesta o “sipario”
Capoverso che avrebbe potuto anche tranquillamente intitolarsi “ballate pure sul mio cadavere già che ci siete”.
Sail On Through, che aveva chiuso la maggior parte delle date della band di Pierce, questa volta fa da ponte verso il finale, So Long You Pretty Thing. Che altro dire se non di andare ad ascoltarvela, su disco o dove preferite e quando superate il quarto minuto e inizia in loop So Long You Pretty Thing, God Save Your Little Soul, chiudete gli occhi, volume alto mi raccomando, e figuratevi la bellezza che vi state godendo elevata a potenza, suonata dal vivo, in uno dei teatri più belli del mondo, in un momento che vorreste potesse non finire mai.
Poi succede che invece il concerto finisce, il sipario si chiude, il pubblico si spella le mani, chiede un bis, si accendono le luci, niente bis, niente “Grazie Parma, we’re happy to be here e blah blah”, fuori ha smesso di piovere e io sto ancora fluttuando nello spazio.
Alberto Adustini