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De André, Genova e l’Italia: il nostro omaggio per l’anniversario

Quando mi è stato chiesto quale fosse il primo argomento di cui volevo scrivere ho avuto paura. Il timore della blank page si univa alla voglia di parlare di qualcosa di importante, di sensato, ma senza prendermi troppo sul serio. Il mese scorso si è celebrato il ventennale della morte di uno dei più grandi cantautori di sempre, e ho pensato di rendergli omaggio raccontando qualcosa di lui.

Ma cosa dire, quando tanto è già stato detto, quando decine di giornalisti affermati e competenti hanno già narrato tutto quanto?

Ho deciso di partire da me, da ciò che ho conosciuto io di Fabrizio De Andrè.

La passione per Faber la devo a mio padre. Da piccola non comprendevo davvero il significato delle sue ballate, ma le tonalità vibranti della sua voce mi toccavano e mi trasportavano lontano. Pezzi dal ritmo incalzante – penso a La ballata della vanità o Volta la carta – hanno accompagnato i miei giochi di bambina, canti di denuncia come quelli di Non al denaro non all’amore né al cielo erano il mezzo con cui sfogavo la rabbia, da adolescente.

Ora, da giovane donna, conto le mie preferite attraverso un po’ tutta la sua produzione artistica, dalle prime degli album giovanili, alle ultime, che faccio ancora fatica ad analizzare totalmente, fatta salva l’inevitabile impossibilità di arrivarne a una lettura univoca e completa.

Fabrizio de André è stato uno dei miei più grandi maestri di vita, un aedo degli ultimi, un poeta sensibile della sua Genova e del Belpaese, cristallizzato nella sua lontana e modernissima epoca, tanto vicina alla nostra da diventarne un riflesso diretto.

De Andrè mi ha insegnato cosa vuol dire essere umili, ma anche come notare ciò che mi sta intorno.

Ho imparato a cogliere il senso della vita nei dettagli più sfuggenti, ho percepito e fatta mia l’urgenza di trattenere con l’inchiostro il tempo, un bene, questo sì, davvero a tempo determinato, che scivola via più veloce della luce.

Ho imparato a non giudicare nessuno dal suo status, anche se a volte può essere difficile combattere i propri pregiudizi. Perchè ne abbiamo tutti, e chi dice il contrario mente a se stesso: siamo il risultato di tutte le nostre esperienze, ci lasciamo forgiare da esse, ed è impossibile diventare adulti senza essersi fatti le proprie idee sul mondo.

Oggi però, grazie ai grandi della letteratura, della musica, della storia so che la realtà cambia dal punto di vista di chi la osserva. Chi sono io, se non lo straniero, l’ incompreso, il diverso, lo strano. Buffa coincidenza, strano e straniero (dal latino extraneus) hanno la stessa radice semantica: un dato su cui riflettere, che mi pare quanto mai d’attualità.

Di lui non so nulla, tolta una manciata di nozioni superficiali recuperate in rete: la data di nascita, il percorso artistico, il rapimento del ‘79, la morte, sopraggiunta vent’anni dopo, al termine della malattia che non è riuscito a sconfiggere.

Eppure, mi pare di conoscerlo da sempre: l’intensità delle sue parole ha fatto breccia nella mia giovane anima da plasmare, e non mi ha mai deluso. La sua musica è una litania antica, ancestrale, già sentita da qualche parte, in un tempo passato, ed è sempre una scoperta.

Scoprire la produzione dialettale mi consentì di ampliare, rivalutare e valorizzare il concetto di “lingua”. I toni, che trasudano una gentilezza senza tempo, ormai dimenticata, svelano l’uomo dietro al cantautore, intento a comporre i versi di quelle che, a mio parere sono vere e proprie poesie, da inserire nei libri di testo dei ragazzi a fianco dei “grandi” della letteratura.

Perché per lui, per Faber, doveva essere proprio così: non c’erano grandi o piccoli. Il testamento di Tito fu un’altra rivelazione: mi ha fatto fare pace con valori che credevo perduti, sottolineandone l’importanza e la verità, una volta cancellata l’arroganza delle prima banali interpretazioni.

Quello descritto da De Andrè non è un mondo perduto, ma un gomitolo di emozioni che impariamo a srotolare pian piano, un caos di momenti e di impressioni che sentiamo ancora nostre a distanza di alcuni decenni, non solo perché le sue canzoni fanno parte della memoria collettiva, ma anche per la loro essenza, che disinnesca il concetto di “bello” inteso tradizionalmente.

Se ci penso, svariati momenti della mia vita, come di quella di tanti suppongo, sono associati all’opera di questo grande maestro. Ma ciò che davvero mi colpisce, ogni volta, è l’urgenza, la verità della sua musica: Fabrizio de André parla di vita quotidiana, quella che accade sotto gli occhi di tutti, di cui nessuno parla, o ha voglia di raccontare.

Quello che possiamo imparare, credo, e continuare a portare avanti, è la voglia di non far passare inosservate le ingiustizie, e lottare, ognuno quanto è come può, per farle cessare.

Credo non serva compiere gesti eroici, metterci in mostra, né guadagnare i titoli dei quotidiani nazionali, per cambiare le cose: basterà sorridere a uno sconosciuto, dare una mano a chi è in difficoltà, offrire il proprio tempo in una delle innumerevoli associazioni culturali, opere di bene, gruppi sociali.

Ma pure, per chi ha la responsabilità di raccontare agli altri, approfondire una storia o una notizia senza farsi abbagliare dalla sensazionalità di informazioni che viaggiano molto più rapidi di noi, pensare a come raccontare un fatto di cronaca rendendo giustizia a tutti gli attori della vicenda.

Basta poco: basta non distogliere lo sguardo, abbassandolo dove normalmente fingiamo di non vedere. Perché, è bene ricordarlo una volta di più, in una società che mette al centro l’estetica e l’apparenza: dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.

 

Irene Lodi

 

I musical e l’Italia: decolliamo o non decolliamo?

Broadway, New York, 2019.
Siamo nel centro di Times Square, spasmodico groviglio della vita statunitense. Davanti a noi, a perdita d’occhio, l’infinito numero di teatri e dei loro cartelloni pubblicitari, spesso costituiti da schermi al plasma che giorno e notte ci bombardano di pixel luminosi, strillando il titolo del musical ospitato, il più delle volte, da anni ed anni. Che si tratti di The Phantom of the Opera, Wicked o The Lion King ogni giorno Broadway, nonostante il numero interminabile di repliche viste e riviste, nonostante il prezzo stellare di ogni biglietto, nonostante tutto, è sold out.
In Italia, attualmente, abbiamo solo un musical stabile nel “suo” teatro, ed è sì, un musical di produzione italiana, ma Disney. Si tratta di Mary Poppins, classico cinematografico senza tempo, riadattato a spettacolo teatrale a cura di Cameron Mackintosh, in scena al Teatro Nazionale Che Banca! di Milano dal 13 febbraio 2018.

Domenica 27 gennaio, il cast di Mary Poppins – Il Musical ha goduto delle luci della ribalta per l’ultima volta, per far spazio al prossimo spettacolo in cartellone al Nazionale, lasciando noi italiani nuovamente orfani di un vero e proprio musical “stabile”.  Dovremmo chiederci per quale motivo il concetto di musical in Italia sia così in differita o, se vogliamo, così difforme dalla tradizione statunitense.

Vale la pena, come nota a margine, nominare la Compagnia della Rancia, collettivo di professionisti che da anni offre la possibilità di assistere a musical di alto livello, eppure solo un colosso dell’intrattenimento come Disney riesce ad assicurarsi una produzione tale, vi assicuro, da non aver nulla da invidiare ai colleghi d’Oltreoceano.

Purtroppo, poco si investe nel “Made in Italy”. Si sceglie d’ importare il prodotto da altri paesi e le produzioni devono vedersela con i costi altissimi sui diritti dell’opera. Le problematiche del musical in Italia sono all’apparenza dovute principalmente ai fondi.

Nel Bel Paese si preferisce portare lo spettacolo in tournée, ammortando costi altrimenti insostenibili se gli spettacoli fossero stabili. Ciò compromette la grandezza degli allestimenti le potenzialità stesse del musical itinerante.

Ma che significa “stabili”? Sia a Broadway che nel suo corrispettivo londinese, il West End, i musical sono concepiti nel loro stato embrionale in teatri costruiti o riadattati a loro immagine e somiglianza (a partire dalle scenografie che arricchiranno il palco scenico, al design del teatro vero e proprio).

Al loro interno, come in un ventre materno, crescono, maturano per anni, a volte per decenni. Quest’operazione costerebbe alle produzioni cifre astronomiche, posto che in Italia abbiamo già in partenza scarsità di teatri per grandi concerti, opere liriche, spettacoli di prosa, relegati in palazzetti e stadi, strutture originariamente ideate per ospitare eventi sportivi.

Insomma, Italia patria dell’arte, ma senza posto per accoglierla.

Anni fa assistetti alla performance del cast originale di Broadway in Beauty and the Beast – The Musical, nella sua tappa milanese. Un’esperienza per me straordinaria, senza dubbio, ma evidentemente sacrificata, ridotta alla metà del suo potenziale espressivo.

Non era nel suo teatro, si percepiva. Il musical ha bisogno di casa sua e per darne alla luce uno tradizionale, ci vuole una gran dose di coraggio, non si tratta di uno spettacolo “minima spesa, massima resa”, anzi. Basti pensare alla difficoltà di ospitare uno show a 360°, una miscela di coreografie mozzafiato, scenografie imponenti, performer altamente qualificati e, estremamente importante, l’orchestra dal vivo.

Sì, perché nel musical tradizionale esiste un posto d’onore per i musicisti che, non tutti sanno, suonano interamente dal vivo, così come vengono eseguiti dal vivo i cori ed i rumori di scena.

Molto spesso, in Italia l’orchestra o la band live vengono sacrificate per problemi tecnici, spaziali o, addirittura, economici, lasciando il posto alle tanto odiate e criticate basi musicali. Infatti, retribuire degnamente i musicisti comporterebbe l’aumento del prezzo di un biglietto già percepito, erroneamente, come troppo alto.

Vi assicuro, non c’è nulla di più affascinante del ritrovarsi immersi nella mischia di giovani musicisti, appena usciti dai teatri del West End che, rincasando dal lavoro, affollano le metropolitane dopo l’ultima replica della giornata.

Sorge un ulteriore quesito: un’intera orchestra, nei nostri teatri, dove la mettiamo?

Ammettiamo poi che, in Italia, abbiamo un modo tutto nostro di plasmare il fattore spettacolo. Da sempre, sin dal Settecento e dai tempi del melodramma, ci piace avere la nostra versione delle cose.  E’ il caso di Notre Dame de Paris.

Ecco, quest’opera ha scosso incredibilmente l’interesse del pubblico italiano che, con ingenua convinzione, è certo di aver a che fare con un vero e proprio musical. Ahimè, si sbaglia perché “Notre Dame de Paris” non è un musical, bensì un’Opera Popolare, ben diversa dal cugino di Broadway. Infatti, trae le sue origini dalla tradizione musicale ed operistica italo/europea, senza alcun legame originale con il musical. Come se non bastasse abbiamo a che fare, nuovamente, con uno spettacolo itinerante.

Ancora oggi, replica dopo replica, tour dopo tour, il pubblico italiano acquista con piacere il biglietto per “Notre Dame de Paris”, spinto un po’ dalla collaborazione di un connazionale, Riccardo Cocciante, un po’ per la mescolanza che questo spettacolo ha con un’altra branca del panorama, l’Opera Rock, molto amata dal pubblico nostrano.

Evoluzione diretta del concept album (come Hair, Evita, Jesus Christ Superstar, Rent, American Idiot) molti artisti rock e metal, nel tempo, hanno sentito la necessità di produrre un Opera Rock, spinti dalla volontà di evolvere, nella sua completezza, una creatura fino a quel momento presentata al mondo attraverso il solo linguaggio musicale.

Scelta identicamente potente, sicuramente elevabile, grazie all’unione con le altre arti performative, proprio come il musical. Ma non è musical, per lo meno, non quello tradizionale che vediamo al Nazionale, con Mary Poppins.

In conclusione, possiamo affermare che il difficile rapporto tra il musical tradizionale e l’Italia non derivi solamente da necessità economiche e tecniche. Probabilmente, è proprio il pubblico italiano ad avere esigenze diverse, più inclini ad assecondare la tradizione nazionale o la moda del momento.

Troppo spesso il pubblico risponde positivamente al musical solo se nel cast è presente l’ennesimo personaggio famoso, lo “specchietto per le allodole” perfetto che, nella maggior parte dei casi, non sarà all’altezza dei suoi colleghi performer, professionisti del settore qualificati da accademie rinomate.

Il dubbio, tuttavia, ci assale nel momento in cui il successo di un’opera come “Mary Poppins – Il Musical” raggiunge un livello tale da incrinare le nostre ipotesi.

 

Valentina Gessaroli

La musica non conosce confini: I Hate My Village, 2019

Quando il ricercatore tedesco Thomas Fritz, nel 2009, arrivò in cima alle montagne del Mandara, a nord del Camerun, aveva con sé un computer portatile, batterie solari (niente elettricità da quelle parti) e alcuni brani degli U2. Il tutto per una missione ambiziosa: dimostrare l’universalità della musica.

I Mafa, uno dei 250 gruppi etnici della zona, non avevano mai ascoltato canzoni “occidentali”, prima di allora. I ritmi, i canti erano riconducibili esclusivamente alle cerimonie rituali e alle espressioni comunicative tradizionali.

Che effetto avrebbero suscitato i grandi successi provenienti dal nostro emisfero? Risultato: reazioni identiche agli ascoltatori “occidentali” e caratterizzate dalle tre sensazioni base di felicità, paura e tristezza. A determinarle, a livello di universale, sono il ritmo e la chiave maggiore o minore dei passaggi.

Dieci anni dopo, in Italia, una band, anzi una superband tenta qualcosa di simile, a ruoli invertiti. Dall’incontro tra Fabio Rondanini, batterista di Calibro 35 e Afterhours, e Adriano Viterbini, chitarrista dei Bud Spencer Blues Explosion nascono gli I Hate My Village.

Un nome che deriva da un cannibal movie ghanese degli anni settanta. Un omonimo disco d’esordio, pubblicato lo scorso 18 gennaio per La Tempesta International, che si snoda tra atmosfere oniriche e percussioni di realtà. Naturali inclinazioni al groove e impalcature blues accompagnano le melodie protagoniste, provenienti dalla musica sahariana e subsahariana.

Se l’artwork del disco, in cui si intrecciano coccodrilli, teschi, ossa e figure demoniache, ricorda scene di violento tribalismo, durante l’ascolto delle nove tracce ci si accorge che il cannibalismo è soltanto di matrice artistica e musicale.

È chiara la volontà di nutrirsi di idee, influenze e contaminazioni di origine anche lontana (Fela Kuti, Ali Farka Tourè, Bombino, Rokia Traoré) per studiarle, attraversarle, smembrarle e ricostruirle fino a renderle proprie.

Nessun intento di fedele ripresa della tradizione africana o di pura citazione delle varie band di provenienza. Sì, perché ai piedi dell’unico totem di I Hate My Village, chiamato “esperimento”, troviamo anche Alberto Ferrari dei Verdena alla voce (qui in inglese) e Marco Fasolo, eclettico produttore e bassista per tutta la durata del tour.

L’album sembra, dunque, l’esito di una ispirata jam session, spontanea, leggera ma non fortuita. Una prova riuscita di tecnica e stile presente già in apertura con Tony Hawk of Ghana. Riff intrecciati, psichedelici, venature prog a cui la voce di Ferrari dona un effetto di scomposta tridimensionalità.

Un contributo vocale che impreziosisce anche la coinvolgente Acquaragia e i ritmi ancestrali, frenetici e affannosamente funky di Fare un fuoco: parole quasi incomprensibili, a metà tra versi di animali e segnali in codice, rievocano le scene di danze tribali e riti sciamanici.

Presentiment, del tutto strumentale, trasla di nuovo le coordinate del lontano continente nelle nostre terre. Si ha come l’impressione di trovarsi al centro di un flash mob che imperversa in un cantiere italiano tra lavoratori di origine africana. Si crea l’intersezione di suoni inconsueti, asciutti, decisi, come generati non tanto da strumenti musicali quanto da attrezzi, fusti, martelli, sirene.

Nei 24 minuti di andatura impellente, l’occasione per fermarsi e respirare è concessa da Bahum. Armonie essenziali e vibrazioni primitive si accendono su una luce chiara, sui raggi del sole incandescente che spunta all’orizzonte, nella Savana.

Il valore aggiunto dell’internazionalità gioca, inoltre, sull’arguzia, sugli errori di pronuncia e sui giochi di parole evidenti nella ballabilissima Tramp, nel lamento reiterato, malinconico, inesorabile di Fame e nel brano di chiusura I ate my village. L’equivoco che aleggia tra i verbi HATE e EAT. Odiare e mangiare.

L’incontro, l’abbraccio, il disappunto, lo scontro. Uno scontro aperto con la musica italiana, rintanata nel suo microscopico villaggio, nelle sue regole, consuetudini e polemiche. Uno scontro aperto con chi rifiuta di espandere i propri confini, artistici ed umani. Il tentativo di scongiurare, attraverso la musica, questa minaccia di chiusura, oggi più presente e preoccupante che mai.

 

TRACKLIST:

1.Tony Hawk Of Ghana
2.Presentiment
3.Acquaragia
4.Location 8
5.Tramp
6.Fare un fuoco
7.Fame
8.Bahum
9.I Ate My Village

 

La Tempesta International

 

Laura Faccenda

Dave Orlando, i Pearl Jam e un po’ di Messico

Questa intervista nasce da un’idea condivisa. E da tanta empatia. Due elementi fondamentali per la riuscita di un progetto. Sì, perché dal momento in cui sono entrata a far parte del mondo di VEZ Magazine, il mondo di Vez Magazine si è intersecato alla perfezione con il mio, sfiorando con delicatezza anche le sfere più personali.

Lau, quando suona Dave a Rimini?” – mi disse Sara, direttrice della rivista e amica, un paio di settimane fa. “Venerdì 18 gennaio, all’Hobos”. “Ok, io e la Vali ci organizziamo per le foto, tu lo intervisti”.

È andata così.

Nella cornice di un locale che porta con sé il calore del Messico, l’entusiasmo dei leggendari avventurieri, il profumo del limone con la tequila, Dave Orlando ci ha presi per mano, accompagnandoci lungo un cammino musicale, tra i brani dei Pearl Jam, di Eddie Vedder e delle colonne sonore del film Into the Wild.

Non solo. Ha condiviso con il pubblico, con noi, uno dei suoi brani inediti, Il funambolo.

Abbiamo voluto approfondire…

 

Un brano con cui apri molto spesso i tuoi live è Off he goes, dei Pearl Jam. Una canzone in cui si racconta di un viaggio, di partenze, di ritorni, di cambiamenti. Dove ti ha condotto, ad oggi, la strada della musica?

Off he goes è un brano a cui sono particolarmente affezionato perché è sia complesso a livello musicale che a livello emotivo. Musicale perché non è facile da eseguire e l’ho preparato con grande impegno. Doveva venire in quel modo, secondo anche un po’ il mio perfezionismo nella musica.

Per quanto riguarda il significato, parla di un personaggio in cui ho rivisto sempre Eddie Vedder. Un uomo che lascia la sua città, gli affetti, la quotidianità per intraprendere questo viaggio lungo la strada della musica. Una volta tornato, si accorge di un profondo cambiamento. Nella canzone, in realtà, l’aspetto che più mi affascina è l’interpretazione, che rimane sospesa: è il mondo ad essere cambiato o è mutato il punto di vista del protagonista? È il protagonista ad essere cambiato, durante il viaggio.

Ecco, ho rivisto qui il mio percorso da quando mi sono dedicato completamente alla “vita musicale”: mi sono allontanato da una quotidianità che avevo vicina ed è cambiato proprio il mio modo di approcciarmi ad essa. Ho rinunciato a molte cose, tra cui, la più importante, il tempo. C’è un dispendio di energia enorme, sia sul palco che dietro le quinte diciamo. Io affronto tutto in modo viscerale, personale e tento di spiegarlo così, all’inizio di ogni serata. Con Off he goes.

Soprattutto nei miei live da solista, in cui decido soltanto il pezzo di apertura, mai la scaletta. Mi racconto attraverso dei brani che mi rappresentano, che sento tantissimo e che parlano la mia stessa lingua, seguendo le emozioni e l’atmosfera che si crea. Ad oggi, sicuramente, guardandomi indietro, il bilancio è positivo perché vivo di una passione. Della mia passione.

 

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Riportando l’attenzione alla partenza, appunto. Quando hai deciso di intraprendere questo viaggio? Quando ti sei detto: “Da grande voglio fare il musicista”?

Il viaggio è partito dalla passione, appunto. Scoperta anche un po’ per caso, nonostante i miei genitori avessero sempre avuto ed hanno tutt’ora a che fare con la musica. Loro, però, non mi hanno mai spronato a suonare uno strumento o cose simili ecco. Forse era inevitabile che mi avvicinassi a questo mondo. All’inizio per curiosità, amici che suonavano…e soprattutto l’ascolto di tanta, tanta musica.

L’idea di formare la prima band è arrivata intorno ai tredici anni e da lì, attraverso le tappe fondamentali per lo meno per la mia generazione… nessun ragazzino a sedici anni partecipava ai talent ecco… quindi, tappa dopo tappa, è cresciuta anche la consapevolezza di certe doti e capacità. Il mio approccio è sempre stato più “professionale” durante il percorso al punto che, qualche anno fa, ho sentito fortemente il desiderio di far diventare il tutto un lavoro, anche se non mi piace troppo chiamarlo così. Da un sogno si è trasformato, con il tempo, in un progetto realizzabile.

Chiaro che la mia carriera ruota molto attorno alle cover. Ho avuto sempre, distribuiti negli anni, anche progetti di musica inedita. Mai miei al 100 % in quanto non essendo il cantante non li sentivo troppo miei. Ma è stato utilissimo perché l’approccio è davvero diverso rispetto al contesto delle cover o dei tributi. Ti vedi in sala prove, inizi a jammare finché non esce un riff che funziona, porti le tue idee.

Probabilmente il tutto era impostato in modo troppo adolescenziale: ti incontri spesso, produci poco perché il metodo è sbagliato. Il passaggio ai progetti con le cover è stato dettato anche dall’età. A un certo punto devi per forza scegliere, investire costruttivamente tempo e qualità.

 

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Hai molti progetti all’attivo, sia da solista che con delle band. Tributi a Nirvana, Pearl Jam, Foo Fighters, Eddie Vedder, Chris Cornell. I più grandi nomi del panorama grunge anni ’90. Che cosa può suggerirci oggi, e ancora oggi, quella musica?

Gli artisti che sono emersi in quegli anni e che sono ancora in attività… non molti purtroppo… hanno iniziato a scrivere canzoni per esprimere un’urgenza, un disagio che era diffuso tra i giovani, specialmente a Seattle, che è stata una fucina di talenti. Provavano rabbia, volevano ribellarsi a una società a cui non sentivano di appartenere. Ovviamente, oggi il messaggio è molto cambiato. Sono uomini adulti che hanno anche superato difficoltà, momenti bui, perdite.

Hanno costruito spesso una famiglia, sono maturati, vedono la vita con altri occhi… e tutto questo si ascolta nei loro lavori più recenti… che non possono essere, tra l’altro, simili o di totale ripresa delle prime produzioni. Non capisco quelle persone che criticano per forza i cambiamenti da un disco all’altro di un gruppo o di un artista. Riprendendo questo discorso, appunto, il messaggio che la musica nata negli anni Novanta può veicolare oggi è l’importanza della comunicazione, della musica come comunicazione.

L’immenso potere che ha la musica di far sentire unite persone legate da esperienze simili che si rivedono in determinati brani…e magari riscontrano in quei brani lo stesso percorso, la stessa forza nel superare gli ostacoli, nel non arrendersi, nel voler costruire qualcosa. Purtroppo, secondo me, specialmente in Italia, abbiamo perso questo valore. Ascolto sempre più testi vuoti, basati su cliché, su schemi prefissati per entrare a far parte di un contesto che è basato molto sul business.

 

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Immagina di avere una macchina del tempo e tornare a Seattle, nel 1990. Squilla il telefono… “Ehi, vuoi venire a suonare con noi?”. Chi vorresti fosse dall’altro lato della cornetta? Di quale gruppo avresti voluto far parte?

Ehhh questa domanda mi mette parecchio in difficoltà. In qualche modo sono legato a tutte quelle band, da ognuna prenderei qualcosa. Se volessi fare un disco grunge, ad esempio, prenderei un po’ delle caratteristiche di ognuna, benché tutte diversissime. Dovendone scegliere una… Ti dico i Pearl Jam, forse anche per un discorso di longevità.

È stato il gruppo che si è espresso nei modi più diversi, dall’hard rock alla ballata acustica e credo che sia quello che mi rispecchia di più. Essere Eddie Vedder non sarebbe stato male dai… Ecco, mi vengono in mente ora anche gli Stone Temple Pilots che sono rimasti sempre più nell’ombra. È una band che adoro e, secondo me, il disco più bello uscito nel 1991 forse non è Ten… Ma Core degli Stone Temple Pilots.

 

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Oltre ad avere la grande capacità e il talento di rendere personali le cover che esegui, hai anche un progetto di musica inedita. Abbiamo ascoltato Il funambolo. Che cosa significa per te comporre, scrivere?

Ad un certo punto, ho sentito che era arrivato il momento e il bisogno di comunicare qualcosa di mio. Ok, riesco a farlo anche attraverso le cover rispecchiandomi molto negli artisti, nei brani, nelle parole e nelle atmosfere musicali che omaggio. Ma volevo dire la mia. Ovvio che dietro quello che tu scrivi, c’è sempre la speranza che arrivi a più persone possibili. Sarebbe ipocrita non ammetterlo… non è però il motivo per cui ho iniziato a scrivere.

È la musica che mi ha cercato. Non ho preso in mano una chitarra o mi sono messo di fronte a un foglio di carta, pensando: “Adesso scrivo una canzone”. È quella magia che avviene quando ti svegli, di notte o di mattina, con un’idea. Unendo tutti i pezzi, viene fuori qualcosa. Descrivo la mia musica come molto istintiva e poco ragionata perché c’è tanto di me. Non mi importa che sia più o meno condivisibile o ancora meglio, o peggio, vendibile. Non riesco a scendere troppo a compromessi quando si parla della mia musica e non voglio contaminarla. Non le ho dato molto spazio, per ora. Ma voglio che ne rimanga invariata l’autenticità.

 

Talvolta, parlando delle tue canzoni, hai confessato che sono ancora chiuse in un cassetto… Quale chiave potrebbe aprirlo?

Sinceramente, non lo so. Molti segnali, nel tempo, mi hanno portato a pensare di lasciar perdere. Non batoste o cose simili… magari aspettative disattese. E ho pensato: “Sto buttando via soltanto tempo?”. È anche vero, però, che ogni volta che suono i miei brani durante un live, magari solo uno, qualcosa dentro si muove. Mi dispiacerebbe privarmi dell’emozione provata quando eseguo una mia canzone. Il cassetto si aprirebbe se… arrivasse un contratto da qualche milione di euro? Scherzo ovviamente. Forse dipende solo da me. Il tema “inediti” è una questione a cui tengo talmente tanto che se non ci sono i presupposti per farli uscire…piuttosto non li faccio uscire.

È strano da spiegare. Sicuramente avere gli spazi per presentarli e farli ascoltare aiuterebbe molto. Di solito li propongo in qualche mio live quando percepisco che si crea uno scambio intenso con il pubblico. Quando si condivide una stessa lunghezza d’onda e io mi sento più aperto. Allora è figo. Quella magia lì è decisiva per aprire o meno il cassetto. E mi darebbe anche più energia per continuare a scrivere, comporre. Ecco, la comunicazione, lo scambio comunicativo sarebbe una chiave per aprire quel cassetto.

 

Ultima domanda. Se tra il pubblico, durante un tuo live, ci fosse la Musica in persona, come la ringrazieresti? Quale brano vorresti dedicarle?

Cazzo…. Bella domanda, ma difficile! Voglio rispondere in maniera istintiva. Credo che le dedicherei un mio brano. Ti spiego. Detto con tutta la modestia e l’umiltà del mondo, il “dono” di riuscire a creare una canzone dal nulla, secondo me, è una cosa grandissima. Ed è un dono che la vita e la musica ti fanno. Io, al di là di quello che può pensare la gente, sento di averlo. Per quanto riguarda il brano, sceglierei Il funambolo. È quello che propongo anche di più perché me ne sono innamorato da subito…della musica, delle parole, della metafora. Lì ho scritto tutto io e sarebbe tutto per Lei.

 

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Testo di Laura Faccenda

Foto di Valentina Bellini

 

 

Years & Years @ Fabrique

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• Years & Years •

 

Fabrique (Milano) // 04 Febbraio 2019

 

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L’electro pop band britannica capitanata dal carismatico Olly Alexander, ha presentato nell’unica data italiana al Fabrique di Milano, PALO SANTO il nuovo album uscito il 6 luglio per Polydor e anticipato dai singoli Sanctify e If You’re Over Me.
Gli Years & Years sono una delle band più rappresentative della nuova ondata electro pop britannica: il giusto equilibrio tra influenze 80’s e dance, beat elettronici e reminiscenze indie pop hanno portato il gruppo a dominare le più prestigiose classifiche oltremanica diventando un fenomeno worldwide.
SETLIST:
SANCTIFY
SHINE
KARMA
METEORITE
EYES SHUT
LUCKY ESCAPE
GOLD
DESIRE
PALO SANTO
TIES
PREACHER
HALLELUJAH
NO TEARS LEFT TO CRY
LIKE A PRAYER
WORSHIP
RENDEZVOUS
IF YOU’RE OVER ME
ALL FOR YOU
PLAY
KING
Grazie a Radar Concerti e Astarte

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Foto: Luca Ortolani

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I Hate My Village @ Monk

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• I Hate My Village •

Monk (Roma) // 02 Febbraio 2019

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Alle 21:30 del 2 febbraio si aprono finalmente le porte del Monk, circolo ARCI nato nel 2014, che a luglio compirà cinque anni e che “resiste” e si afferma tra i tanti locali come luogo di culto romano.

Casa base di live importanti per la scena musicale contemporanea e di numerosi incontri che pongono al centro di ogni evento l’aggregazione e la condivisione culturale.

Siamo tanti nella sala concerti per questa prima data italiana andata sold out, pervasi da curiosità ed euforia, come di chi attende ad un primo appuntamento.

Vedremo salire sul palco alcuni dei nostri artisti preferiti (già conosciuti per i loro progetti precedenti e paralleli) che hanno creato un’ intesa e quindi deciso di formare un’ unica band di livello “I Hate My village“.

I fantastici 4 del rock alternativo sono Fabio Rondanini alla batteria (Calibro 35, Afterhours), che insieme ad Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion) è la mente di questo progetto, Alberto Ferrari alla chitarra e voce (Verdena) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle) – al basso durante il tour – produttore e curatore del sound dell’album.

Eccoli apparire, finalmente, per presentarci il loro primo album Tony Hawk of Ghana, visibilmente emozionati per il debutto. Si dirigono composti verso la propria postazione, uno scambio di sguardi d’intesa e si parte con Presentiment, una scossa elettrica che ti attraversa e ti invita al movimento.

I brani si susseguono in modo energico, naturale, come colonne sonore di paesaggi aspri e selvaggi dal forte impatto mistico. Ognuno di questi è caratterizzato da un’alternanza di bassi graffianti, ritmi sincopati e discontinui della batteria e dai vocalizzi sussultori e urlati caratteristici di Ferrari.

Le luci calde a intermittenza e la macchina del fumo creano l’ambiente ideale per I Ate My Village, e finalmente il pubblico, che non ha mai avuto bisogno di rompere il ghiaccio, si lascia andare alle danze. L’ andamento del brano è così energizzante da far sciogliere anche l’individuo più legnoso.

Bahum è una festa, come un grande abbraccio sonoro tra loro, un festeggiamento intorno al grande fuoco che hanno creato insieme. Quando arriva  poi l’attesissima Tony Hawk of Ghana, che da il titolo all’album, si conferma un sigillo a tutte le aspettative sul live e su questo album sorprendente.

Un concerto come un grande sogno, che ci porta per certo in Africa in un villaggio sconosciuto.

Un villaggio dove questi musicisti si sono “accampati” con la mente e con il loro sound, prendendo tutto ciò che è possibile assimilare da queste atmosfere e fondendolo nelle proprie contaminazioni artistiche.

Grazie ad Fleisch[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Testo: Rachele Moro

Foto: Simone Asciutti

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Kaos India “Wave” (Universal Records, 2019)

Vi sentite nostalgici?

Percepite quell’abbraccio freddo della malinconia che vi attanaglia il cuore?

Il miglior rimedio è ascoltare musica triste.

Viene in nostro aiuto Wave dei Kaos India, band modenese attiva dal 2011, etichettata come alternative rock. 

Musicalmente precisi, ci regalano un album studiato, impeccabile sotto il punto di vista musicale, con molta cura nei particolari. Le melodie trascinano in universi paralleli bloccati agli anni ‘80, chitarre determinate e cori ripetitivi la cui unica ambizione è quella di rimanere in testa.

Sembra di essere vivere in Footloose, capelli cotonati, sneakers e maglioni improbabili.

Hanno avuto a disposizione cinque anni per portare a termine il loro ultimo lavoro, dando il massimo, ed è evidente, complice anche la voce perfetta di Mattia Camurri, riescono nel loro intento di dimostrare la loro bravura come musicisti e la loro voglia di mescolare generi per creare qualcosa di personale.

In generale, i brani partono tutti benissimo nell’intro: chitarre e batterie rock, come in A Second e Burn Away, ma proseguono infarcite di questo sound anni ‘80, cori retrò e orecchiabili.

Il tema fondamentale di questo album è la perdita. In Half ci parlano di una rottura amorosa, di quella particolare situazione in cui ci sentiamo a metà, e lo specchio rimanda un’immagine distorta, opalescente, quando tutto intorno a noi si dissolve e anche i colori vengono spazzati via, lasciandoci  circondati da un alone giallastro.

Close esordisce con un’intro in crescendo, per poi spegnersi in questa ambientazione anni ‘80 che perdura in tutto l’album, ed è sulla stessa scia di demoralizzazione per un amore finito, “Change is never easy/If you can get out of the rain”, non si può guarire dalla desolazione se prima non riusciamo a rialzare la testa e gettare il passato alle spalle.

A metà album troviamo Don’t Stop, un brano che ci incita a non mollare mai, ad affrontare la vita come una scala a pioli, dove per arrivare al prossimo gradino si deve avere la forza di superare quello antecedente senza spegnersi mai, senza smettere di essere ciò che si è. “Don’t stop feeling/ Don’t stop breathing/ don’t stop thinking and wondering

Il loro lavoro è un viaggio nella tristezza. Si parte dalla disperazione per arrivare poi ad una rinascita.

Come le fenici bruciano divenendo cenere, per poi risorgere proprio da lì, l’ultimo brano Burn Away è la tappa finale di questa epopea nello sconforto. Ci vogliono comunicare che tutto nella vita è un processo di perdita/rinascita, e l’unico modo per rialzarci a testa alta è bruciare tra le fiamme di una rinnovata passione.

Nel complesso un buon album, soprattutto per la ricerca metodica e la costanza di questi ragazzi italiani. Da apprezzare sicuramente l’impegno, la precisione e la voglia di provare sonorità differenti, ma da un gruppo etichettato come “alternative” mi aspettavo più bassi distorti, assoli graffianti e batterie più incazzate. Poca innovazione, melodie già sentite, nonostante la bravura del gruppo nel riproporle. Possiamo dire che gli anni ‘80 sono finiti (e per fortuna!!), è tempo di sperimentare più duramente, uscendo anche dalla propria comfort zone, piuttosto che star a ripescare suoni da un passato che non ci rappresenta più. Meno Duran Duran, please. 

 

Kaos India

Wave

Universal Music, 2019

 

Marta Annesi

 

Uriah Heep @ Vidia_Club

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• Uriah Heep •

 

Vidia Club (Cesena) // 02 Gennaio 2019

 

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Grazie a Vertigo
Foto: Mattia Celli

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You Me At Six @ Santeria_Social_Club

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• You Me At Six •

+ Big Spring | Hot Milk

 

Santeria Social Club (Milano) // 01 Febbraio 2019

 

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Febbraio, altrimenti chiamato volgarmente tristezza è un mese grigio e umido nel cuore dell’inverno. Incisivo nella sua breve durata tanto quanto è logorante gennaio con i suoi novantasette infiniti giorni. Se poi aggiungiamo che febbraio 2019 porta con sé i miei 37 anni, possiamo direttamente passare a marzo.

E invece no!

Perché c’è la musica, quella che mi viene in soccorso e che mi invita a partecipare proprio il primo del mese al concerto di uno dei gruppi più dolci e gentili che io abbia mai avuto il piacere di conoscere.

Questa sera infatti gli You Me at Six, gruppo britannico del Surrey formatosi nel 2004, raggiungono Milano portando sul palco del Santeria Social Club i loro successi intervallando la scaletta anche con pezzi dell’ultimo album in studio, VI uscito nel 2018.

Grazie a questo concerto ho avuto anche la possibilità di conoscere un locale esclusivo e molto originale in una zona di Milano da me mai frequentata. Quello che dapprincipio sembra essere un locale ricercato con una parete di alcolici di ottima annata sulla sinistra, mi smentisce non appena volgo lo sguardo a destra e mi ritrovo, ammirata, ad osservare capi d’abbigliamento in perfetto stile minimal – retrò.

Ma niente effetto smarrimento per me, solo tanta curiosità di procedere oltre la porta e di curiosare tra i tavoli del pub immergendomi in questa particolare atmosfera, mix perfetto di accoglienza e di creatività.

Davanti a me un’entrata scura con sopra la scritta a neon rossa TEATRO, quasi come annunciare una terza parte altrettanto esclusiva, per tanti ma non per tutti. All’aprirsi delle porte si avverte una sorta di abbraccio vellutato e morbido con due file di tende, come al cinema o appunto a teatro, che si schiudono su una sala affollata e sorridente.

Così come nel 2017 quando ho avuto il piacere di conoscere questa affettuosa band britannica, Josh Franceschi e i suoi musicisti hanno volontariamente deciso di regalare gioia ad un pubblico positivo e reattivo, cantando con il sorriso e intrattenendo il pubblico quasi come conoscessero tutti i presenti nome per nome.

Circa a metà concerto con Cold Night l’energia in circolo tra il palco e il pubblico era talmente tanta che le persone non sapevano se ballare, saltare oppure cantare e basta.

Mille e di nuovo mille le cose che Josh ha deciso di donare al pubblico, come i suoi balli festosi e l’atto di “ribellione” verso le costrizioni che il pubblico deve rispettare rimanendo lontano dal palco, fuori dall’area pit.

Dopo le tre canzoni di rito concesse ai fotografi accreditati sotto al palco, Josh strappa il nastro che delimita l’area e chiama a gran voce il pubblico ad avvicinarsi, salutando e toccando le mani quanto più in là possibile.

Ed ecco il turno della mia preferita Take on The World e via cellulari con torcia accesa e diretta sul palco su richiesta del cantante. Nell’aria c’è tanto amore ora, con questa canzone dal testo meraviglioso che ci accompagna verso la conclusione di una serata dall’atmosfera entusiasta che come sempre loro sanno ricreare.

Esibizioni live, le loro, che non perdono mai quel valore di fondo che è il rispetto verso gli altri, misto alla valorizzazione di ogni forma di amore e condivisione in barba ad un mondo che predica la chiusura e il sospetto.

La band canta, ride e si avvicina al pubblico che in risposta li abbraccia tra un turbinio di luci viola e sostenendo il cantante in uno stage diving che aveva tutte le caratteristiche del “vi voglio abbracciare tutti”.

Performer unici nella loro carica emotiva ed espressiva coinvolgendo il pubblico a tale livello da far dimenticare quali sono i cantanti e quali gli spettatori paganti, quasi come fossero gli You Me at Six ad aver pagato per assistere alla nostra gioia.

È stato tutto unico anche se non irripetibile, perché gli You me at Six superano loro stessi ogni volta.

E grazie ragazzi. Siete splendidi.

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Grazie a Indipendente Concerti e Live Nation[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

Testo: Sara Alice Ceccarelli
Foto: Luca Ortolani

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Big Spring

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Hot Milk

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Nessuno lo deve sapere: il nuovo disco di Brenneke svela cosa è scritto nelle stelle

Questo 2019 è iniziato all’insegna di uscite musicali. Quello che non è ancora stato svelato al pubblico è Nessuno lo deve sapere, terzo album (in uscita per VetroDischi il 1 febbraio) di Brenneke, al secolo Edoardo Frasso, classe 1989.

L’ho ascoltato in anteprima per  Futura 1993,  e posso rivelarvi quello che ci aspetterà.  La prima cosa da sapere è che quello che Brenneke tesse, all’interno delle dieci tracce del disco ( in cui compaiono anche Compleanno e Lasciarsi alle spalle, i primi due singoli usciti) è un viaggio fisico e spirituale in un’altra dimensione, estremamente reale e allo stesso tempo lontana, un po’ come lo spazio.

Ecco, in questo viaggio spaziale siamo accompagnati da Edoardo stesso, che si racconta attraverso amori finiti, amori in corso, tracce di vita vissuta ma soprattutto vivibile. La prima cosa che viene in mente ascoltando i suoi brani è che questi formino una sorta di mappa che ci fa percorrere in tutti i luoghi, reali e metaforici, che costellano l’album.

Senza accorgercene ci siamo persi in un’isola irlandese e troviamo rifugio in pezzi di un’altra persona, catapultati nello spazio, in mezzo a Satelliti e segreti.

La cosa che più colpisce dell’album è che diventa bello al secondo ascolto, quando l’orecchio si è già abituato ai suoni felici, quando non si fa più caso ai ritmi pop e ci si concentra sui testi, perché in quel momento le immagini di Brenneke diventano nostre, le sue parole descrivono il nostro vissuto.

È quello il momento in cui Nessuno lo deve sapere diventa uno dei prodotti più limpidi che mi sia capitato di ascoltare in questi anni. Dopo aver ascoltato l’album ho deciso di portare Brenneke all’Osservatorio Civico di Milano, perché mi sembrava potesse essere la location giusta per fargli qualche domanda per aiutarci ad orientarci meglio in questo viaggio.

 

La prima domanda che ti faccio è abbastanza canonica, raccontaci il tuo progetto, descrivendolo con tre aggettivi. 

Il mio progetto è Indipendente nel senso che io ho un bisogno stratosferico della mia indipendenza, intesa come la necessità di essere lascito un po’ da solo. Ho anche attraversato periodi con le band, ma alla fine ho bisogno di stare da solo.

È indipendente ma non è indie, è una parola che non mi piace perché è diventata sinonimo di moda, che non è necessariamente negativo, ma l’indie  storicamente è la controcultura, non ha a che fare nulla con la moda. Mentre venivo qui  in macchina ho sentito il vecchio disco di Giovanni Truppi e ho pensato che quello era vero Indie, e che in questo caso la parola ha un’aggettivazione culturale impressionante.

In quel disco c’è il jazz, c’è il rap, c’è Rino Gaetano ed è frutto di una mente artistica che sapeva perfettamente quello che voleva e che era politicamente connotata. Secondo me oggi manca un po’ questa accezione nell’indie.

Il secondo aggettivo è pop, ma quando ti dico pop io penso ai R.E.M., un pop che se ne frega. Poi ti direi provocatoriamente contemporanea, ma non tanto per una questione di sound, quanto per il fatto che per quel che mi riguarda non avrei potuto scrivere dieci anni fa quello che ho scritto oggi. Ne viene da sè che lo stesso album scritto oggi non penso possa parlare della realtà tra dieci anni.

Mi inorgoglisce molto l’idea di aver fotografato qualcosa che è adesso e basta. Per ultimo ti direi vivo nel senso che si evolve, che è una cosa che io ho sempre percepito nella sfera live. E’ un annetto che non mi esibisco live, ne ho fatto solo qualcuno acustico, ma tra pochissimo c’è il mio nuovo debutto. Però nel 2016/17 ho fatto decine di live e una cosa che ho sempre molto apprezzato, che veniva fuori sia con la band dell’epoca che con quella di adesso, era che i pezzi evolvevano. E mi piace avere questo approccio vivo.

 

Ecco, avendo ascoltato l’album, secondo me il tuo è un album da cantare. Nel senso che il modo stesso in cui tu lo canti porta le persone a cantarlo con te, quindi ti volevo chiedere, quale sarà l’approccio al live? 

Sarà, appunto, un live molto vivo. Il principale strumento delle mie canzoni, so che sembra banale ma non è così, è la voce. Non per tutti è così, io amo utilizzare la voce come la potrebbe usare un Dylan o un De Gregori. Quando uno ascolta un disco con me che sillabo le parole in un determinato modo, non deve necessariamente aspettarsi che ad un live io le faccia esattamente così.

 

Il tuo album è stato una sorpresa, non lo immaginavo così. Avevo ascoltato Compleanno e me lo immaginavo forse un po’ meno ritmato. Partendo dalla prima traccia fino all’ultima c’è quasi una crescita vocale. È qualcosa di voluto o è casuale? 

Allora è un disco abbastanza up-tempo e ora che mi fai pensare, effettivamente è vero quello che dici, c’è un crescendo vocale! In realtà non è stato voluto, ma mi piace molto.

 

Ti ho portato qui all’osservatorio perché voglio anche parlarti di spazio. Se il pianeta Venere significasse amore e Marte separazione, in quali brani troveremmo questi due pianeti? 

La cosa bella è che quasi tutte le canzoni li comprendono entrambi. Penso che così, su due piedi, quella che rappresenta meglio entrambe le anime è  Lasciarsi alle spalle,  perché ha in sé una doppia lettura. Lasciarsi alle spalle vuol dire sia smettere di amarsi in segreto l’uno dall’altra, metti caso due persone che convivono e che piano piano fanno affievolire i loro sentimenti, sanno che non amano più l’altra persona; quindi in un certo senso si stanno lasciando alle spalle l’uno dall’altra. Ma vuol dire anche dirsi addio, in senso positivo.

 

Sai io ti devo ringraziare, perché in questo album spesso e volentieri mi sono ritrovata! Una canzone che ho amato è Certi animali in cui secondo me si ritrovano molti luoghi, sia reali che metaforici. Molto romantica e forse molto triste. 

Sai, alcune canzoni di questo album sono state scritte tempo fa, quindi magari ci sono dei collegamenti a persone che hanno fatto parte del mio passato e che ora non sono più nella mia vita. È difficile da spiegare, ma a volte scrivere una canzone d’amore non significa amare ancora qualcuno, cantarla non significa riprovare le stesse cose. Una volta che una canzone viene scritta ed è davanti a me, per me diventa una sorta di esercizio di sillabazione ed è come recitare, è come un copione, un mantra e la sacralità della canzone è insita in questa cosa. Poi io in realtà amo questa cosa dei luoghi, cerco una certa geografia tra immaginario e reale.

 

Un’altra cosa che mi ha molto colpita del tuo album è il titolo, Nessuno lo deve sapere. Però poi è un album, quindi lo sanno tutti. Era questo che volevi? Lasciarci in un ossimoro? 

Sì, assolutamente sì. Poi, oltre ad essere il nome di una traccia (una delle canzoni più vecchie che ho scritto), Nessuno lo deve sapere racchiude un po’ il senso del mio modo di portare le cose sul foglio, da un punto di vista testuale molto più che musicale. E in fondo, anche qui c’è un ossimoro ( nel rapporto musica-testo) perché testi molto intimi sono accompagnati da suoni molto forti! Fatto sta che, che cosa non si deve sapere? Quelle cose che potremmo definire i sentimenti profondi, come la delicatezza che c’è nell’amore, come una conversazione tra amici. A me piace l’idea che le persone che mi sentono cantare abbiano la sensazione che sia un loro amico a raccontargli una storia.

 

È un album in cui ci si immedesima solo dopo qualche ascolto, è un album su cui si riflette! Era quello che volevi? 

Non so se è quello che volevo dato  mio modo di scrivere canzoni, ma è quello che mi viene detto da diversi anni. Anche con il mio disco precedente (Vademecum del perfetto me) e con il mio ep, a me la gente diceva “ le tue canzoni mi arrivano dopo” e io mi arrabbiavo, non capivo, volevo scrivere delle canzoni pop. Poi ho capito che è molto meglio questa cosa, ho capito che era quasi un regalo.

Facciamo una domanda più divertente. Fingiamo tu debba fare un concerto su Marte e puoi chiamare chiunque vuoi, presente o passato,  a cantare e suonare con te, chi chiami? 

Quindi io sono l’organizzatore di un concerto su Marte, allora, chiamo gli  U2 di Achtung Baby, gli Why? che sono una band che amo alla follia e vengono davvero dallo spazio, e poi chiamo i The Cure. E poi di italiano contemporaneo metterei  I Cani (di Aurora), poi porterei  La Rappresentate di Lista, Caso e poi Truppi.

 

Ultima domanda, c’è una domanda che nessuno ti fa?

Nessuno mi chiede mai nulla dal punto di vista tecnico sulla chitarra, io sono un chitarrista. Il fatto che io sia chitarrista influenza il 90% del mio far musica! L’altro 10% è influenzato dall’attrazione per quei cantautori che sembrano sempre stiano nell’etere, e le loro canzoni parlano di te ma tu non sai come. Io sono sempre stato attratto da questa superiorità, ho una vena verso l’umanesimo. Sono attratto dalla cultura ecco. La grandezza degli altri mi ispira tantissimo!

 

Mariarita Colicchio

 

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Architects @ Alcatraz

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• Architects •

+ Beartooth | Polaris

 

Alcatraz (Milano) // 30 Gennaio 2019

 

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Dopo vari soldout in giro per il mondo, gli Architects sono tornati nel nostro paese a distanza di due anni dagli ultimi show italiani per un’unica data il 30 gennaio 2019 all’Alcatraz di Milano!
Negli ultimi anni la band capitanata da Sam Carter ha continuato ad infiammare i palchi di tutto il mondo con apparizioni nei più prestigiosi festival mondiali, suonando il più grande show della loro carriera all’Alexandra Palace di Londra, ed è stata protagonista di varie copertine di famosi giornali come Rocksound e Kerrang.
Nonostante la scomparsa del chitarrista Tom Searle, non hanno smesso di scrivere musica, e sono pronti per continuare a renderlo orgoglioso conquistando il cuore di migliaia di fans!
La band è stata accompagnata da due special guest di eccezione: i Beartooth, la band di Caleb Shomo, che il 28 settembre dello scorso anno ha rilasciato il suo terzo album Disease, e la band australiana Polaris.

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Grazie a Hellfire Booking Agency[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

Foto: Elisa Hassert

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Beartooth

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Polaris

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Anna Von Hausswolff @ Atlas

Aarhus, January 25, 2019

It is a cold night in Aarhus, freezing temperature and the promise of a snowfall. It is the first time I go and attend a concert at Atlas, a warm and intimate venue with red walls and a cozy low stage.

There are about a hundred people scattered around, some seating on the steps on both sides of the room, some enjoying a beer in the candle light in front of the stage.

The stage is pretty essential, with guitars, a drum set and mike stands waiting for the opening band — Of the wand & the Moon — to step on it and entertain the crowd with their pleasant-to-the-ears neofolk music.

After just a thirty minutes set, the stage is emptied and as the noise of stormy winds fills the speakers, people fill the space in front of the stage while we all wait for the main artist of the evening, the Swedish musician Anna von Hausswolff.

Anna von Hausswolff is a blond pixie with the fierceness of a Viking goddess: she can caress your ears with the softest of the melodies and the moment after she’s orchestrating a raging wall of sound with her keyboard and synths worth of the most brutal death metal bands.

Despite the setlist she plays is only seven songs long, including the encore, she drags her audience into this distorted temporal dimension where music, melodies, noises and sounds all clash together creating beauty.

After the powerful opening sequence with The truth, the glow, the fall, Pomperipossa and Ugly and Vegenful, Anna steps in front of her keyboard and with just voice and a harmonica, she gets hold of the whole crowd with Källans återuppståndelse.

The lights are blue, the moment so magic, her voice so magnetic and mesmerising: you could feel she had complete control of the audience, her charisma filling the whole room.

And then it arrived, the song that I was waiting for: The mysterious vanishing of Electra with its gloomy atmosphere, the oppressive, ossessive guitar riffs that suffocates the listener in a crescendo of agony until the moment when you cannot bear it any longer.

Silence.

And then the fury arrives and liberates all our interior demons like a storm. I am not ashamed to admit I had shivers down my spine.

The set concluded with Come wander with me/Deliverance and Gösta performed among the crowd. The curtain fell on the stage and it was time to step outside into the magic light of a snow covered city.

Photo courtesy of Steffen Jørgensen

ita