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Tre Domande a: Lumache Rosse

Come stai vivendo questi momenti così difficili per il mondo della musica?

Sinceramente male. Momento difficilissimo per il mondo in sé e di conseguenza per la musica che è una delle sue diramazioni più dirette. Io come tutti coloro che si esprimono in questo modo, vivo un periodo incerto. Noi tutti viviamo di emozioni, ed è difficile provarle in questo momento.
Sono sincero nel dire che le prime giornate in cui obbligatoriamente dovevamo stare rinchiusi, mi hanno fatto bene. Venivo da un periodo di forte repentinità in cui raramente riuscivo a trovare del tempo per me. La prima esperienza è stata positiva, necessitavo di tempo per riflettere; desideravo quella condizione momentanea per ristabilire l’ordine interno e dedicarmi a quello che dovevo fare. Certo che appena quella momentanea sosta si è tramutata in mesi, ad oggi in più di un anno, non è più stata e non è una condizione piacevole.
Penso di viverla male come tutti. Guardo molti film e mi fa strano vedere le scene per strada, dove la gente si abbraccia; quello che era la normalità ora pare inusuale.
Oggi è dura, con continui spiragli di apparente quiete per poi ritornare nuovamente rinchiusi; è un continuo sbalzo altalenante che fa perdere la fiducia e fa scendere il morale. Vivo di tisane che mi scaldano e mi tengono quieto, con sottofondi ambientali e pacati per sovrastare i caotici rumori di città.
Il mondo si è fermato e noi con lui; molti locali storici hanno chiuso e il sipario dello spettacolo si è inginocchiato. A volte penso ai vari tour interrotti e spero di veder presto la luce alla fine di questo tunnel.

 

Come è quando è nato questo progetto?

In realtà questa storia non penso di averla mai raccontata fino in fondo: questo progetto è nato nel 2015, quando conobbi per caso un certo Ciga, un amico di amici; entrammo subito in sintonia, vivevamo esperienze folli e bevevamo vino ascoltando la stessa musica.
Un giorno ero solo in camera mia con un ukulele, acquistato qualche giorno prima, ad un certo punto suonando le prime quattro note che impari è uscita una canzone, che ho subito registrato con un messaggio vocale, mandandola a lui; mi chiese di chi fosse, io gli risposi mia. Mi ha chiamato immediatamente dicendomi che era una delle cose migliori che avesse mai sentito. Da allora ci trovammo spesso dopo i pomeriggi delle superiori a casa mia, a casa sua, nei prati, nelle case di altri. Io suonavo e insieme davamo voce a quelle parole scritte dalla mia penna.
Registravamo in cantina con un computer vecchissimo, con una ventola che surclassava il volume della nostra voce, fuori tempo, stonati, ma quello che usciva era speciale, per noi e per i nostri amici.
Lumache Rosse era il nostro nome, nato da un disegno di Domer (un altro nostro socio). Scrivevo principalmente io, ma eravamo un duo e la sua presenza era tanto essenziale quanto la mia. Forse non avrei mai scelto questa via senza il suo supporto e nel suo apparente silenzio, mi dava la forza per urlare. Le prime nostre canzoni le abbiamo pubblicate su YouTube.
Come spesso accade, ad un certo punto le nostre strade si sono divise; Ciga sarebbe partito per l’Australia e alla festa per il suo addio abbiamo litigato per vari motivi.
Ho deciso di continuare, prendendo atto di tutte quelle piccole sfumature che mi avevano portato fino a lì. Ero solo, ma tenni il nome plurale, perché le persone possono anche allontanarsi, ma si insediano dentro a dei solchi profondi nella nostra vita, senza mai andarsene davvero.
Ho deciso di registrare nuovamente tutti brani e racchiuderli in un EP, titolato Via Cavour’, uscito nel 2018; Via Cavour è una delle parole contenute nella canzone che anni prima gli mandai in quel messaggio vocale.
Io e Ciga ci siamo riappacificati e ancora oggi mi supporta.

 

Progetti futuri?

Sto lavorando a un album da più di due anni ormai; la pandemia ha notevolmente rallentato la produzione e la possibile uscita, ma siamo a un buon punto. Quando sarò pronto, lo farò uscire.
È una tappa importante e vorrei che fosse valorizzata al meglio; racchiuderà i quattro singoli già editi, Rondine / Polvere / Ragnatela / Pale Eoliche, con altri brani di questo stampo che parlano dello stesso periodo di stesura. Mattia Tavani, il risolutore dei miei problemi, è il produttore che sta curando queste uscite ed è un onore lavorare con un artista che stimo moltissimo, così come i miei soci Riccardo e Alberto, hanno contribuito a rendere tutto questo reale, ma soprattutto speciale.
Lo ritengo una tappa essenziale, solo quando potrò condividerlo con tutti passerò al livello successivo.

Sanremo 2021: Apologia di un Festival

Disclaimer: in questo articolo si parlerà solo di musica. Eviterò quindi i riferimenti a siparietti, politica e monologhi vari su qualsiasi questione perché non è questa la sede.

 

“Non credo di esser superiore/anche io guardo Sanremo” cantavano nel 2011 gli Zen Circus ne I Qualunquisti, una canzone che come poche riassume l’essenza del nostro paese. Ed è vero, perché ogni anno questo concentrato di italianità in mondovisione (e viene anche omaggiato in tutto il mondo) tocca vette altissime di share e unisce un’intera nazione sotto il segno della ballad. 

Ma c’è un però.

Da qualche anno a questa parte, infatti, il “genere Sanremo” è andato in crisi. Un genere che ha dei canoni ben precisi e sono convinta che tutti voi, sentendo questa parola, abbiate già in mente un tipo di canzone in particolare. È quindi per questo che la kermesse sta spopolando sempre di più nella fascia 18-25 — basta farsi un giro su Twitter per rendersene conto — contro qualsiasi pronostico. 

Da un lato abbiamo il tentativo, quest’anno più forte che mai, di svecchiare il festival con artisti giovani, freschi, usciti spesso e volentieri da club e locali vari. Nomi come Fulminacci, Madame, La Rappresentante Di Lista, Coma_Cose che, al momento della presentazione dei cantanti in gara a Dicembre, hanno piacevolmente sorpreso me e lasciato un po’ sbigottita mia madre, che invece continuava a chiedersi chi fossero. 

Il target è cambiato, e di conseguenza anche la musica è cambiata. Certo, non possiamo prescindere del tutto dalla quota “Tipica Canzone Sanremese”, ovviamente presente e apprezzata in particolare dalla giuria demoscopica, ma c’è anche stata varietà. L’egemonia culturale della ballad è stata sconfitta e i premi assegnati sono uno specchio di questo cambiamento: non a caso abbiamo avuto miglior testo a Madame (così come lo vinse Rancore lo scorso anno, uno dei primi a portare il rap all’Ariston), ma soprattutto dobbiamo parlare dei vincitori. 

I Måneskin.

Possono piacere o no piacere (io personalmente ho la loro canzone a rotazione da martedì) ma è innegabile che siano dei performer clamorosi. Nel 2016 aprirono gli Imagine Dragons al Milano Rocks davanti a 60.000 persone, sotto un diluvio universale, e tennero il palco come se lo facessero da tutta una vita. Sono spavaldi, energici, sopra le righe e forse non saranno una rivoluzione nel panorama mondiale della musica, ma per il Festival sicuramente lo sono, quindi la loro vittoria può solo che farmi piacere (e darmi speranza per l’Eurovision di maggio).

Insomma, è stata premiata una band che fa un genere che non ha niente a che vedere con lo standard festivaliero, in cui il cantante è classe ‘99 (ha la mia età e qui devo ripetermi: il target è cambiato, la rappresentazione è cambiata con buona pace di chi si lamenta) e che durante la serata cover si è esibita con Manuel Agnelli, quindi se lui ci vede qualcosa, chi sono io per negarlo.

Ma non è solo lo svecchiamento della scaletta a far sì che a 21 anni qualcuno pensi che sia una buona idea fare nottata per seguire Sanremo. 

Perché Sanremo, come tutta la TV da qualche anno, sa che lo show (sì, lo show, perché non dimentichiamoci che non c’è solo la musica in ballo, ma è un evento di portata mondiale) non lo fai soltanto in televisione, ma anche e soprattutto su internet. 

Guardare il Festival — o per i più assennati solo le performance il giorno dopo, riducendo così i tempi di un terzo — significa avere accesso alla quantità stratosferica di meme, video e in generale contenuti prodotti sul web. Insomma, senza aver visto la performance di Aiello della prima sera, il video in cui il suo pezzo è stato ridoppiato con la voce del signore di “signora i limoni” perde di significato e magia. 

E sono proprio i meme a far sì che anche le vecchie, vecchissime glorie — da Ornella Vanoni a Donatella Rettore passando per Orietta Berti (che sono sempre più convinta sia stata invitata per la quota meme e non per far piacere al vecchio pubblico target) — abbiano un seguito enorme e creino più interazioni di molti altri che invece non hanno lo stesso potenziale sfruttabile da internet.

Insomma, il Festival può piacere o meno, ma è anche vero che negli ultimi anni si sia ricreduto anche chi non avrebbe mai pensato di guardarlo perché “è sempre la stessa musica”.

E invece, fortunatamente, la musica sta cambiando. 

 

Francesca Di Salvatore

Foto di Copertina: Instagram @maneskinofficial

La Rappresentante di Lista “My Mamma” (Woodworm, 2021)

Quando penso a La Rappresentante di Lista, immagino un abbraccio tra l’arte e la politica e quando ascolto My Mamma, il quarto album del duo composto da Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina, mi immagino come una donna resistente.

My Mamma è un disco che ha deciso da che parte stare, che si schiera. È un disco libero, fluido, accogliente e pieno di spigoli” ha scritto La Rappresentante di Lista sul suo account ufficiale di Instagram, ponendo nuovamente l’accento sul tema della fluidità. Il gruppo ha dichiarato più volte di non voler essere definito con un genere specifico e quindi Lucchesi, Mangiaracina e la loro band hanno preso in prestito dalle rivendicazioni sull’identità sessuale il termine “queer”, che indica una non conformità alla cultura predominante e che descrive la loro musica. 

L’album mette al centro la figura femminile e lo annuncia con una copertina esplosiva che ritrae un nudo che gravita intorno alla vulva in primo piano: un’opera dell’artista palermitana Manuela Di Pisa, che si è ispirata a L’origine del mondo di Gustave Courbet. L’immagine richiama la vicinanza del gruppo alle lotte femministe attuali. Nel formato fisico sono previste tredici tracce, tra cui tre brani strumentali (Preludio, Lavinia e Invasione) che, invece, non sono presenti nel formato digitale. 

Alieno, uscito il 12 febbraio, è il primo singolo di My Mamma e con tutta la potenza della voce di Veronica Lucchesi, racconta la voglia di sconfiggere il dolore e provare amore. La Rappresentante di Lista su Instagram ha affermato che “Alieno è una canzone fuori posto, racconta di quando ci si sente a pezzi, avvilite, presi a botte dalla vita, spaesate”. Con il ritmo incalzante e il ritornello “Sono più forte del piacere, sono l’amore/Sono più forte dell’amore, sono il dolore/Sono più forte dеl piacere, sono l’amore/Sono più fortе dell’amore”, è difficile restare fermi. Si conferma, quindi, quella che per molti ormai è una certezza: La Rappresentante di Lista fa riflettere, ma fa anche ballare. Certezza che, peraltro, è arrivata anche sul palco del Festival di Sanremo con Amare e con la presenza scenica grintosa di Veronica Lucchesi, ben nota a chi ha assistito ai concerti del gruppo. 

Se si vuole fare una riflessione sull’attualità, non può mancare il tema dell’ambiente. Sarà è una canzone che parla della fragilità del pianeta che si riflette inevitabilmente nella dimensione individuale dei suoi abitanti e nella collettività. Il brano si apre con i drammatici versi “Sarà che la mia terra lentamente/Smette di respirare.”

Ma arriviamo ora alla canzone forse più emotiva di tutto l’album: Resistere. Le prime note accompagnano l’ascoltatore verso una strofa parlata che poi si apre nell’armonia del canto “Voglio provare ad esistere/La mia natura è resistere/E non mi importa di perdere/Quello che mi serve adesso è vivere.” A un certo punto, la voce di Veronica Lucchesi sovrasta la musica con quello che si potrebbe definire un monologo recitato, una riflessione carica di dolore e speranza. “Cosa vuoi che ti dica?/Sono a pezzi ma vado avanti.”

My Mamma è un viaggio introspettivo, un album che racconta il dolore, la fragilità e la voglia di andare avanti e amare, aiutandoci a conservare la voglia di ballare, che di questi tempi è tutt’altro che scontata. La Rappresentante di Lista ha scritto una storia travolgente che abbraccia l’attualità e la politica e noi dovremmo ascoltarla nell’attesa del primo concerto possibile. 

 

La Rappresentante di Lista

My Mamma

Woodworm

 

Marta Massardo

Julien Baker “Little Oblivions” (Matador Records, 2021)

“Chiedo perdono in anticipo per tutto ciò che manderò in frantumi in futuro”. 

Wow.

Si presenta così Julien Baker nella furiosa Hardline, apertura del suo nuovo Little Oblivions, terzo album della musicista americana.

Dopo un esordio magnifico con Sprained Ankle, ed un seguito letteralmente clamoroso di quattro anni fa, Turn Out The Lights, attendevo con grande, grandissima attesa questo terzo capitolo, non fosse altro perché in Julien Baker ho sempre visto la prosecuzione naturale di ciò che per me rappresenta Shannon Wright, ovvero musica viscerale, cruda senza essere rozza, diretta eppur elegante, al bisogno.

Little Oblivions fuga da subito un primo, possibile dubbio: Julien Baker è ancora ispirata, ha una facilità di scrittura disarmante; per dirla alla Keaton Henson “I still have art in me yet”, un disco che rimane con la giusta dose di tensione e lirismo per tutte e dodici le tracce, non si ha mai l’impressione di essere di fronte a riempitivi, o brani tappa buchi. Anzi. è compatto senza risultare piatto e il cui unico limite, se vogliamo trovarne per forza uno, è l’assenza di un acuto, inteso nell’accezione di brano totalmente superiore alla media, come potevano essere Appointments o Claws In Your Back nel precedente lavoro.

Probabilmente Little Oblivions è nella sostanza un concept album senza necessariamente esserlo nella forma, portando avanti temi centrali nella produzione bakeriana, quali dipendenza o depressione, “Until the I’ll split the difference / Between medicine and poison” in Hardline o nella successiva Heatwave, “I was on a long spiral down” lasciano pochi spazi d’interpretazione.

Faith Healer, con un arrangiamento molto meno banale di quanto un primo ascolto farebbe immaginare, contiene echi della Baker degli esordi, al contrario di Relative Fiction, più matura e per certi versi controllata, dalla quale emerge ancora con più forza la situazione di fragilità e contestuale consapevolezza della propria persona, capace di ammettere che “I won’t bother telling you I’m sorry / For something that I’m gonna do again”.

Torna a dispiegare molta della sua sconfinata potenza vocale nella tenebrosa Crying Wolf ma poi arriva Bloodshot, magnifica e martellante, quasi asfissiante nel suo incedere incalzante, con quel “There’s no one around / who can save me from myself” e il conclusivo, terribile “Drag me away in the dark / take me and tear me apart”.

Capita quando si ha a che fare con quelli bravi davvero di trovarsi di fronte a combinazioni di suoni, immagini e parole che mozzano il fiato per la potenza espressiva di cui sono capaci. E nel caso della Baker parliamo di una musicista che vanta collaborazioni con artisti di enorme valore, e le Boygenius (il trio del quale fanno parte anche Lucy Dacus e Phoebe Bridgers e delle quali la star, checché se ne dica, è Julien) sono solo una di queste; i Frightened Rabbit del compianto Scott Hutchison per dirne uno, o Matt Berninger dei National, o i Manchester Orchestra. 

Comunque si volge verso il finire del disco, con i cori di Ringside o la tambureggiante Favor, per giungere a Song in E, mia personale scelta tra tutte, per la sua durezza e quasi disperazione, per quegli accordi di tastiera, per quella fredda sincerità che mi riporta ai momenti più personali di Cat Power.

Sono gli incubi ricorrenti (che si entri in zona Lisa Germano?), o forse sono sogni, quelli che affollano Repeat, ed il travolgente finale di Highlight Reel fa da preambolo alla conclusiva Ziptie, quasi una preghiera, un’invocazione, “Good God / When you’re gonna call it off / Climb down off of the cross / And change your mind?”.

 

Julien Baker

Little Oblivions

Matador Records

 

Alberto Adustini

Tre Domande a: Alessandro Martinelli

Come stai vivendo questi momenti così difficili per il mondo della musica?

È stata una bella botta. Ho avuto la fortuna di trasformare la mia passione in lavoro, e negli ultimi cinque anni mediamente suonavo almeno due, tre volte al mese in giro per il mondo. Ti senti vivo. Conosci costantemente nuove persone, nuove culture, nuovi ambienti. Viaggiare ti apre la testa, se in più lo fai perché il tuo lavoro te lo consente, sei in uno stato di grazia. Quando tutto questo è venuto a mancare mi è crollato il mondo addosso. I miei viaggi in aereo erano diventati i sei passi che facevo tra camera da letto e sala, le mie cene con amici e promoter erano diventati un piatto di pasta in solitudine davanti a YouTube e i momenti dietro la consolle erano diventate le ore passate al piano in casa. Un senso di vuoto ti pervade. Solo il piano è riuscito ad aiutarmi a superare questo brutto ed incerto momento.

 

Come è quando è nato questo progetto?

Ho avuto bisogno di buttare fuori. Ho percepito la necessità di spogliarmi in qualche modo. E ho avrei voluto mostrare anche il mio lato più introspettivo. Durante il primo lockdown mi sono ritrovato chiuso in casa, solo, con una storia d’amore appena finita. Malinconia, solitudine ed incertezza hanno preso possesso del mio corpo e mi hanno spinto a portare avanti brani che già avevo ideato ma soprattutto di scriverne di nuovi.

 

Se dovessi riassumere la tua musica in tre parole, quali sceglieresti e perché?

Solitudine, Malinconia, Rinascita. Sono i sentimenti che più mi hanno accompagnato durante la creazione di questo album. E’ stato un percorso: mi sono sentito profondamente solo, da solo con il mio pianoforte, ho provato tristezza e rassegnazione, ma è suonando che sono riuscito a ritrovare la positività, e rinascere ancora. In ogni brano ho cercato di creare queste atmosfere, ogni brano ha una sua parte malinconica, contrapposta alla parte più risolutiva.

Tindersticks “Distractions” (City Slang, 2021)

Allora, chiariamo subito che partiamo male. Molto male.

Sto parlando di Distractions, il nuovo disco dei Tindersticks.

Siamo seri, dai, questa Man Alone (Can’t Stop Fading) è una canzone che, doveste un giorno trovarvi nella situazione di dover riempire una cristalliera di sole gemme della band di Stuart e compagni (e ce ne sono a dozzine), senza dubbio scartereste tra le prime. Che poi mi ricorda un sacco gli LCD Soundsystem, che piacciono a tutti voi, lo so, ma a me non sono mai andati giù, nemmeno quando facevate diventare This Is Happening uno dei dischi imprescindibili della storia della musica tutta.

Fine sfogo.

Comunque stiamo parlando dei Tindersticks, motivo per il quale anche fossero alle prese con una rivisitazione raggaeton di Tiny Tears o Until The Morning Comes ska non si skippa, non ci si allontana dalle casse, non ci si distrae, si sta pazientemente in attesa che passino questi 667 secondi (!), sperando che le cose cambino. Radicalmente possibilmente.

Presto (non tanto, invero) accontentati. I Imagine You ci riporta dove vogliamo stare. O dove io voglio stare. Il recitativo baritonale di Staples è quello di cui avevo bisogno, che meraviglia, con quell’attacco che pare preso in prestito dai Sigur Ros di (), poche note, qualche sussurro, non serve poi molto a creare la magia. 

Poi è la volta di A Man Needs A Maid. Toh, guarda, stesso titolo di quella di Neil Young. Ma ancora quella batteria elettronica dannazione. Ah ma è proprio quella di Neil Young! Ma sai che a dirla tutta non mi dispiace, anche se il paradosso è che sembra più vicina ai Tindersticks la versione del dio canadese rispetto a quella dei Tindersticks stessi.

Altro giro, altra cover, altra drum machine o qualche tipo di artificio. È la volta di Lady With The Braid, originale di Dory Previn del 1971. Mai sentita nominare. Nemmeno la canzone. Ma che testo magnifico! Poi in questa nuova veste viene totalmente dismesso il vestito folk cantautorale in vece di una più austera e composta, che siamo sempre i Tindersticks, ricordiamolo al mondo. 

You’ll Have To Scream Louder fa parte del versante soleggiato della band inglese, addirittura Stuart A. Staples te lo puoi immaginare farla dal vivo e ballarla col suo iconico (non è vero) passo col quale fa scivolare i piedi in un verso e nell’altro, su queste congas e queste chitarre funkeggianti.

Ma basta scherzare, Tue-Moi è il classico pugno nello stomaco che ti manda diritto al tappeto, un toccante, sofferto, sentito brano, piano e voce, in lingua francese, sull’attacco al Bataclan di qualche anno fa. 

Ma ahinoi è già tempo dei titoli di coda su questo tredicesimo capitolo in studio per la band di Nottingham, giunta ormai al trentesimo anno di vita. Ed è un meraviglioso finale, poche storie, questa The Bough Bends, coi suoi quasi dieci minuti di durata, è la perfetta nemesi dell’iniziale Man Alone (Can’t Stop Fading). 

E anche a sto giro, cari miei amori, fate un disco brutto la prossima volta.

 

Tindersticks

Distractions

City Slang

 

Alberto Adustini

Tre Domande a: Riccardo Morandini

Cosa vorresti fare arrivare a chi ti ascolta?

A prescindere dal contenuto, spero che qualcuno possa riconoscersi nelle tematiche che tratto. Penso che potersi rispecchiare in un brano musicale (o in una qualsiasi opera d’arte, se vogliamo utilizzare questo termine) accresca le gioie e lenisca i dolori legati al sentimento o al pensiero che viene descritto. Si esce dall’isolamento e ci si sente più vicini all’altro. Già ottenere questo è un immenso privilegio. A livello di contenuto posso riassumerti i temi dei tre brani contenuti in questo EP (Eden, NdR): ossessione per la fuga all’estero, eterno ciclo di produzione/consumo in rapporto alla pandemia, maturità, disillusione e atomizzazione familiare. Direi che le tematiche dipendono molto dalle mie riflessioni del momento e spero che per chi ascolta possano costituire un punto di vista interessante.

 

Come è quando è nato questo progetto?

Ho iniziato a scrivere brani cantautorali poco più di un anno fa. Come chitarrista ho una lunga esperienza e finora mi ero concentrato prettamente sull’aspetto strumentale della musica, coltivando l’interesse per la lettura e la scrittura in parallelo.
Con questo progetto mi è sembrato di integrare le mie due inclinazioni, facendo si che si sostengano e si completino a vicenda.

 

Se dovessi riassumere la tua musica in tre parole, quali sceglieresti e perché?

Dialettica: sia nei testi che nelle musiche c’è un dialogo continuo tra il “basso” e l’”alto”, tra parole di registro più elevato e più popolare, tra materiali musicali “colti” e pop.

Mistica: i testi pur partendo da fatti contingenti aspirano sempre all’universale e un tema che ricorre spesso è il peso dell’individualità. Il senso del misticismo è cercare di spezzare le catene dell’individualità nella continua ricerca dell’assoluto, che lo si chiami Dio, Uno o Nirvana. Forse vi si nasconde anche una sorta di aspirazione alla morte, al nulla.

Barocca: dal punto di vista musicale mi piacciono le melodie, le armonie e gli arrangiamenti ricchi e d’effetto. Per quanto lo apprezzi in altri contesti, non sento mio il minimalismo.

Tre Domande a: Le Zampe di Zoe

Come state vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?
La Pandemia ha tagliato le gambe a tutto il settore. Avremmo avuto veramente tanti concerti da Marzo scorso in avanti che sono saltati. Soprattutto uno, che sarebbe dovuto essere l’8 di Marzo 2020, ovvero il primo giorno di Lockdown. Avremmo dovuto suonare al Covo in apertura a La Municipal, che stimiamo e seguiamo sempre. Speriamo un giorno di poterla recuperare!
Non  ci siamo comunque persi d’animo e abbiamo impiegato il tempo in maniera alternativa: ci siamo messi a scrivere e, se non dovessimo selezionare, facendo bene i conti, oggi saremmo pronti per pubblicare altri 5 album! Scherzi a parte, abbiamo diversificato, quindi non abbiamo sprecato tempo. è un momento di pausa e come tale va trattato. Speriamo di poter tornare su un palco presto insieme ai nostri fidi destrieri Jay e Martino, ma, per ora, ci facciamo bastare il poco che i DPCM ci lasciano fare.

 

Come e quando è nato questo progetto?

Le Zampe di Zoe sono nate nel 2017 da due progetti solisti. Eravamo due ragazzi senza esperienza che si incontravano in una stanzina fiocamente illuminata e stavano ore e ore a suonare, registrare, cantare e ascoltare senza mai arrivare a un risultato. Ci siamo così decisi a farci aiutare. Siamo capitati al Turone Studio di Andrea Turone, che ci ha presi, ci ha spiegato tutti i passaggi da compiere, accompagnandoci fino al compimento della nostra demo Cinema Lumière, uscita il 3 Maggio 2019. Grazie a Cinema, siamo riusciti a farci ascoltare in più di 80 occasioni in due anni, esibendoci davanti ad un pubblico sempre diverso: dal bar di provincia allo Stupinigi Sonic Park. Ci siamo fatti un po’ di gavetta insomma: tanto busking e tanto studio. Casa è sicuramente un’opera più completa e matura, scritta da persone che sapevano quel che stavano facendo. L’unione delle forze con Trasporti Eccezionali, Antonello D’Urso, Franco Pezzoli, Daniela Galli, Cristiano Santini e tutti colo che hanno partecipato alla creazione dell’album è stata essenziale per il risultato stesso. Confidiamo molto nel nostro percorso e nell’esperienza che abbiamo accumulato. Oramai ci sentiamo pronti e speriamo che questo debutto venga considerato degno di essere ascoltato.

 

C’è un artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare?

In effetti si! Da tanto, troppo tempo stiamo seguendo la carriera e la poesia di Dario Brunori. Ne siamo affascinati per la semplicità, la chiarezza e la verità che riesce a trasmettere. Sarebbe un vero sogno poter scrivere una canzone a sei mani insieme a lui. Abbiamo avuto l’occasione di conoscere Matteo Zanobini, ma non c’è stata occasione di proporre niente, soprattutto perché siamo ancora ad una fase embrionale del progetto, perciò non troppo appetibili per un progetto come Brunori, però, chissà, un domani magari..

Tim Hart: being happy with what you have

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With his new upcoming album Winning Hand (Nettwerk Records) about to be released, we took the chance to ask a few questions to Tim Hart on this intimate and contemplative work recorded with Simon Berkelman at the Golden Retriever Studios in Sydney.

 

How did Winning Hand come to life and what does the title stand for?

Winning Hand for me is the concept of being happy with what you have and not always looking enviously to all those around you. It for me is a very freeing concept.”

 

Is there a red thread through Winning Hand

“The album is almost a tour diary that I’ve written over a couple of years of touring. At times it’s about what’s going on in my mind and at times about what’s going on around me. There’s lots about love and family and loss. Ultimately Winning Hand is about discovering a sense of self.”

 

In your third single Steady as She Goes you talk about what home is to you. What is then “home” during these difficult times? Do you think that its meaning has changed?

“When I wrote this song I was writing less about a place and more about a feeling. A sense of belonging. I know that sounds strange because I mention Sydney. But it’s more how being around friends and family make me feel. And in that sense it hasn’t really changed. You can feel just as at home while going through the horrible times we currently are I think.”

 

This is the first time recording your album with a full band. Can you tell us something more about this decision? 

“Recording with the full band was a way of me letting go of control. Previous albums I have played the majority of instruments. This time I just wanted to focus on the songs and let other great players focus on their thing!”

 

How was born the collaboration with Bianca Braithwaite and her artwork?

“Bianca is such a talented artist in many mediums. I was really drawn to the honesty and detail of what she does. She was amazing at getting what was in my head into artwork. She is very very talented!”

 

You have created a mixtape on Spotify that you update every month. How do you select the songs you add?

“I love creating these playlist and the simple answer is that I love listening to lots of music. Last year when lockdown started I realised I’d been so immersed in the music world that I stopped loving the simple pleasure of listening to music. That’s why I make these playlists to share and discover new music with other people.”

 

Cecilia Guerra

Tim Hart: essere felici con quello che si ha

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In occasione dell’imminente uscita del suo nuovo album Winning Hand (Nettwerk Records), abbiamo fatto due chiacchiere con Tim Hart riguardo a questo suo lavoro intimo e riflessivo registrato con Simon Berkelman nei Golden Retriever Studios a Sidney. 

 

Com’è nato Winning Hand e cosa significa questo titolo?

“Per me Winning hand rappresenta il concetto dell’essere felici con quello che si ha e non guardando sempre con invidia le persone attorno. Questo concetto per me è molto liberatorio.”

 

C’è un fil rouge in Winning Hand?

“L’album è quasi un diario che ho scritto durante un paio d’anni in giro in tournée. In certi passaggi parla di quello che mi passava per la testa e in altri momenti di quello che succedeva intorno a me. C’è un sacco d’amore e famiglia e perdita. Si può dire che Winning Hand racconta la scoperta di un senso di consapevolezza di sé.”

 

Nel tuo terzo singolo Steady as She Goes, parli di cos’è per te “casa”. Cosa vuol dire in questo periodo così difficile? Credi che il significato di “casa” sia cambiato?

“Quando ho scritto questa canzone non mi riferivo tanto a un posto quanto a un sentimento. Un senso di appartenenza. So che suona strano visto che cito Sydney ma si tratta più di come mi fa sentire lo stare insieme agli amici e alla famiglia. E in quel senso il significato (di casa, NdR) non è molto cambiato. Puoi sentirti a casa anche durante il periodo orribile che stiamo vivendo, credo.” 

 

Questa è la prima volta che registri un tuo album con una band. Puoi dirci qualcosa in più circa questa decisione?

“Registrare con una band al completo è stato un modo per me per mollare la presa. Negli album precedenti ho suonato la maggior parte degli strumenti. Questa volta volevo solamente concentrarmi sulle canzoni e lasciare altri grandi musicisti concentrarsi sulle loro cose!”

 

Com’è nata la collaborazione con Bianca Braithwaite e con i suoi lavori?

“Bianca è un’artista molto talentuosa su più fronti. Sono stato attratto dall’onestà e dai dettagli di ciò che fa. È stata fantastica nel trasformare in opere d’arte quello che era nella mia testa. È davvero molto talentuosa!”

 

Su Spotify hai creato un mixtape che aggiorni ogni mese. Come scegli le canzoni? 

“Amo creare queste playlist e la semplice risposta è che amo ascoltare molta musica. L’anno scorso, quando è iniziato il lockdown, mi sono reso conto di essere stato così immerso nel mondo della musica che avevo smesso di amare il semplice piacere di ascoltare musica. Ecco perché faccio queste playlist, per condividerle con altre persone e scoprire nuova musica.”

 

Cecilia Guerra

Keaton Henson “Supernova OST” (Lakeshore Records, 2021)

Non ho mai recensito una colonna sonora. Non so come si faccia, né se si possa fare; o meglio, non sono sicuro si possa recensire una OST (Original Sound Track), senza aver visto il film per la quale è stata pensata, creata, arrangiata e realizzata. 

Non sono del resto nemmeno un grande cultore del genere, voglio dire conosco diverse persone che tra gli ascolti consueti hanno proprio le colonne sonore; ma io, un po’ per abitudine, un po’ forse per ignoranza, non mi sono mai mosso verso quei litorali, partendo da un assunto, certamente sbagliato, che non sia molto sensato scindere un film dalla sua musica, come se entrambi potessero aver vita solo se uniti, e che dividerli vorrebbe significare snaturarli e renderli altro. Il cinema muto del resto non è muto, sin dagli albori immagini e musica sono stati un connubio inscindibile e a dar maggior peso a questa considerazione piuttosto condivisibile ci sono anche le parole di Claudia Gordbman, che nel suo Unheard Melodies (una pubblicazione di diversi anni fa incentrata sulla musica nel cinema), sostiene che “change the score on the soundtrack and the image-track can be trasformed”.

Ad ogni modo non potevo lasciarmi sfuggire questo Supernova, esordio assoluto di Keaton Henson nel mondo del cinema. Il film in questione è uscito da appena qualche giorno negli Stati Uniti, è diretto da Harry Macqueen e vede come protagonisti, raffigurati anche in una splendida locandina, Colin Firth e Stanley Tucci. 

Non si tratta di un prime assoluto per l’artista inglese in ambito strumentale/orchestrale/sinfonico, avendo egli già dato alla luce un paio di anni fa lo splendido Six Lethargies, e questo nuovo lavoro continua ed espande quel clima di pathos e drama che sono da sempre presenze fisse ed imprescindibili della poetica del nostro. E credo sia proprio quello che cercava il regista, perché quando decidi di affidare la colonna sonora del tuo film ad un artista così particolare, che fa della malinconia e del rimpianto il suo terreno preferito, ti aspetti esattamente un lavoro come questo: i primi 40 secondi dell’iniziale The Night Sky sono otto, forse nove note di piano, lente, sotto le quali con un lungo crescendo si fanno strada gli archi, per sbocciare in una rapida sequenza che si esaurisce presto, per lasciar strada ad un intermezzo, Losing Tusker (Tusker è il nome del personaggio interpretato da Stanley Tucci, giusto per dare qualche riferimento in più). The Lake dona un minimo di apertura e respiro, con i violini che adagio s’incrociano in splendide volute, come nella successiva The Road To Lilly’s.

Un violoncello ed un contrabbasso compongono i quattro minuti abbondanti di A Silent Drive, dove ad una prima parte riflessiva seguono momenti incalzanti e sincopati, subito limati da un secondo passaggio più arioso ed orchestrale, Stargazing. Let Me Be With You è puro Keaton Henson, con quel pianoforte di una dolcezza abbagliante ed una coda d’archi dove non c’è molto spazio per la luce. La conclusiva Supernova è la composizione più articolata, che si manifesta in maniera quasi solenne, si sviluppa con una malinconica viola che sfocia in un finale tanto drammatico quanto magnifico.

La parola fine vien in realtà posta da Jeremy Young, un compositore ed improvvisatore, dedito principalmente alla musica concreta con registratori, tape e nastri (à la Basinski per intenderci) che ci regala un’interpretazione commovente del Salut D’Amour di Edward Elgar, qui lievemente rallentata per aumentarne, se possibile, la potenza evocativa.

Questa colonna sonora è un lavoro che trasuda Henson in ogni brano, in ogni nota quasi, dai momenti più narrativi a quelli più cupi, per cui adesso è forte la curiosità di andarsi a vedere il film, per scoprire quanto di ciò che emerge dall’ascolto trova effettiva rispondenza nella pellicola.

 

Keaton Henson

Supernova OST

Lakeshore Records

 

Alberto Adustini

Leptons “La Ricerca della Quiete” (Beautiful Losers, 2021)

Uno splendido, variopinto mosaico

 

Non sempre l’azzardo paga.

Non sempre, ma sta volta sì. Decisamente.

Il nuovo lavoro di Leptons, cantautore veneziano che risponde al nome di Lorenzo Monni, intitolato quasi provocatoriamente La Ricerca della Quiete e pubblicato dalla Beautiful Losers, è in realtà una centrifuga di idee, suoni, voci, colori, un disco vulcanico, quasi smodato nella sua apparente assenza di organicità e misura. 

È un disco abbondante ma non sovrabbondante, pregno, denso, quasi mai però pacchiano o affettato. Il suo maggior pregio è l’essere credibile nella sua densità.

Ci sono infiniti rimandi, citazioni, ci sono momenti più folk, altri ai limiti della dance, si strizza l’occhio alla musica tribale e a quella popolare, c’è del cantautorato e trovate il più delle volte decisamente azzeccate.

L’iniziale Il Canto Di Lavoro rimanda neanche tanto lontanamente all’Iosonouncane di Stormi, c’è anche un cameo in inglese con Great Escape (anche se a onor del vero lo si preferisce e convince di gran lunga di più in italiano), stralunate evoluzioni vocali di pura naturalezza e istinto in Una Lunga Vacanza, intermezzi strumentali in puro fingerpicking ne Il Diario Di Un Vulcano o ne Il Lago delle Favole, la davvero splendida Così Lontani, che rappresenta una sorta di compendio di quanto Leptons abbia messo in questo disco, una summa quasi. La Trilli finale (cos’è? Una quadriglia? Un qualche brano folkloristico? Ma arrivati a questo punto importa davvero?), è forse la perfetta conclusione di un lavoro che ha molti più meriti e pregi che limiti, un disco fatto di azzardi, rischi, non sempre calcolati, talvolta forse nemmeno necessari, ma che ce lo fanno apprezzare ancora di più. 

Si criticano spesso certi artisti perchè fanno sempre lo stesso disco, beh in questo La Ricerca Della Quiete, Leptons non fa mai nemmeno la stessa canzone.

 

Leptons

La Ricerca della Quiete

Beautiful Losers

 

Alberto Adustini