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GIUNGLA “Walk On The Ceiling” – il nuovo singolo

“WALK ON THE CEILING” è il NUOVO SINGOLO di GIUNGLA disponibile da giovedì 5 novembre su tutte le principali piattaforme digitali per l’etichetta Factory Flaws / peermusic Italy.

Ascolta qui il singolo.

Il brano nasce a Londra, figlio di una session di registrazione della giovane artista con Andrew Savours (già collaboratore di My Bloody Valentine, The Kills, Goldfrapp, The Horrors) e di nottate trascorse a scrivere nelle note del telefono in una dimensione intima e delicata, con la testa sotto alle coperte e tra le mani soltanto la luce dello schermo.
Il testo è nato esattamente in uno di quei momenti e mi piace pensare a questa luce come fosse una candela da proteggere e da poter donare a qualcuno di speciale. La prospettiva è ribaltata, come se di notte chi rimane sveglio a scrivere fosse in un’altra dimensione, a testa in giù; parla della bellezza di cercare un po’ di mistero e magia anche in un ambiente protetto e domestico, provare ad essere più coraggiosi di come si è durante il giorno. – (Giungla)

L’artwork del singolo è parte di un’opera dell’artista svedese Sophie Westerlind intitolata “Martina’s Flowers (olio su tela, 50 x 40 cm, 2020). Giungla ha scelto questo quadro dai tratti carichi di materia e movimento dopo avere incontrato l’artista nel suo studio alla Giudecca di Venezia, colpita dalla storia che le ha raccontato: Sophie ha iniziato a dipingere fiori per la prima volta durante il lockdown, la lontananza dalla natura aveva trasformato un soggetto che tendiamo a dare per scontato in un oggetto importante. La pittrice le ha raccontato che “dipingerli in studio è stato come fare qualcosa di prezioso e segreto” e Giungla ha trovato un’analogia per l’attitudine con cui ha scritto la propria musica negli ultimi mesi.

GIUNGLA è Emanuela Drei, musicista di base a Milano. Unendo atmosfere elettroniche e chitarra elettrica, a tratti spigolosa e arrogante ma che sa anche sfociare in sonorità più dreamy, la sua musica è un alternative pop pieno di vita come la ‘giungla’ da cui ha preso il proprio nome. Dopo aver lavorato già lavorato con Luke Smith, produttore di Depeche Mode, Foals e Anna Of The North, questa volta è entrata in studio conAndrew Savours (My Bloody Valentine, The Kills, Goldfrapp, The Horrors). Il nuovo lavoro Turbulence è previsto per la primavera 2021 in uscita su Factory Flaws. Armata di sola chitarra elettrica, sampler e la propria voce si è fatta notare velocemente raccogliendo lodi internazionali e quasi un milione di ascolti. Ha diviso il palco con The xx, Foals, Grimes e Battles e ha partecipato ad alcuni tra i più importanti appuntamenti live: SXSW in Texas, Sziget Festival a Budapest e The Great Escape a Brighton.

Factory Flaws è una digital boutique label e publishing italiana nata nel 2016, specializzata nella promozione e distribuzione di artisti italiani con sonorità indirizzate ad un pubblico internazionale.
Con uno sguardo rivolto al mondo della moda e della cultura a 360 gradi, fieramente gender balanced e sostenitrice delle diversità espresse da ciascuno dei propri artisti, fin dagli esordi è riuscita a farsi notare dalle più influenti testate web e tastemaker internazionali, portando i propri progetti su siti come Gorilla Vs Bear, Clash Magazine, Noisey USA, Nylon e COLORS.
In poco più di 4 anni e con un roster selezionatissimo ha macinato più di 10 Milioni di streaming, scalando le playlist mondiali di Spotify e contribuito a far partecipare i propri artisti ai festival internazionali più importanti degli ultimi tempi, fra cui SXSW, Primavera Sound, The Great Escape e Eurosonic. Tra gli artisti del roster HÅN, Giungla, Eugenia Post Meridiem, Iside, Lucia Manca, Tauma e Albert

MILANO MUSIC WEEK: la riforma dello spettacolo è una priorità

Quattro gli appuntamenti organizzati da Doc Servizi e Freecom Media: l’evento in streaming con il FAS Forum Arte e Spettacolo e le proposte di riforma per il settore forse più colpito dalla pandemia, il seminario virtuale sulle nuove tecnologie al servizio della musica e degli artisti con, tra gli altri, Max Casacci, la conversazione con Simon Says e Leo Pari a SAE Institute Milano, e gli incontri di “Tenera è la notte” con la seconda edizione del Premio Dino D’Arcangelo.

DOCMMW2020
#MMW20 #MilanoMusicWeek #MusicWorksHere

 

Milano, 4 novembre 2020_4 eventi in streaming e oltre 15 ospiti confermati. Ecco la risposta della rete Doc alla chiusura di teatri e sale da concerto, imposto dall’ultimo DPCM al settore degli eventi e dello spettacolo dal vivo. Per il terzo anno consecutivo alla Milano Music Week, la rete Doc, la più grande rete cooperativa di professionisti dei settori Arte, Cultura, Musica, Spettacolo e Industria Creativa, arriva a Milano con l’obiettivo di valorizzare tutte le professioni che gravitano nel mondo dello spettacolo, obiettivo che Doc persegue da 30 anni in Italia e ora anche all’estero.

RIFORMARE LO SPETTACOLO
Un dialogo sulle proposte del FAS Forum Arte e Spettacolo

L’emergenza Covid-19 ha creato uno stato di crisi che sta mettendo in ginocchio da mesi il settore dello spettacolo, evidenziandone le problematiche strutturali. Oggi lavoratori e imprese chiedono di riformare il sistema. Oggetto dell’incontro in streaming (sul portale R3B3L), previsto per martedì 17 novembre alle ore 15.15, saranno le proposte elaborate dal FAS Forum Arte e Spettacolo. Si confronteranno sul tema Filippo Del Corno, Assessore alla Cultura del Comune di Milano, Chiara Chiappa, presidente Fondazione Centro Studi Doc, e Annarita Masullo, portavoce de La Musica Che Gira. Modera il giornalista Andrea Conti (Il Fatto Quotidiano).

TENERA È LA NOTTE

Torna alla Milano Music Week “Tenera è la notte”, il format ideato da NicoNote Pierfrancesco Pacoda con il desiderio di raccontare gli scenari della club culture. Due gli appuntamenti da segnare in agenda mercoledì 18 novembre, sempre in streaming sul portale R3B3L. Alle ore 16 si terrà la presentazione del libro “Tenera è la notte. La club culture di Dino D’Arcangelo” (Interno4 Edizioni, 2020). Una raccolta, a cura di NicoNote e Pierfrancesco Pacoda, di tutti gli scritti che il giornalista Dino D’Arcangelo, sulle pagine de La Repubblica e del suo supplemento Musica, dedicò alla musica e alle tendenze che fecero ballare un’intera generazione per più di un decennio, dalla scena rave romana, alle discoteche della riviera romagnola, dai dj superstar ai remix underground. Alle ore 17, sempre in streaming, verrà consegnato per il secondo anno il “Premio Dino D’Arcangelo”, assegnato a una personalità particolarmente significativa per l’evoluzione della club culture in Italia. In giuria Ernesto Assante, NicoNote, Pierfrancesco Pacoda, Simona Faraone, Francesco Costantini, Principe Maurice, Pierluigi Pierucci, Claudio Coccoluto, Damir Ivic.

A CONVERSATION WITH SIMON SAYS E LEO PARI

SAE Institute Milano, in collaborazione con Doc Servizi, ospiterà Simon Says e Leo Pari per un confronto sull’approccio alla produzione musicale. L’incontro, che si terrà mercoledì 18 novembre alle ore 18.30 in diretta streaming (https://www.sae.edu/ita/it/mmw-simon-pari) verterà su come gestire il lavoro avendo come obiettivo finale sempre la produzione di musica qualitativamente di alto livello.

LE NUOVE TECNOLOGIE AL SERVIZIO DELLA MUSICA E DEGLI ARTISTI 
Lo scenario attuale e le nuove frontiere nella formazione, produzione, comunicazione e fruizione della musica

Sarà un incontro in streaming dedicato all’innovazione tecnologica in ambito di promozione, produzione e sostegno all’industria musicale e artistica, quello di giovedì 19 novembre alle ore 19, moderato dal giornalista Aldo Macchi. L’evento (gratuito su prenotazione) sarà aperto a tutti, con un gadget esclusivo per chi si registrerà dal portale R3B3L. Tra gli ospiti, Max Casacci, produttore e compositore nonché fondatore dei Subsonica, in uscita con un nuovo progetto prodotto utilizzando solamente i suoni degli elementi della Natura; Manuela Martignano, social media manager di OTR Live; Gianluigi Fazio, autore produttore e musicista; Marco Borroni – Direttore del MIR Tech di Rimini che parlerà delle novità del mercato; Matteo e Alberto Ria, Gabriele Serra di Your Live App, il nuovo “music advisor” per trovare l’evento più vicino a te, scrivere recensioni su venue e arristi; Federica Torchia, booking manager di Machete Productions; Christian De Rosa, Industry Relations Officer edEmiliano Alborghetti, Direttore Accademico di SAE Institute Milano.

Ufficio Stampa 
Claudia Cefalo – Tel: 340 4891682 – mail: claudia.cefalo@doc-com.it

MILANO MUSIC WEEK 2020 | 16 – 22 novembre 2020
www.milanomusicweek.it
FB MilanoMusicWeek | IG milano_music_week | TW milanomusicweek

PROGRAMMA APPUNTAMENTI RETE DOC

MARTEDI 17

ore 15.15: RIFORMARE LO SPETTACOLO (a cura del FAS Forum Arte e Spettacolo): https://www.rebellive.it

MERCOLEDI 18

ore 16: TENERA È LA NOTTE – Presentazione del libro “TENERA È LA NOTTE la club culture di Dino D’Arcangelo” (a cura di NicoNote e Pierfrancesco Pacoda): https://www.rebellive.it

ore 17: TENERA È LA NOTTE – PREMIO DINO D’ARCANGELO 2° EDIZIONE: https://www.rebellive.it

ore 18.30: A CONVERSATION WITH SIMON SAYS E LEO PARI (a cura di SAE Institute Milano): https://www.sae.edu/ita/it/mmw-simon-pari

GIOVEDI 19

ore 19.00: LE NUOVE TECNOLOGIE AL SERVIZIO DELLA MUSICA E DEGLI ARTISTI (a cura di Doc Servizi e Freecom Media): https://www.rebellive.it

H.E.A.T. – NUOVA DATA 29 OTTOBRE 2021

Attenzione: in ottemperanza ai provvedimenti emanati su scala mondiale per contrastare la diffusione del virus COVID-19, la data italiana degli H.E.A.T. è stata rinviata al 29 ottobre 2021, sempre al Legend Club Milano.
Inoltre è stato confermato il ritorno del cantate originale Kenny Leckremo, un’occasione in più per non perdere questa data

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LA BAND
I neonati H.E.A.T iniziano a guardarsi attorno nel 2007 e a suonare a tutti i più piccoli e impensabili concerti che gli passavano tra le mani: ciò li porta a conoscere l’attore di Hollywood svedese Peter Stormare, che li accoglie prontamente nella sua etichetta, portandoli a calcare numerosi palchi più o meno famosi ancora prima della pubblicazione del loro debutto.
Nel 2008 esce l’album d’esordio “H.E.A.T”, che si rivelerà un’enorme iniezione di energia per il genere: al suo rilascio la band intraprende un esteso tour in lungo e in largo per la Svezia.
Da lì in poi gli H.E.A.T continuano a crescere anno dopo anno, cercando di portare sempre qualcosa di nuovo ad ogni uscita senza però dimenticare le loro radici e i loro marchi di fabbrica: un sound possente e fiero, figlio della migliore tradizione hard rock.
Avvicinati spesso ai Treat o ai migliori TNT, gli svedesi propongono un rock melodico riconoscibilmente scandinavo ma influenzato dal fenomeno revival americano di fine Ottanta/inizio Novanta, trasudando maestria e passione per il genere.
L’epoca d’oro dell’hard rock rivive di nuovo in maniera convincente, scintillando di nuova luce, grazie anche alla produzione cristallina e ad uno spiccato buon gusto negli arrangiamenti.

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🎶 H.E.A.T
Support: Reach
Opener: Temple Balls
29 OTTOBRE 2021
📍LEGEND CLUB, MILANO
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Prevendite disponibili su
Ticketone -> http://bit.ly/33iy7rL
Mailticket -> http://bit.ly/34skK9D
I biglietti già acquistati per la data di maggio restano validi

 

 

 

Tre Domande a: Cirri

Ci sono degli artisti in particolare a cui vi ispirate per i vostri pezzi?

“Sicuramente qualsiasi canzone o band ascoltata nella nostra vita ci ha influenzato. Le band più importanti sono state Verdena, Afterhours, Marta sui Tubi, Massimo Volume e C.S.I. per quanto riguarda l’Italia. All’estero sicuramente Bon Iver, RY X, Chet Faker, Hiatus Kayote, Alt-J. Potremmo continuare a elencare artisti per ore, tutti loro rientrano nelle nostre influenze.”

Se doveste riassumere la vostra musica in tre parole, quali scegliereste e perché?

“SPERIMENTAZIONE, perché uno dei nostri obbiettivi è quello di non porci nessun limite. Capita spesso di entrare in studio e “scambiarsi” i ruoli solo per vedere cosa esce fuori. Provare sempre qualcosa che non abbiamo mai suonato e cercare di renderlo “nostro” è qualcosa che ci piace da morire.
PSICHEDELIA, che significa “allargamento della coscienza”. Per noi la musica è anche un momento di introspezione. Succede spesso che si scriva un testo e ci si accorga in un secondo momento di quale fosse il suo significato profondo, quali aspetti rivelasse del nostro modo di pensare e anche quali messaggi per migliorare il nostro approccio agli eventi della vita. La speranza è che possa innescare questo processo anche nell’ascoltatore.
AMICIZIA, che potrà sembrare banale, ma è la parola che descrive perfettamente il rapporto tra noi tre. Suonare è, oltre che una passione incontenibile, un modo per passare del tempo con persone importanti, senza maschere, sinceramente, connettendosi attraverso la scrittura di canzoni. Non è una fortuna che capita a tutti, quindi merita di rientrare nei vocaboli scelti!”

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

“Ci piacerebbe che la nostra musica riuscisse a toccare le corde inconsce dell’ascoltatore. Nelle nostre canzoni mettiamo oltre al nostro vivere quotidiano, ricordi e riflessioni su delle storie molto strane che abbiamo avuto la fortuna di vivere. Penso che molto di quello che inseriamo nei testi e nelle musiche sia qualcosa che ogni essere umano sperimenta durante la sua esistenza e che quindi per questo ci si possa ritrovare. Nella speranza, perché no, che possa aiutare a sciogliere alcuni blocchi, a slegare dagli schemi. Senza, ovviamente, voler essere dei maestri o dei guru. Siamo persone comuni che scrivono di vite comuni che, in quanto tali, sono condivise un po’ da tutti.”

Tre Domande a: Filippo Cattaneo Ponzoni

Come e quando è nato questo progetto? 

“Mi chiamo Filippo Cattaneo Ponzoni, ho vent’anni e sono un cantante, chitarrista e cantautore di Bergamo. Dal 2018 sono il chitarrista di Ghemon e nel 2019 ho intrapreso in parallelo il mio progetto da solista. Ho iniziato a scrivere canzoni poco più di un anno fa e il processo è avvenuto in maniera molto naturale. Sicuramente i miei concerti, quelli insieme a Ghemon e l’attività in studio con lui hanno favorito e stimolato l’esigenza di scrivere. Ho lavorato al mio primo EP per circa un anno e il lavoro è arrivato a compimento durante il periodo di quarantena. La Tua Alternativa, il mio primo EP,  è stato prodotto da me e da Fabio Brignone, registrato da Marco Ravelli, fonico dei Pinguini Tattici Nucleari. Le copertine dei singoli e dell’EP sono state curate da Paolo De Francesco, noto grafico italiano che negli anni ha collaborato con Mika, Zucchero, Tiziano Ferro, Samuele Bersani, Diodato e molti altri.”

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

“Quando scrivo le mie canzoni cerco di esprimere il mio punto di vista riguardo tematiche e sensazioni che provo in prima persona e che sono comuni. Mi piace l’idea di lasciarmi influenzare e sperimentare senza mettere confini. Il sound che ne deriva è frutto di queste contaminazioni che vanno dal cantautorato italiano al Pop-Rock e al Blues dove la chitarra è protagonista ma sempre al servizio delle canzoni. Spesso è proprio questo strumento il punto di partenza della mia scrittura. Quello che vorrei far arrivare alle persone che ascoltano la mia musica è di immedesimarsi in quello che vivo. Nei miei testi penso ci siano spunti di riflessione che l’ascoltatore può fare propri e in cui si può identificare. Mi piacerebbe che la mia musica potesse emozionare le persone che la ascoltano.”

 

Progetti futuri?

“Attualmente sto lavorando a nuove canzoni e pensando ad un disco. Chiaramente c’è la speranza di poter tornare a suonare dal vivo. Tengo particolarmente all’aspetto live perché dal mio punto di vista è un’esperienza totalizzante in cui chi è sul palco può comunicare senza filtri e barriere con le persone.”

Bring Me the Horizon “POST HUMAN: SURVIVAL HORROR” (Sony, 2020)

Ci ricorderemo la lezione?

 

C’è una cosa che da tempo ormai viene recriminata ai Bring Me The Horizon: di non essere “più gli stessi”, di non essere più quelli che cantavano Chelsea Smile, ormai dodici primavere fa. E si sa che il fan duro e puro difficilmente perdona, tanto che a questa simpatica categoria antropologica era anche stato dedicato il brano Heavy Metal, contenuto nello scorso album e che era stato la miccia che aveva fatto dilagare ulteriormente la polemica. 

Però, con POST HUMAN: SURVIVAL HORROR, anche il fan duro e puro ritrova le sue vecchie certezze e le ritrova fin dal principio. La prima traccia, Dear Diary, ricorda molto i primi lavori della band, ma non si tratta certo di una regressione fine a se stessa o del ripudio del cambiamento che stavano attraversando. Questo album, infatti, è un ottimo frutto del suo tempo. Non a caso, lo stesso cantante Oli Sykes aveva già ammesso in un’intervista che sarebbero ritornati alle origini perché nel fortunatissimo anno domini 2020 avevano di nuovo qualcosa per cui essere arrabbiati e un sound più crudo e violento non può che esserne la naturale conseguenza.

Però la ricerca e la sperimentazione fatte in questi anni non sono state completamente dimenticate e lo si sente soprattutto nelle collaborazioni. Abbiamo l’intro quasi angosciante di Parasite Eve, eseguito in bulgaro da un coro femminile, in grado di dare un’idea di cerimonia solenne e contemporaneamente di qualcosa di incomprensibile in arrivo. 

Anche il featuring con Amy Lee degli Evanescence in One Day the Only Butterflies Left Will Be in Your Chest as You March Towards Your Death è un esperimento riuscito alla grande. In quella che sembra a tutti gli effetti una ballad — e mai avrei pensato di accostare la parola ballad ai Bring Me The Horizon — le voci di questi due cantanti che hanno segnato un’intera generazione di adolescenti si sposano alla grande e danno vita a una canzone struggente quanto basta per concludere un album decisamente arrabbiato con una nota di malinconia. 

In nove canzoni, i Bring Me The Horizon hanno infatti raccontato uno scenario post-apocalittico (o post-umano se preferite), dove la tecnologia fa da padrona e sembra impossibile qualsiasi contatto umano autentico. La sensazione generale che si insinua più facilmente è quella di essere di fronte ad un’imminente fine del mondo, ma con abbastanza rabbia in corpo per provare a reagire. 

Resta comunque molto facile scorgerci sotto elementi di attualità. Si sprecano i riferimenti e i richiami alla pandemia e anche se spesso e volentieri le canzoni sono state scritte prima della diffusione del virus — il primo singolo Ludens è uscito quasi un anno fa — il collegamento che si fa ascoltando questi pezzi è ormai immediato. Da titoli come Itch for the Cure (When Will We Be Free?) fino ad intere strofe in altri pezzi, l’album è in grado di riassumere quello che bene o male tutti abbiamo vissuto e stiamo vivendo, anche se probabilmente l’intenzione in partenza non era questa. 

Una su tutte, parte del ritornello di Parasite Eve, suona abbastanza profetica: “When we forget the infection/Will we remember the lesson?”

Quando avremo dimenticato la malattia, ci ricorderemo la lezione?

Ai posteri l’ardua sentenza, avrebbe detto qualcuno…

 

Bring Me The Horizon

POST HUMAN: SURVIVAL HORROR

Sony

 

Francesca Di Salvatore

Vanbasten “Canzoni Che Sarebbero Dovute Uscire Tot Anni Fa” (Flamingo Management, 2020)

Vanbasten, nome d’arte di Carlo Alberto Moretti, ha pubblicato Canzoni che sarebbero dovute uscire tot di anni fa, EP d’esordio e chiaro biglietto da visita dell’artista romano.

Vanbasten ha 29 anni e ha alle spalle una carriera calcistica interrotta a 22 per iniziare a fare musica, avvicinandosi al rap in un primo momento e in seguito al punk e al pop.

Canzoni Che Sarebbero Dovute Uscire Tot Anni Fa è un progetto ben articolato, composto da dieci brani dalle sonorità elettro-punk e pop. Le produzioni, curate da Francesco Bellani, riflettono la new-wave e la scrittura dell’artista è semplice e dissacrante, una commistione tra il rap e l’indie.

Kenshiro, il primo brano, ha una ritmica incalzante. Il testo parla di un conflitto in modo diretto e sincero. Il ritornello “Ora che sei in ginocchio, io sono Kenshiro, quanto sei stato stronzo a non avermi capito”, rimane subito impresso. Mascara è una canzone d’amore dal testo elaborato e delicato. La voce di Vanbasten è profonda e mi ha ricordato Vasco Brondi dal primo ascolto: “dimmi cosa dici ai tuoi occhi quando cercano me”.

16enne e Pallonate sono pezzi generazionali. L’artista parla a ragazzi consapevoli, emancipati che vivono serate buttate, spinti dalle pallonate della vita. I testi sono irriverenti e la scelta delle parole è talvolta drastica per il genere: “Veniamo dalla strada come i vizi, siamo fatti per soffrire o per decidere di ucciderci”, scrive Vanbasten in 16enne. 

Eurospin e Sparare Sempre sono indubbiamente i pezzi più belli dell’intero EP. “Proveremo a mangiare 10k di cose, io volevo soltanto giocare a pallone adesso invece non ci gioco più” scrive l’artista in Eurospin. Il brano è nostalgico e dal testo immersivo anche se in questo caso la melodia e la produzione raggiungono l’apice dell’intero progetto per l’originalità dei passaggi tra le strutture della canzone. Sparare Sempre è una bella presa di coscienza, nel ritornello dice: “Continueremo a fare come ci pare, tra gli spari non ci stiamo male (…) Vita normale a chi, vogliamo vivere cosi”.

Canzoni Che Sarebbero Dovute Uscire Tot Anni Fa parla di vita vera, le immagini suggerite dai testi richiamano atmosfere notturne ed ambienti underground. Vanbasten parla ad un target di pubblico facilmente identificabile. La voce per quanto sincera rimane impenetrabile e a tratti ridondante. Le melodie non sono mai troppo incisive ma nel complesso si tratta di un progetto fresco che tocca tematiche semplici ma in modo innovativo. L’ascolto adatto ad un pubblico giovane e attento in cerca di musica audace.

 

Vanbasten

Canzoni Che Sarebbero Dovute Uscire Tot Anni Fa

Flamingo Management/Artist First

 

Giulia Illari

Vianney “N’Attendons Pas” (Tôt Ou Tard, 2020)

Il 5 Dicembre si scoprirà se sarà lui il cantante francofono dell’anno secondo i NRJ Music Award, i premi istituiti vent’anni fa dalla radio NRJ per celebrare il meglio della musica francofona e internazionale. Ma nel frattempo Vianney — al secolo Vianney Bureau, classe 1991 — ha appena pubblicato il suo nuovo album in studio dal titolo N’Attendons Pas. 

Arrivato a quattro anni di distanza dal suo ultimo acclamatissimo lavoro, che contava mezzo milione di copie vendute, questo è il terzo disco di uno degli artisti più apprezzati oltralpe, tanto da venire paragonato spesso e volentieri in patria ad Ed Sheeran. Un paragone che si regge in piedi senza troppi sforzi, soprattutto guardando i testi e le sonorità.

N’Attendons Pas infatti contiene undici tracce decisamente pop, fresche ed omogenee tra loro, ma mai banali, anche senza l’aiuto di qualche effetto speciale di troppo. Anzi, è proprio la genuinità a fare da padrona in questo disco, con un connubio di chitarra e voce che ogni tanto sfiora le esibizioni in acustico e a cui si aggiunge talvolta un pianoforte, talvolta degli archi. Niente esagerazioni, nessuna spettacolarizzazione non necessaria, ma solo la musica pura e semplice che va ad accompagnare dei testi altrettanto genuini.

Non a caso, l’ultimo lavoro di Vianney è un album pieno di buoni sentimenti e di un ottimismo forse un po’ estranei a buona parte del panorama musicale italiano di moda oggi (vedi l’indie, che con la tristezza ci va a nozze, oppure il rap, che ha molte qualità ma di sicuro pecca un po’ di dolcezza). 

C’è soprattutto l’amore, ma è un amore che presenta numerose sfaccettature: quello per chi non c’è più in Tout Nu Dans La Neige — delicata ballad simil-acustica dedicata al nonno — oppure quello per i figli, anche se non hanno il tuo stesso sangue, come in Beau-Papa, canzone decisamente più pop dedicata invece alla figlia acquisita. 

Un romanticismo quindi che continua a vivere e a spingere per tutto il disco, nonché delle storie che, nonostante siano ormai finite, non lasciano mai spazio al rancore o al risentimento, ma continuano ad essere ricordate con affetto e gratitudine, da Merci Pour Ça a La Fille du Sud.

Ma comunque non di solo romanticismo vive questo disco: brani come J’Ai Essayé, che diventa una sorta di apologia del “fallimento pur avendoci provato”, oppure N’Attendons Pas, un invito a non aspettare l’arrivo di chissà quale coincidenza per cominciare a vivere la vita che si desidera, fanno capire che il filo conduttore dell’album, più che l’amore, sia l’umanità vera e propria, nel senso di tutto ciò che ci rende umani.

E tra amare e fallire, non so quale delle due cose sia più umana. 

 

Vianney

N’attendons Pas

Tôt Ou Tard/Believe

 

Francesca Di Salvatore

Tre Domande a: Lucio Leoni

Come state vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?

“Altalenando momenti di calma a momenti di disperazione. Siamo in bilico e con prospettive decisamente ridotte ma non ci piace lamentarci. Riguarda tutti dunque proviamo a immaginare modi nuovi per continuare a raccontare storie. Questo, crediamo, è il nostro compito. Siamo davanti una tabula rasa, e paradossalmente potrebbe essere più facile. C’è da immaginare il futuro nuovo per modelli di spettacolo e ridistribuzione delle ricchezze economiche e culturali. Noi siamo quelli che sanno usare la penna per scrivere, per disegnare, per immaginare e noi siamo chiamati a dare la spinta propulsiva necessaria, altrimenti si muore.”

 

Ci sono degli artisti in particolare a cui vi ispirate per i vostri pezzi?

“Abbiamo ascoltato molta musica per realizzare questo disco (Dove Sei lavoro pubblicato in due parti distinte nel corso del 2020, la parte 1 a Maggio e la parte 2 a Ottobre) e artisti anche molto distanti tra di loro. Ne abbiamo fatto una sintesi, la nostra sintesi. Negli ultimi tempi ci stiamo avvicinando sempre di più alle forme dello spoken word in cui i confini della forma canzone si dilatano e si trasformano. Artisti come Kae Tempest, Joyner Lucas, George the Poet, e mondi distanti che invece lavorano sull’assenza e sui vuoti come ad esempio Son Lux ci hanno fatto da faro. Dove sei è un progetto complesso, diviso in due parti è un lavoro che parte dal pensiero e dalla parola, poi diventa suono. Abbiamo invertito il metodo lavorativo e ragionato su come costruire sfondi sonori alle storie che volevamo raccontare provando a mantenere un immaginario coerente in entrambe le parti. Quello che ci interessava, più che una forma riconoscibile dal “mercato” era ottenere un lavoro organico che potesse anche allontanarsi dall’idea della canzone (nel particolare) e di disco (nel generale); abbiamo lavorato su forme diverse, più simili alla letteratura che non al classico approccio discografico.”

 

Progetti futuri? 

“Trovare alternative performative. La situazione ce lo impone e la condivisione del momento live non può fermarsi; deve modificarsi in armonia con quanto sta succedendo a livello globale. Stiamo immaginando trasformazioni e produzioni diverse che possano intersecarsi con intelligenza a questo momento. Come dicevo prima, c’è da immaginare il futuro. E’ completamente saltato il banco e chissà chi ritroveremo sopra e sotto il palco; le generazioni cambiano con una velocità impressionante ormai e ci sarà da confrontarsi con quella che verrà generata da questo momento di trasformazione gigante che stiamo attraversando. Inutile adesso far previsioni o lavorare sul presente, il presente è immobile e non possiamo ancora interpretarlo perché ci siamo dentro. Quello che possiamo fare è gettare il cuore oltre l’ostacolo e cominciare ad identificare i contorni del domani.”

Keaton Henson “Monument” (PIAS Recordings, 2020)

“Sono metà cantautore e metà uomo, e tuttavia la somma di queste due parti non fa un intero”. 

Riuscite ad immaginare un’immagine più forte di questa per descrivere la propria fragilità? Perché ho appena premuto play per ascoltare il nuovo disco di Keaton Henson, testè uscito per la PIAS Records e sono già steso sotto il consueto e sempre nuovo clima da soliloquio che lui, come pochi, pochissimi altri al mondo, sa creare.

Tra le prime pennellate di Ambulance e il dolce cadenzato arpeggio di Self Portrait ho poi ricevuto l’illuminazione: Keaton Henson è la trasposizione ai giorni nostri di ciò che era stata ed aveva rappresentato, nel diciannovesimo secolo, una delle più grandi poetesse di tutti i tempi, e per certo la mia preferita: Emily Dickinson.

Zia Emily, come era solito appellarla il mio professore di inglese al liceo, ha scritto “Ad un cuore in pezzi / Nessuno s’avvicini / Senza l’alto privilegio / Di aver sofferto altrettanto”. 

Se dovessimo oggi cercare una persona capace di aver mostrato, attraverso la propria arte, la sofferenza, interiore certo ma mai nascosta o taciuta, tanto da renderla quasi universale, nella sua compostezza, quella è Keaton Henson. Nessun dubbio a riguardo. Il quale, già di per sé incline al mettere in musica ogni minimo dettaglio ed emozione del proprio animo tormentato e della propria tumultuosa, quando non misera, infelice, vita sentimentale, ha dovuto passare attraverso un’ulteriore prova, ancor più dura da accettare e sopportare, ovvero la recente scomparsa del padre.

E questo nuovo disco, Monument, si svela come un lungo, sentito percorso attraverso il dolore, per esorcizzarlo di certo, ma anche e soprattutto per scolpirlo, scavarlo nella roccia o nel legno, affinché il ricordo non finisca, come sempre accade sotto l’azione dello scorrere del tempo, per affievolirsi o peggio,  svanire.

In mezzo a questo clima, al solito sempre molto composto, fanno anche capolino un paio di episodi, While I Can ed Husk, che rappresentano due anomalie all’interno del corpus del nostro, in quanto sembrano quasi, specialmente per la presenza di una sezione ritmica ed una chitarra sonante, in ambiente pseudo pop.

Tuttavia questo Monument è un gran disco, come grande è il suo autore, che ancora una volta si mette a nudo, senza pudore e senza imbarazzi, e lungo queste undici tracce riporta i sentimenti più puri e sinceri al centro della scena, come lui e pochi altri sanno fare. Probabilmente mancano i picchi, più musicali che emotivi, che costellavano il precedente Kindly Now, ma quello che scatena interiormente l’ascolto di un brano come Self Portrait oppure The Grand Old Reason è cosa per pochi. E in questo lui è probabilmente l’unico.

 

Keaton Henson

Monument

PIAS Recordings

 

Alberto Adustini

Bruce Springsteen “Letter to You” (Columbia Records, 2020)

Il ventesimo disco in studio di Bruce Springsteen è un lavoro di rara bellezza. Non ci sono molti giri di parole da poter utilizzare.
Anzi, a essere onesti lascia spiazzati un disco come questo, per onestà, per intento e perché arriva dopo una lunga parentesi intimista.
Bisogna però che io compia un paio di passi all’indietro, per giustificare sentenza e conclusione, e perché questo disco ha un peso specifico notevole.

Come nasce un disco come Letter to You? Dato per ovvio e assodato che sia utile essere Bruce Springsteen, credo che servano almeno tre elementi: avere una band da una cinquantina d’anni, una capacità di autoanalisi fuori scala e un immaginario che diventa un mondo, ormai autonomo, da raccontare. Aggiungete un paio di storie divertenti, una misteriosa chitarra italiana e tre pezzi rimasti senza una casa e forse, dico forse, abbiamo la ricetta.

Bruce è reduce da quel capolavoro di Western Stars, dopo un paio di anni di lavoro solista a Broadway. Si è rivelato ai fan nella sua versione più umana, raccontando una storia di successo e depressione, di musica e dolore, un lessico famigliare finito in musica, in una catena di album che hanno sempre lasciato trasparire il gesto genuino della mano che li ha creati: Springsteen non si è mai tirato indietro, ha narrato una vita usando il rock and roll, usando tutti i colori possibili, dai più cupi ai più chiari.
In Western Stars qualcuno ha visto il lascito amaro di un cantante ormai anziano. Ma non era altro che l’ennesima tappa di una carriera: c’è chi prende i settant’anni come un punto di arrivo e c’è chi, come lui, ne soffia settantuno e decide che non si tratta di vecchiaia, ma di responsabilità. Perché arrivare a questa tappa del cammino non dà diritto al ritiro, ma esattamente a qualcosa di opposto.

Diceva il saggio: da grandi dischi derivano grandi responsabilità.

E così imbraccia una chitarra regalatagli da un fan italiano fuori dal teatro dove andava in scena Springsteen on Broadway, lasciata in salotto per qualche mese, quasi dimenticata. La magia a volte esiste: in pochi giorni compone gran parte dei pezzi del disco, raduna la band e in cinque giorni di sala incide il disco.

Io riesco perfettamente a immaginarli: lui e la E Street Band funzionano un po’ come il primo giorno di vacanza, quando torni al mare e rivedi gli amici dopo un anno di lontananza. C’è un po’ di imbarazzo, un po’ di ruggine, ma dura poco. Del resto, cosa può andar male? Siamo nel 2020, nel bel mezzo di una pandemia globale, al potere sono saliti i nazisti dell’Illinois, il loro capo è un suprematista bianco negazionista, torneremo in tour nel duemilamai, e quindi and one two three four…

Vorrei sapere se fuori degli studi di casa Springsteen, dove è nato questo disco, è incisa a fuoco la frase di Pete Townshend “il rock non eliminerà i tuoi problemi, ma ti permetterà di ballarci sopra”. Il mood è quello. 

In una recente intervista Springsteen ha dichiarato che il disco fondamentalmente racconta ciò che ha imparato tra i diciassette e i settant’anni. Alla faccia del dono della sintesi.
E Letter To You in effetti è denso e maturo. Quasi saggio, mi si passi.
È una mappa che Springsteen ci lascia, disseminata di indizi e topoi della sua storia. Il vocabolario è un faro, con parole che sono orme della sua carriera: ci sono treni, sangue, cicatrici, prigioni, chitarre, eroi e antieroi. Veniamo riportati ai confini della città, dove scorre un fiume. È un gioco di citazioni continue, è un immaginario che viene rievocato in una lunga lettera scritta da un uomo a milioni di fans. 

Ma è anche una lunga riflessione sul passato e su ciò che abbiamo lasciato per strada, soprattutto sulle persone che non ci sono più, a partire da George Theiss, fondatore dei The Castiles, qui evocato più volte e vero ispiratore del pezzo Ghosts, dove la parola “alive” diventa la chiave per chiudere un cerchio: in Radio Nowhere si chiedeva se ci fosse qualcuno di vivo là fuori (“Is there anybody alive out there?”), in We Are Alive, pezzo di Wrecking Ball, si ballava solo per il fatto di essere vivi e lo si faceva tra spiriti e lapidi, tra fantasmi e desiderio di rinascere. Qui l’essere vivi è testimonianza, è la felicità di poter fare musica insieme, è la sola possibilità di dimenticarsi i problemi e di andare laddove la musica non finisce mai, come recita House Of A Thousand Guitars, canzone-manifesto del disco.

Come dicevo, è questione di responsabilità. Gli è rimasto in mano il testimone, è l’ultimo dei sopravvissuti del suo primo gruppo, sente il bisogno di portare avanti il sacro messaggio del rock and roll. In fondo, ci ricorda, è The Last Man Standing.

Il ricordo diventa citazione per Clarence Clemons nella prima traccia, One Minute You’re Here, dove si evoca il bridge di Tenth Avenue Freeze Out. E poi Dylan, tanto Bob Dylan, che come un’ombra aleggia in tutto il disco: in If I Was The Priest, canzone che convinse un certo John Hammond a scritturare Springsteen, dopo aver lanciato Dylan. E il menestrello di Duluth è sempre stato il suo doppio e la sua croce, fin dagli esordi, in cui Springsteen dovette liberarsi della sua ombra e dimostrare di non essere il nuovo Dylan. Qui però lo si stuzzica, ad esempio in Janey Needs A Shooter, dove l’intro di organo ricorda Like A Rolling Stones o nella traccia che chiude il disco, I’ll See You In My Dreams, dove si cita testualmente Dylan nel ritornello: “Death is not the end”. 

Letter To You è un album sincero. Registrato al ritmo di tre canzoni al giorno, praticamente live in sala di incisione, senza demo, con pochissime sovraincisioni. È la E Street Band al cubo, sempre più perfetta nei suoi meccanismi e nelle sue dinamiche. 

Insomma, lettera recapitata, Bruce.
Per ora possiamo solo rileggerla e impararla a memoria. Possiamo solo vederci nei sogni, così come da chiusa del disco, in attesa di poter cantare tutto questo, cantare DI tutto questo, spalla a spalla, ancora una volta. 

Stay hard, stay hungry, stay alive. 

 

Bruce Springsteen

Letter to You

Columbia Records

 

Andrea Riscossa

Three Questions to: Dig Two Graves

How and when was this project born?

“We started in 2017 by Josh and Kenny – who have been friends for years – and quickly found Mike, who was very interested in the project. We hit up Jesse over Instagram and the rest is history! Josh had one song written when we first started which we practiced and worked on to start out. After working on it for a while, it ended up changing pretty drastically and we finally decided on a certain version of the song. This then became our first single Wick. The earliest demos of the song are almost completely unrecognizable to what it ended up being.”

 

If you had to sum up your music in three words, what would you choose and why?

“Nice, fresh and organic. We believe that our music stands out from the metalcore/djent type of genre which was one of our goals from the start. We wanted to create a project that had the heaviness of that style of metal but with some more of our own sauce. We ultimately ended up going in a more melodic direction and tried to utilize a variety of song structures to keep things fresh.” 

 

What about your future projects?

“We are currently working on our debut full length album and we’re very super stoked on how it’s turning out. Two songs are very close to completion, which will most likely be released as singles before the album. Nothing is definite, of course, but that is the current plan. We are working to have at least one single out in the near future, hopefully.”

 

 

Come e quando è nato questo progetto?

Abbiamo cominciato nel 2017. Josh e Kenny erano amici già amici da anni, poi abbiamo subito trovato Mike, che era molto interessato al progetto. Abbiamo contattato Jesse su Instagram e il resto è storia! Josh aveva già scritto una canzone quando abbiamo iniziato e abbiamo provato e lavorato su quella per cominciare. Dopo averci lavorato su per un po’, la canzone era cambiata in modo abbastanza drastico e alla fine ci siamo decisi per una certa versione. Questa poi è diventata il nostro primo singolo Wick. I primi demo della canzone sono quasi completamente irriconoscibili dalla versione che poi è diventata. 

 

Se dovessi riassumere la vostra musica in tre parole, quali sarebbero e perché?

Bella, fresca e naturale. Crediamo che la nostra musica si distingua dal genere metalcore/djent, che era il nostro obiettivo iniziale. Vogliamo creare un progetto che abbia lo stile “heavy” del metal ma aggiungerci qualcosa di più nostro. Alla fine abbiamo preso una strada più melodica e cercato di usare arrangiamenti diversi per mantenere un’idea di novità.

 

I vostri progetti futuri?

Al momento stiamo lavorando sul nostro primo album e siamo molto emozionati per come sta venendo fuori. Due canzoni sono quasi finite e molto probabilmente verranno rilasciate come singoli prima dell’uscita dell’album. Ovviamente non c’è niente di definitivo, ma questo è il piano attuale. Stiamo lavorando per far uscire almeno un singolo nell’immediato futuro, si spera. 

 

Francesca Di Salvatore