Skip to main content

Rufus Wainwright “Unfollow the Rules” (BMG, 2020)

La regola di Rufus

 

Nella mia famiglia non ci sono laureati. Mio fratello ed io ci abbiamo provato (o ci stiamo ancora provando) a concludere, mentre i miei genitori per origine, possibilità o sorte si sono fermati molto prima. Eppure tra le mura domestiche, da che ne ho memoria, si è sempre respirata un’aria non direi intellettuale, alta, ma si percepiva in maniera tangibile come l’ignoranza fosse un nemico da debellare, al pari della maleducazione. Un abbonamento ultradecennale al Club degli Editori aveva portato in dote una libreria di assoluto rispetto e un’enciclopedia di svariati volumi. Se dovessi associare il mio papà ad un’immagine sarebbe senza dubbio La Settimana Enigmistica appoggiata sopra alla Garzantina sul comodino accanto al letto. Mia mamma invece è una radio accesa in ogni stanza, simultaneamente, con un repertorio che propone con la stessa facilità la Callas impegnata nella Casta Diva e L’immensità di Don Backy. Giusto per contestualizzare.

Accade che qualche settimana fa stavo disquisendo di nulla in particolare con la mia genitrice e all’interno di una frase, mezza in dialetto mezza in italiano, la sento usare il termine affettato; sul momento non ci faccio troppo caso ma poi torno subitamente indietro e quasi arrogante chiedo lumi. L’arroganza iniziale si è fatta presto resa incondizionata, ma giuro, davvero non avevo mai sentito o visto utilizzare quella parola. Non nell’accezione dell’insaccato s’intende, sia chiaro. 

E perché tutto sto discorso? Perché non nego che in qualche passaggio, in (più di) qualche frangente nella carriera di Rufus Wainwright, io abbia trovato la sua musica artificiosa, sempre di qualità elevata, ma meno spontanea e sincera di quanto non lo fosse ad esempio ai tempi di Poses, per dirne uno.

Ed invece, a questo (nono) giro è davvero necessario riporre l’affettato in frigo (scusate l’eccezionale gioco di parole, non ho potuto resistere) perché Unfollow The Rules è un gran buon disco (chamber?) pop. 

Prendete l’apertura, affidata a Trouble In Paradise, o la successiva Damsel In Distress, per avvertire in maniera nitida la freschezza e la brillantezza di scrittura del nostro, che a dispetto del brio delle parti strumentali, tra i versi sottende una sincera analisi riguardo alle maschere che indossiamo, ai sorrisi coi quali celiamo dei dissidi, all’orgoglio stolto che ci allontana dal nostro vero io.

Il piano e voce che introducono il brano che dà il titolo al disco riportano l’ascolto nelle zone che più mi hanno fatto innamorare dell’artista di Rhinebeck, quei momenti di lirismo assoluto, da quel “tomorrow I will just feel the pain” a precedere un cambio tempo di una bellezza sfacciata, tale da costringermi a “riavvolgere il nastro” più volte; pochi accordi di piano, diluiti, quasi languidi, che trovano un’improbabile quadra con la chitarra e la batteria, che quando ritorna la voce con un significativo “don’t give me what I want, just give me what I’m needing” non sembra nemmeno più di essere all’interno della stessa canzone. 

Eppure funziona così, quando si ascoltano quelli bravi davvero.

Il clima torna a farsi quasi giocoso, con You Ain’t Big, o si sconfina in lidi quasi (quasi) folk con Peaceful Afternoon per poi tornare a volare altissimi con Only The People That Love, una stesura magnifica, curata, immediata, “Only the people that love / May dream / May Cry / May fly”. La successiva This One’s For The Ladies (THAT LUNGE!) strizza l’occhio all’ultimo John Grant (ammesso che non sia più probabile il contrario), ipnotica e sospesa, clima proseguito da una enigmatica My Little You.

I toni si fanno più notturni e compassati in Early Morning Madness, sebbene la coda in crescendo mi perplima non poco; ad ogni modo un piano quasi da cabaret introduce Devils And Angels (Hatred), che si sviluppa poi secondo canoni più classicheggianti di quanto l’inizio facesse intendere (o sperare).

La chiusa di Alone Time è il colpo di coda del campione, la zampata di pura classe, un piano appena accennato, un controcanto ispiratissimo a tinte quasi gospel, un testo di struggente, candida bellezza, che quasi ti muove alle lacrime (“But don’t worry, I will be back, baby / To get you on the wings of a perfect song”).

È il disco che personalmente mi riappacifica, mi ricongiunge con Rufus Wainwright, che una volta affrancato, dimesse le vesti patinate che spesso lo hanno nascosto, torna a mostrare la sua più profonda (e nuda) natura. 

 

Rufus Wainwright

Unfollow the Rules

BMG

 

Alberto Adustini

Make Them Suffer “How to Survive a Funeral” (Rise Records, 2020)

L’estate non è una stagione per vecchi. Le zanzare, il caldo appiccicoso. La drammatica felicità di tutti gli altri che spesso mette a disagio.

Siete incazzati? Delusi? Vi sentite non capiti?

FATELI SOFFRIRE.

Un consiglio che viene dalla terra dei canguri, dove i Make Them Suffer sono nati e cresciuti, presentandosi sulla scena metal nel 2010. 

Dall’Australia, grazie al loro talento, hanno colonizzato il resto del globo, con il loro sound totalmente metalcore.

Il lockdown ha posticipato l’uscita fisica del loro ultimo lavoro How To Survive A Funeral di quasi un mese; anticipato dall’uscita del singolo e del videoclip Erase Me, caratterizzato da una musicalità da hit parade melodic metal, questo pezzo ha tutto, dai cori ritmati, all’alternanza di un growling con una dolcissima voce femminile. Il brano è molto orecchiabile, il testo è una preghiera arrabbiata, “ti ho spezzato abbastanza, quindi non odiarmi, cancellami”. Allontanare le persone è un’azione altruista o egoista? Questa domanda, posta dal gruppo, è uno spunto di riflessione.

L’aria carica di deathcore si respira per tutto l’album. Il primo brano è una dichiarazione di guerra. Ha una partenza morbidissima grazie al suono delle tastiere, per poi subire un cambio schizoide, con la batteria impazzita, in speed metal, con un growl potente. 

Lo speed metal è ripreso anche in Falling Ashes, follia pura, con vocalizzazioni durissime (indubbie le doti canore di Sean Harmanis) che passano rapidamente al growl spintissimo.

Ritornelli acchiappaorecchio sono una particolarità di questo gruppo, come in Bones passa da un metal molto duro ad un metal melodico, nostalgico.

Troviamo Fake Your Own Death che è sulla scia dell’esaltazione del metal, e Soul Decay che ci insegna a lasciar andare le situazioni distruttive, a liberare il cuore dalla prigione in cui ci siamo autorinchiusi.

I pezzi di questo album sono estremamente diversi, ma legati insieme dai testi e dalla consapevolezza del gruppo. Ogni strumento è in piena armonia con il resto, la dualità della voce del cantante testimonia talento, e impegno.

Nonostante i testi sembrino “da depressione giovanile”, la band ha regalato una chiave di lettura diversa. L’accettazione di sé, del proprio passato conduce ad una nuova luce da perseguire, improntata al miglioramento della persona stessa. Ma questo processo è possibile solo venendo a patti con l’anima, con i traumi passati. Riconoscere i propri limiti emotivi e lavorare sodo per innalzare il proprio io verso la liberazione dalle catene mentali autoimposte.

“La vita è troppo breve per passarla sempre arrabbiati”, la citazione di American History X cade a pennello per la visione dei Make Them Suffer, la rabbia è un sentimento vero, e ha bisogno di essere capito e metabolizzato per sciogliersi.

Album consigliatissimo per gli amanti del genere.          

 

Make Them Suffer

How to Survive a Funeral

Rise Records

 

Marta Annesi

Pearl Jam @ Autodromo Imola

Autodromo Enzo e Dino Ferrari (Imola) // 5 Luglio 2020

 

• Il concerto che non c’è •

 

Scena 1
Torino, esterno, giorno.
Inside Job

Il giorno prima di ogni concerto, soprattutto se dei Pearl Jam, corro.
Cuffie nelle orecchie e corro. Lascio che la loro musica entri in circolo con la respirazione, seguo il ritmo, mandando all’aria ogni buon consiglio sulla corsa. Visto da fuori sembrerò pazzo, più che un allenamento è riallineamento, una overdose di musica propedeutica una razione doppia di endorfine.
Ma è liberatorio, col sudore se ne vanno pensieri inutili e preoccupazioni, cerco di tornare alla neutralità, pronto all’urto del concerto.
Correre, quasi un lusso. Appartengo a quella schiera di runner cui è stato impedito di sudare in pubblico. Non è stato un sacrificio, non credo di aver fatto la mia parte rinunciando a così poco. Però mi mancava.
Guardo le gambe, sento la destra che perde colpi, usurata da pallavolo e calcio.
Guardo davanti e sorrido, perché ogni volta, più o meno verso lo stesso albero (sarà l’ossigenazione del cervello che salta sempre allo stesso chilometro), mi suggerisco la solita, facile metafora della corsa come allegoria della vita. Inizio, sudore, fine. Superamento costante dei propri limiti. Un passo dopo l’altro. E giù di cliché a pioggia, un ibrido tra Moccia e i perugina. E se Moccia fosse un ghost writer dei messaggi dei baci? E se avesse iniziato così?
Inizia a piovere.
Corro e scarto pensieri. Corro e costruisco storie che vorrei fermare, vorrei scrivere, ma sono liquide, come liquido sto diventando io. Come stai Andrea? Come arrivi a questo concerto?
Eddie mi ricorda proprio adesso che “how I choose to feel is how I am”. Le parole delle canzoni, mentre il tuo cuore pompa sangue e I tuoi muscoli iniziano a lamentarsi entrano come coltelli nel burro e non fanno a tempo a depositarsi che subito provocano catene di associazioni, è come stare su un tapis roulant al Louvre. Rimangono impressioni, torneranno su più tardi, coll’acido lattico.
Corro col solo obbiettivo di costringere il corpo a cercare il letto prima della mente. Stanco, devo essere stanco. Stasera non penserò a domani, o subentrerà l’ansia da prestazione, per me e per loro.
Cazzo quanto piove.
Oddio, arriva. 

Let me run into the rain
To be a human light again

Dissolvenza in nero.
Inside Job.

 

 

Scena 2
Interno auto, autostrada, giorno.
Light Years

I viaggi in auto verso i concerti sono come le prime pagine dei libri. Hai curiosità e diffidenza verso qualche faccia nuova, o magari sei felice come un bambino, perché ritrovi personaggi lasciati lì, chiusi dopo l’ultima pagina dell’ultimo concerto.
Si parla di qualunque argomento, l’importante è che dalle casse esca musica che vada bene a tutti.
La dimensione del viaggio ci era stata negata, e mai come ora capisco quanto sia importante mettere chilometri tra il proprio divano e un qualcosa che accade altrove.
Chilometri, parole, musica, un’autostrada che si riempie sempre più di automobili piene di nostri simili, diretti verso lo stesso luogo, stessi sorrisi, stesse colonne sonore, magari stesse storie.
Dalle casse riconosco Light Years, e la domanda è sempre la stessa: le canzoni capitano casualmente nei momenti giusti o sono i pensieri che seguono segretamente le note e ti ritrovi a pensare se le canzoni capitino casualmente.
Al Pinkpop Festival del 2000 Eddie Vedder dedicò questa canzone all’amica Diane Muus, scomparsa tre anni prima, a trentatré anni. Eddie così parlò: “sometimes you have got friends that don’t fuck up at all and are great people. And then you just lose them for some reason. They are off the planet and you never had a chance to say goodbye. I only mention this because there was a person we used to know here and that was Diane and ah, we never got a chance to say goodbye. This is goodbye. And if you’ve got good friends, love them while they’re here.
Ecco, la risposta è no, non capitano casualmente. È stato un periodo di addii negati, di persone perse senza uno sguardo reciproco. Un ultimo, consapevole, gesto d’amore. Abbiamo delegato tutto questo senza poterci opporre. È un peso che cala lento.
E allora prendiamoci questo concerto per curarci un po’, per raccontare le nuove cicatrici.
Siamo stati immobili, come pietre, ma la musica ci ha continuato ad illuminare.
Mi giro, I tre sono persi a discutere se con la partenza di Abruzzese sia davvero andato tutto a fanculo.
Sorrido, godiamoci questo viaggio, che mai come in questo 2020 si sta come al Pinkpop sul palco Eddie Vedder.

Your light’s reflected now, reflected from afar
We were but stones, your light made us stars

Dissolvenza in nero
Light Years.

 

 

 

Scena 3
Autodromo Enzo e Dino Ferrari, pit, esterno, tramonto.
Release

Trovato posto, il nostro posto nel pit, conosciuto i vicini di spalla.
Birre, cesso chimico, birre.
È incredibile come l’alimentazione prima di un evento impegnativo come un concerto sia, generalmente, liquida. Siamo astronauti.
L’aria cambia, sale un po’ di vento ad asciugarci, la sera sta arrivando, porta musica. Pixies andati, visti a Torino e recensiti, sapevo avrebbero fatto muovere le chiappette anche a questi giovini, linee di basso come schiaffi, irresistibili.
Adesso però ho bisogno di un’assoluzione.
Adesso ho bisogno di un’onda sonora che riallinei me al mondo, me alla musica, me a questo momento che aspetto ogni anno, come una medicina unica e rara.
In Let’s Play Two c’è un momento che mi rovina la vista, annacquandola, ogni volta. È all’inizio di Release, quando Eddie introduce la canzone. Cerca un certo John, “wherÈs John?”:

TherÈs a guy named John in the front. WherÈs John?
I just want to point out one guy at the front,
because he was the first guy in line two days ago; four days ago.
And he wanted to be in front for this song, because it meant a lot to him.
HÈs going through some stuff, and wÈre gonna help him.
Sing with me

Musica.
Lo stadio intona insieme a Eddie un lungo e profondo Oooohhhhhhhhh….

How are you doing now, John?

Oh, yeah.

Come va adesso Andrea?
Ho resistito, ho tenuto botta, ho teso i muscoli per mesi, per arrivare qua. Altro che quattro giorni, io è una vita che sto in fila. E sono e sarò John per sempre e per sempre avrò bisogno di essere lì, quando ci sarà bisogno di una “o” bella lunga e bassa, per ritrovarsi, riallinearsi e dirsi, senza troppi problemi che siamo passati attraverso qualche casino e che abbiamo un bisogno fisico di catarsi, di una benedetta catarsi di massa possibile solo attraverso la somministrazione consapevole e volontaria di basso chitarra batteria voce. Ukulele q.b. .
Cari John, lo so che siete là fuori anche voi. È tornato il momento di cantare tutti insieme, anche a cazzo di cane, ma farlo, oggi, qui, è la cosa più bella che ci sia.

I’ll ride the wave where it takes me
I’ll hold the pain, release me

Dissolvenza in nero.
Release

 

 

 

Scena 4
Autodromo Enzo e Dino Ferrari, pit, esterno, notte.
Rearviewmirror

Dissolvenza in nero

Fin qui tutto bene.
Belle le canzoni di Gigaton. Sognavo di cantare a squarciagola ravanèi remulass, barbabietole e spinass nel nanananaanaanananana di Superblood  Wolfmoon da mesi. Fatto.
Mai stato un musone da setlist scadente o presunte tali. Sapevo che anche questa volta non avrebbero deluso. C’è però una canzone che non possono non suonare. Una sola chiedo, perché è importante che mi arrivi addosso cantata da migliaia di persone e da loro, lassù, sul palco.
Fin qui tutto bene.
Poi arriva, chitarra, chitarre, batteria e basso. E via, l’autodromo esplode. Si tira fino al What I could not forgive, Mike ha già le mani al cielo. Adesso ognuno se ne va per la sua strada, poi tornano, poi via di nuovo, io vacillo.

Dissolvenza in nero

Migliaia di mani battono insieme, richiamano e reclamano. Un basso esaudisce i desideri.
Saw Things, per quattro.
Al quarto Eddie è posseduto, occhi chiusi, io galleggio. Le ombre si sono alzate, Mr. McCready è già piantato come un palo, mento in su, in estasi mistica, a sparare note sulla folla, la canzone sta per entrare nella sua terza vita, perché Rearviewmirror è una e trina, è composta, come la parola che la definisce.
Rear-view-mirror.
Batteria che corre i cento metri, io ho addosso un paio di baccanti, il pubblico dietro di me sembra un’onda impazzita.

Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.

Quando torno sulla terra, finite le note, è come se mi svegliassero da un sogno. Come se mi venisse tolto qualcosa cui tengo tantissimo. È infantile, me ne vergogno un po’, ne vorrei una al giorno di Rearviewmirror, così, tutti centomila insieme.
Insieme.


I hardly believe
Finally the shades are raised… hey

Dissolvenza in nero
Rearviewmirror

 

 

 

Scena 5
Autodromo Enzo e Dino Ferrari, esterno, notte.
Present Tense

Una Baba O’Riley che ha spostato le stelle per volume e che ha fatto ballare i sismografi chiude il concerto.
I sorrisi che si vedono dopo l’ultima nota, a luci accese, sono unici. Non li puoi trovare da nessun’altra parte. Ci sono sorrisi da sport, sorrisi da paternità, sorrisi di complicità, sorrisi irreverenti. Poi quelli da pit, che, con pochi altri, pongono una condizione precisa di tempo e luogo. Me li guardo per bene, me li tengo stretti.
Ho le orecchie che fischiano, le gambe molli, una sostanza simile al vinavil in gola.
Urge una birra, take a bottle, drink it down, pass it around.
I passi che faccio per uscire sono sempre I più pesanti, perché so che sono quelli più lontani dalla “prossima volta”. Oddio, avrei Zurigo, a breve. Però, mi concedo un sorriso ad angoli verso il basso. E un sospiro.

Dissolvenza in nero

Mi allontano. Mi metto in disparte, voglio osservare tutto questo. Perché con tutto quello che è successo ho cambiato il modo di percepire certi eventi. È come se testimoniare la realtà sia diventata un’urgenza. Ed è come se guardare questo nuovo spettacolo, con nelle orecchie ancora le loro chitarre, mi aiuti a digerire  marzo e aprile duemilaventi. Non vedere i miei genitori, gli amici, dover lavorare in continuazione per rimanere a galla, l’uscire con mascherina, autocertificazione, le code, la gente impaurita e arrabbiata, gli amici medici, gli amici ammalati, gli amici intubati. File di camion che escono da una città, i telegiornali visti di nascosto, spiegare a mia figlia perché sta succedendo tutto questo, perché i negozi nel quartiere sono chiusi e perché alcune serrande non si alzeranno più.
Chiuso, dentro.
Per fortuna c’era la musica, c’era una famiglia, c’era una bambina con cui ascoltare skipping prima di addormentarsi. Sono fortunato, lo riconosco qui e ora, del resto makes much more sense to live in the present tense.
È un mettere un piede davanti a un altro, come la corsa, metafora da due soldi.
Grazie piccolo esercito di John, siamo stati bene anche questa volta. Alla prossima.
 
You’re the only one who can forgive yourself oh yeah…
Makes much more sense to live in the present tense…

Dissolvenza in nero
Present Tense

 

 

Epilogo.
Sotto un albero, privo di ossigenazione, esterno, giorno.
Come Back

Questa volta mi sono fermato.
Ho un ultimo pensiero per me, per chi è ancora qua. Io a questo concerto ci sono andato davvero.
È durato tre mesi, forse quattro, è nato in quarantena ed è continuato ogni volta che una canzone dei Pearl Jam mi richiamava a un attimo di riflessione, a un pensiero, a un ricordo.
È il privilegio della reminiscenza, anzi, della ἀνάμνησις (anamnesi). È un qualcosa di bellissimo, un regalo della mente. È conoscenza, è il risveglio della memoria destata dalla sensibilità.
O forse non dovevo correre con 32° e assenza di ombra.
Ok, se queste saranno i miei ultimi pensieri, i miei ultimi respiri, lascio volentieri il ricordo di uno cui si alzavano ancora i peli delle braccia alla 456esima Rearviewmirror. Oppure cerco di tenere duro, fino al prossimo concerto, magari vero, questa volta.
Ecco. Come back. Il prima possibile, ne abbiamo tutti, per davvero veramente, un grandissimo bisogno.
E piove di nuovo.

If I don’t fall apart
Will my memory stay clear?

Dissolvenza in nero
Titoli di coda
Come back

 

 

 

 

Andrea Riscossa

Foto di copertina: Francesca Garattoni

 

 

MISURARE LA VITA I CUORI AFFAMATI DI AN EARLY BIRD DISPONIBILE DA OGGI RACING HEARTS, ULTIMA ANTICIPAZIONE DEL NUOVO ALBUM IN USCITA A FINE SETTEMBRE VIA ARTIST FIRST.

Incurante delle difficoltà derivate dall’inaspettata pandemia, An Early Bird continua il suo percorso di avvicinamento al nuovo disco Echoes Of Unspoken Words e lo fa con il suo singolo più ambizioso in uscita oggi venerdì 3 luglio.

Racing Hearts, distribuita da Artist First ed edita dai tedeschiEdition Mightytunes/Budde Music, è una folk ballad moderna, che si inserisce all’interno di delicate atmosfere notturne, sospesa tra Villagers e Ásgeir.

Un brano contemplativo ma estremamente pop, perfetto per l’inizio di un’estate strana come quella che stiamo per vivere, grazie a un beat

che pulsa sotto arpeggi di chitarre acustiche e riff di piano e synths.

Prodotta al Faro Studio da Lucantonio Fusaro, Claudio Piperissa e Luca Ferrari, la canzone vede la collaborazione di Old FashionedLover Boy,

alle seconde voci dopo il fortunato featuring dello scorso febbraio.

Clicca QUI per ascoltare la canzone.

È una canzone che affronta un tema che mi fa pensare molto.

Le distanze tra due persone che si cercano in qualsiasi modo.

Canzoni. Lettere. Tentativi. Guerre a distanza.

Ma cosa significa poi distanza?

Per noi tutto ha una misura.  Siamo abituati a quantificare ogni cosa.

L’amore e la vita si possono misurare? Siamo cuori che scoppiano di passione. Abbiamo bisogno di un semplice atto di fede verso l’altro per rendere qualcosa davvero memorabile. Incommensurabile.”

 

Racing Hearts è il quarto singolo in uscita dopo Talk To Strangers, One Kiss Broke The Promise e From Afar.

Il video ufficiale e una live session saranno rilasciate durante il mese di luglio.

ESTATE 2020 ACIELOAPERTO | IL RISVEGLIO In programma Calibro 35, The Comet is Coming, Nouvelle Vague, Francesca Michelin, Andrea Laszlo De Simone, Remo Anzovino

Risvegliati. Apri gli occhi e le orecchie, e guardati intorno. Rialzati, muoviti e riappropriati degli spazi comuni della città. Torna a incontrare le persone, e a far parte della comunità.
Questo è un risveglio. E il nostro è naturalmente musicale.

Dopo l’annuncio del concerto di Remo Anzovino, in programma sabato 18 luglio alla Rocca Malatestiana di Cesena alle 7:00 del mattino, ecco svelato il programma dell’estate 2020 di “acieloaperto”. Un cartellone inevitabilmente differente rispetto a quello inizialmente previsto prima della pandemia: i concerti di Niccolò Fabi, Willie Peyote e Ben Harper infatti sono rinviati all’estate 2021, mentre il live di King Gizzard & The Lizard Wizard è annullato. Ma non tutto è perduto.

Da metà luglio, poi ad agosto e settembre, sono sei i concerti previsti nei due luoghi che in questi anni abbiamo imparato a vivere e ad amare: la Rocca Malatestiana di Cesena e Villa Torlonia di San Mauro Pascoli.
Un cartellone che alterna pura musica strumentale, sia onirica che granitica, sia gentile che passionale, al cantautorato contemporaneo.

Dopo l’apertura mattutina a cura di Remo Anzovino, si torna a vivere la Rocca Malatestiana sabato 1 agosto con i Calibro 35, da oltre 10 anni solido punto di riferimento per gli appassionati di musica. Cavina, Colliva, Gabrielli, Martellotta e Rondanini ora tornano con un nuovo disco, “Momentum”: un album di rara intensità, che produce un suono senza tempo né punti cardinali in cui black music e suoni algidi del Nuovo Millennio si fondono offrendo un punto di vista incredibilmente originale sulla contemporaneità.
Giovedì 13 agosto è il turno dei tre cosmonauti musicali londinesi: The Comet is Coming. L’invito per il viaggio spaziale tra jazz, elettronica e psichedelia è aperto a tutti, e fortemente consigliato. Una volta tornati con i piedi per terra, solo pochi giorni dopo, esattamente il 16 agosto, arriva alla Rocca Malatestiana di Cesena Andrea Laszlo De Simone. Il suo sarà un concerto immersivo, un’orchestra mista tra synth, elettronica, cori, archi e fiati, un intreccio di strumenti classici e moderni: una versione contemporanea della musica da camera proprio come il suo ultimo disco “Immensità”, apprezzato anche in Francia e Regno Unito, ripropone il concetto di suite. Come un’unica sinfonia.
A fine mese si passa a Villa Torlonia a San Mauro Pascoli, dove il
29 agosto fa tappa l’unica data italiana dei Nouvelle Vague, la band che più di tutte ha reinventato il genere della “cover band”, a partire dai brani della scena punk e post-punk, con l’inconfondibile stile sognante della bossanova anni ‘50 e ‘60. Infine, martedì 1 settembreil palco di Torlonia sarà calcato da Francesca Michielin, tra i più giovani e sorprendenti talenti della musica italiana. Autrice e polistrumentista, si è sempre distinta per originalità in tutte le circostanze, anche le più importanti e al contempo complesse, come il palco dell’Ariston di Sanremo.

PROGRAMMA

sabato 18 luglio: REMO ANZOVINO (ingresso libero)
sabato 1 agosto: CALIBRO 35
giovedì 13 agosto: THE COMET IS COMING
domenica 16 agosto: ANDREA LASZLO DE SIMONE
sabato 29 agosto: NOUVELLE VAGUE (data unica italiana)

martedì 1 settembre: FRANCESCA MICHIELIN

 

La rassegna

Organizzata dall’associazione culturale Retropop Live nella splendida Rocca Malatestiana di Cesena nella suggestiva Villa Torlonia di San Mauro Pascoli (FC), la manifestazione ha portato sui palchi di queste magiche location artisti del calibro di Eels, Calexico, Black Rebel Motorcycle Club, Xavier Rudd, Belle and Sebastian, Mark Lanegan, Niccolò Fabi, Gogol Bordello, solo per citarne alcuni. Ha i patrocini dei comuni di Cesena e San Mauro Pascoli, e della Regione Emilia-Romagna.

L’associazione culturale Retro Pop Live è attiva sul territorio cesenate e romagnolo da quasi un decennio. Ha operato in numerosi locali e rock-club del territorio, organizzando concerti e distinguendosi per la proposta artistica che spazia all’interno del rock alternativo in tutte le sue sfaccettature.

Nuove prassi ecologiche

La rassegna musicale prosegue lungo il cammino dell’attenzione all’ambiente, proponendo agli spettatori semplici pratiche per dare ciascuno il proprio piccolo ma importante contributo. Uno stile sostenuto anche dal Gruppo Hera, che conferma la sua presenza affianco alla rassegna: “La multiutility si è impegnata al massimo per assicurare la continuità dei propri servizi – spiega Giuseppe Giagliano, Direttore centrale relazioni esterne del Gruppo Hera – e ora questa partnership rappresenta anche un impegno per il ritorno alla possibilità, interrotta in questi mesi, di godere nuovamente di occasioni culturali che contribuiscono a migliorare la qualità della nostra vita”. Confermata la scelta del “bicchiere amico”, operata sin dal 2015, la prima volta in Romagna. È un bicchiere in plastica resistente, lavabile, graduato, con una cauzione che obbliga lo spettatore a riconsegnarlo, per effettuarne il lavaggio e la rimessa in circolo, abbattendo la creazione di rifiuti. Nella stessa direzione, la scelta di eliminare le cannucce in plastica monouso, che non possono essere riciclate. Rinnovata la collaborazione anche con Sunice, azienda produttrice di ghiaccio alimentare ecologico, tramite un impianto che soddisfa il fabbisogno necessario alla produzione mediante sistema fotovoltaico. Infine ai bar viene somministrata acqua WAMI, in bottiglia in plastica riciclata, la cui vendita finanzia la costruzione di acquedotti in 16 diversi villaggi dell’Africa centrale.

Informazioni al pubblico

I biglietti della rassegna musicale sono disponibili in prevendita sul circuito TicketOne.
Le aree concerto prevedono esclusivamente posti a sedere, e saranno rispettate le norme anti-covid disposte dal protocollo regionale per lo spettacolo dal vivo.
Info line al 339 2140806 oppure retropoplive@gmail.com
Maggiori informazioni sono consultabili sul sito www.acieloaperto.ito sulla fan page facebook “acieloaperto”.

#risveglio #acieloaperto #acieloapertofestival


Associazione Culturale Retropop Live
Stampa e comunicazione
mail: retropoplive.press@gmail.com
web: www.retropoplive.it

Altra Fedeltà

Nick Hornby, negli anni novanta, riuscì a raccontare le sue passioni usando strumenti non convenzionali: il suo essere incredibilmente british, con tutti i pro e contro che questo comporta, l’ammettere candidamente le proprie debolezze, manie, fobie, idiosincrasie e anzi, farne materia per libri. Ci univano già un paio di elementi: l’amore per l’Arsenal — in quegli anni il calcio inglese era ammantato da un’aura di follia e romanticismo, e i miei Gunners erano fisici, scarsi e picchiatori, perfettamente rappresentati da capitan Tony Adams, un uomo che ha vestito di biancorosso per tutta la vita, lanciando più palloni in tribuna che in campo, anche in riscaldamento… ma questa è un’altra storia! — e ci univa l’amore per la musica e il tentativo di navigare in quel mare magnum dandosi un’idea, anche falsa, di ordine, di possesso. Fu lui che introdusse nella mia vita l’orrida idea di stilare classifiche.

Era il 1995, avevo divorato, qualche anno prima, Febbre a 90′, e adesso avevo per le mani Alta Fedeltà. 

High Fidelity è da poco anche una serie TV, dicono più vicina al testo originale rispetto al film con John Cusack del 2000 e spero arrivi fino a noi, quanto prima.
Nel libro, il protagonista Rob Fleming stila classifiche di cinque posizioni su tutto lo scibile di cui ha avuto esperienza, nel tentativo di rimettere ordine nella sua vita.
Ecco. L’altra sera, mentre scrivevo della colonna sonora di Singles, mi sono trovato in difficoltà nella scelta della canzone da aggiungere in coda alle poche righe di accompagnamento. Quel disco ha almeno cinque tracce che sfiorano la sacralità.
Il pensiero è allora andato a quegli anni e a quelle colonne sonore e ho scoperto di avere anche io una classifica delle migliori colonne sonore dei film degli anni novanta, a insindacabile (seppur sempre opinabile) giudizio del sottoscritto.

Non mi scuso per omissioni o per esclusioni, questo è.

 

10. Natural Born Killers (Oliver Stone, 1994)

Nine Inch Nails su tutti, ma con incursioni anche degli attori: Tommy Lee Jones, Robert Downey Jr., Juliette Lewis, che ai tempi cantava davvero, con tanto di gruppo ed EP.
Colonna sonora schizofrenica, per un film che è un pugno nello stomaco, che è la quintessenza della spettacolarizzazione della violenza, fuori e dentro la pellicola. Il pezzo in cui Bombtrack dei RATM sale a far vibrare i nostri divani è l’inizio della fuga di Mickey dal carcere. Il pezzo parte subito dopo la Danza della fata confetto di Čajkovskij. Contrasti a pioggia, anche a gamba tesa, come il basso di Timothy Commerford che polverizza la fatina mentre Woody Harrelson inizia il massacro finale. 

 

 

 

9. Velvet Goldmine (Todd Haynes, 1998)

È la storia e la caduta di un’icona del glam rock e il film stesso è la celebrazione del mito di quegli anni, a partire dalla swinging London fino al crollo del personaggio/cantante. Ispiratissimo a quel Bowie di Ziggy Stardust, il titolo stesso è riferimento diretto a una canzone del Duca Bianco. Il film in sé non è pezzo da cineteca, ma suona dannatamente bene, sembra una festa di compleanno per celebrare un’epoca: venne creato un supergruppo per realizzare parte della colonna sonora, con membri degli Stooges, dei Sonic Youth, dei Gumball, dei Minutemen, dei Mudhoney. I Placebo reinterpretano 20th Century Boy dei T-Rex, mentre Thom Yorke da voce al gruppo Venus in Furs per celebrare i Roxy Music.
Insomma, Todd Haynes ci regala un finto biopic pochi anni prima del suo capolavoro Io non sono qui, dedicato a(i) Bob Dylan. 

 

 

 

8. Judgment Night (Stephen Hopkins, 1993)

La quota tamarra me la gioco all’ottavo posto. Il film pare un pretesto per avere una colonna sonora che è un monumento al cafone che vive in noi.
Accadde che a vari gruppi hip-hop vennero affiancate band metal/grunge/rock.
Erano anni di crossover volontario e sperimentale, ma qui tocchiamo vette altissime. Altro che ananas sulla pizza. Un paio di esempi: Sonic Youth conditi con Cypress Hill, Helmet e House of Pain, Faith No More avec Boo-Yaa T.R.I.B.E. Nacque quella notte il Nu Metal? Ai posteri l’ardua sentenza. 
Potente. Geniale. 

 

 

 

7. Io ballo da sola (Bernardo Bertolucci, 1996)

Qui c’è stata battaglia. Avevo un clamoroso Empire Records, uno scontato Reality Bites, alla fine vince l’underdog. Qui è la bellezza tra immagine e colonna sonora a portare a casa il settimo posto. Liv Tyler era da arrossire, la colonna sonora, molto femminile, portava nelle cuffie del mio walkman Hooverphonic, Hole, Portishead, Liz Phair.
Riti di passaggio. 

 

 

 

6. Romeo + Juliet (Baz Luhrmann, 1996)

Premi a pioggia per un’opera geniale di un regista che adoro. Colui che pochi anni dopo avrebbe dato vita a quel capolavoro che è Moulin Rouge! recupera qui il testo (quasi) originale di Mr. Shakespeare e lo aggiorna, o meglio, ci mostra come il bardo fosse un genio senza limiti di tempo o di luogo. Verona diventa Verona Beach e da lì in poi è puro spettacolo.
Radiohead, The Cardigans, Garbage, ma soprattutto un Mercuzio da applausi.

 

 

 

5. Trainspotting (Danny Boyle, 1996)

Altro giro, altro regista di livello altissimo, altra colonna sonora da record (mamma mia il 1996!).
Presentato fuori concorso al Festival di Cannes, nello stesso anno di Fargo dei Cohen e di Crash di Cronenberg, fu un immediato successo. Diamo per scontata la visione, è programma istituzionale.
Iggy Pop, New Order, Primal Scream, Blur, Lou Reed, e soprattutto quella Born Slippy degli Underworld che diventò una cosa sola con le immagini finali del film. Generazionale? Di sicuro è diventato un cult.
But, that’s gonna change – I’m going to change. This is the last of that sort of thing. Now I’m cleaning up and I’m moving on, going straight and choosing life”.

 

 

 

4. Singles (Cameron Crowe, 1992)

Un film che è una colonna sonora.  Un tributo a Seattle a e al suo sound, alla nascente scena grunge, a una generazione di musicisti che negli anni novanta hanno segnato un solco nella storia della musica.
I Pearl Jam e Chris Cornell recitano attivamente nel film, sono le spalle di Matt Dillon, aspirante cantante e moderno bohémien.
Nell’elenco degli artisti coinvolti troviamo anche Alice in Chains, Mother Love Bone, Mudhoney, Screaming Trees, The Smashing Pumpkins tra i più noti.
È un manifesto, impossibile escluderlo, anche se, per salire sul podio, serve un quid in più.

 

 

 

3. The Commitments (Alan Parker, 1991)

Lo so. È una debolezza. O forse no.
Ma è una storia di redenzione, di resistenza, di amore per la musica, che ci ricorda di come tutte le periferie del mondo siano uguali e che si può fare Soul and R&B nella periferia di Dublino, allora possiamo spiegarci tutto, da Springsteen ai Fontaines D.C. .
Cito un personaggio, che riassume il concetto di sopra: “Gli Irlandesi sono i più negri d’Europa, i Dublinesi sono i più negri di Irlanda e noi di periferia siamo i più negri di Dublino, quindi ripetete con me ad alta voce: “Sono un negro e me ne vanto!””. È la vittoria di ogni processo di integrazione. È l’abbattimento di ogni differenza, sono i Blues Brothers, ma irlandesi e della working class.
Passo indietro: Alan Parker è un signore che ha donato all’umanità Pink Floyd The Wall,  Birdy – Le ali della libertà e Mississippi Burning.
Passo avanti: Glen Hansard è il chitarrista del gruppo. Quindi The Commitments merita il terzo posto solo per i riccioli di zio Glen. 

 

 

 

2. Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994)

Ecco, questo Cannes lo vinse.  E non solo: diventò genere, diventò testo sacro, citato, recitato, evocato in tutto il mondo. Personaggi perfetti, maschere geniali, dialoghi scritti in stato di grazia, in cui non esiste neanche una pausa fuori posto. Capolavoro.
E a condire questa meraviglia troviamo una colonna sonora che si intreccia nel film, che diventa strumento narrante e che sostiene e accompagna lo spirito di fondo della storia raccontata. È eclettica, come lo sono i personaggi, è di nicchia, come la cinematografia evocata dal regista, e che, come il genere e il film stesso, invece diventerà mainstream. La surf music che sorregge il tutto sarà il genere più utilizzato dai pubblicitari americani, per vendere…qualunque cosa.
Ah, dimenticavo: il podio consideratelo valido per qualunque film di Tarantino.

 

 

 

1. The Crow (Alex Proyas, 1994)

James O’Barr, autore della graphic novel che è alla base della storia del film, perse la fidanzata in un incidente. Per riuscire a superare il dolore accese lo stereo e prese matite, penne, pennelli e creò The Crow.
Il primo numero è dedicato a Ian Curtis, cantante dei Joy Division, scomparso a 23 anni.
Questo primo posto è alla colonna sonora, non al film. Anche se la pellicola è un’altra icona degli anni novanta, anche se la scomparsa di Brandon Lee durante le riprese ha reso lui e il personaggio ancor più un’icona, anche se.
La musica del film fu un colpo al cuore, perché era perfetta, perché era scritta nella storia stessa di James O’Barr.
The Cure, Stone Temple Pilots, Nine Inch Nails, Rage Against the Machine, Helmet, Pantera, The Jesus and Mary Chain solo per citare I principali.
Album sacro, via il cappello, podio e inno, grazie.

 

 

 

Andrea Riscossa

DA VENERDÌ 26 GIUGNO SU TUTTE LE PIATTAFORME STREAMING BUON TUTTO Il nuovo singolo di BRASCHI

Da venerdì 26 giugno, sarà disponibile su tutte le piattaforme streaming BUON TUTTO(Effe, distribuzione Artist First), il nuovo singolo di BRASCHI, cantautore attivo dal 2014 con alle spalle, tra le altre cose, la partecipazione alla 67esima edizione delFestival di Sanremo con il brano Nel Mare CiSono I Coccodrilli.

 

Durante il lungo periodo di quarantena, mentre era al lavoro sui brani del suo nuovo album, Braschi ha ritrovato una canzone lasciata nel cassetto molto tempo prima. Quasi un segno del destino, visto che Buon Tutto appare come il miglior augurio possibile dopo un momento così drammatico.

Ecco la nascita di Buon Tutto nelle parole dello stesso Braschi:

«Il 26 giugno esce la mia nuova canzone. Si chiama Buon Tutto ed è nata quasi per caso. Durante questi mesi di clausura, come tutti, mi sono messo a sistemare un po’ di cose che avevo lasciato da parte. Quel genere di cose che pensi di mettere in ordine non appena ne avrai il tempo. Tra le tante cose accatastate, ho scoperto così di avere un vecchio hard disk che non ricordavo nemmeno di più di possedere. Una volta aperto, la memoria è volata immediatamente a tre, quattro anni fa. Ai tempi, avevo registrato l’idea per un ritornello che diceva: “tanta fortuna, buon tutto”, quasi fosse un mantra o una preghiera. Risentendola ad anni di distanza, non ci ho messo molto a capire che si trattava della preghiera giusta da fare uscire in questo momento, dopo questi mesi di stasi delle nostre vite. Per tentare di tornare a quello che eravamo e riprenderci il nostro passo naturale. Il passo successivo è stato quello di scrivere le strofe, che sono uscite di getto, come se le parole non aspettassero altro che uscire dalla mia penna. Ne è venuta fuori una canzone che rispecchia perfettamente entrambi gli aspetti principali dei mesi passati in reclusione: la solitudine e la speranza. Un inno, un tormentone punk, se vogliamo dire così. Fondamentale, in ogni senso, l’apporto di Giovanni ‘Giuvazza’ Maggiore, che più di ogni altro ha creduto che Buon Tutto dovesse venire alla luce. Se non altro perché anche il fato ci aveva messo del suo affinché ciò avvenisse. E si sa, a certe cose non ci si può opporre. Io e Giuvazza abbiamo lavorato sodo insieme, prima virtualmente e, quando il virus ce l’ha permesso, fianco a fianco nei suoi studi sopra le colline di Santarcangelo di Romagna. Il lavoro è poi continuato a Roma, dove abbiamo effettuato i mixaggi e ha trovato infine conclusione a Miami, dove ha avuto luogo il processo di mastering. “Ci vediamo domani in una notte migliore di questa”, ci toglieremo la mascherina, torneremo a guardarci in faccia e forse a quel punto non avremo più bisogno di fingere nulla. Con tutte le conseguenze del caso.»

BUON TUTTO

(Federico Braschi)

Braschi: Braschi: Voce

Giuvazza Maggiore: Chitarra, Programmazioni, Produzione Artistica

Alberto Amati: Basso

Massimo Marches: Chitarra

Fabio Grande: Mix

Antonio Baglio: Mastering

Ed. Effe

Distribuzione Artist First

Instagram: https://www.instagram.com/braschi.mp3/

Spotify: https://open.spotify.com/artist/4zsXbn9nUCqEVQffZmidN4si=3nP4yvCZTXePpZZPuZ_ovg

Facebook: https://www.facebook.com/braschiofficial/

Biografia: Braschi è un cantautore romagnolo di 29 anni, un tipo che scrive le canzoni che canta, lacui storia artistica si snoda tra Santarcangelo diRomagna e gli Stati Uniti. Nel maggio 2014 esce Richmond, il suo primo EP composto da 4 tracce registrate a Richmond in Virginia. Nel progetto sono presenti collaborazioni importanti conmusicisti del calibro di Joey Burns e JacobValenzuela, membri del gruppo Calexico che sisono scoperti fan di Braschi dopo averneascoltato i provini attraverso JD Foster, produttore responsabile del suono della band statunitense,che ha lavorato anche con Vinicio Capossela eMarc Ribot. Braschi ha poi portato Richmond in tour, prima negli Stati Uniti (tra New York, Washington DC, Philadelphia e Richmond) e, in seguito, in tutta Italia. Tra il 2014 e il 2015, il giovane cantautore è stato in tour con Dan Stuart, leader dei Green On Red, con i Nobraino e con la sua band. Nel 2016 è arrivato in finale allaXXVII Edizione del Musicultura Festival, con il brano Acqua E Neve. Tra gli otto finalisti di Area Sanremo 2016, Braschi ha ottenuto l’accesso diretto alla 67esima edizione del Festival diSanremo e ha partecipato con il brano Nel MareCi Sono I Coccodrilli nella categoria NuoveProposte. Nel 2017 esce il disco Trasparente per iMean Music & Management e distribuito da Artist First seguito dai singoli Nel Mare Ci Sono I Coccodrilli e Acqua E Neve. Tra la primavera el’estate Braschi si è esibito live in tutta Italia,partendo dal bagno di folla del prestigiosoconcerto del Primo Maggio a Roma, per aprire poi i concerti de Le Luci Della Centrale Elettrica,Francesco Gabbani eFabrizio Moro. Il suo ultimo singolo, Il Cuore Degli Altri, risale all’estate del 2019.

Protest The Hero “Palimpsest” (Spinefarm Records, 2020)

Alla ricerca della perfezione

 

Il mondo del rock è sempre stato diviso in due schieramenti: il punk e il metal.

Entrambe esprimono lo stesso concetto del mal di vivere, ma differiscono per il modo di reagire.

Il punk è il caos, è l’entropia (spacchiamo tutto, moriamo giovani).

Il metal è l’ordine, la sintropia (urliamo, distruggiamo i timpani, ma studiamolo per bene…).

Col tempo tutto si è mischiato, creando sottogeneri che galleggiano in questo universo musicale contaminato.

Alcuni gruppi sperimentano altre sonorità, come le falene sono attirate dalla luce, volano verso mete sconosciute, e delle volte riescono nell’impresa di mescolare le carte. 

Altri, rimangono ancorati alle vecchie idee, perseguendo il loro sogno di perfezione.

Per i metallari, l’esecuzione del brano è fondamentale, lo studio e l’impegno dietro ogni strumento è certosino.

E ascoltando Palimpsets il nuovo disco dei Protest the Hero si ha l’impressione di un lavoro raffinato, ricercato, sudato insomma.

La Band canadese che dal 1999 calca la scena heavy metal, dopo quattro anni e varie difficoltà torna con questo nuovo album, carico di cattivi propositi e buona musica. 

Il singolo The Canary, omaggio al biplano giallo della pioniera del volo Amelia Earhart, è metal eseguito alla lettera, ostinato e perentorio come Amelia.

From the Sky, esprime tutte le competenze tecniche del gruppo e vocali di Rody Walker, che ha dovuto lottare molto a causa di un infortunio alle corde vocali.                                      

A questo punto dell’album troviamo Harborside (Interlude) grazioso stacchetto alla Striscia la Notizia ma versione musica classica, che, come il sorbetto al limone, toglie il sapore del piatto di pesce appena mangiato e prepara il palato alla prossima prelibatezza: All Hands. Questa presenta ritmi serrati, testo criptico sull’aspettare qualcosa (una svolta, sia questa positiva o negativa non interessa) che cambi per sempre la nostra vita.                                                     

L’ album contiene dieci brani, ognuno dei quali è il risultato di una ricerca maniacale della perfezione di un sound preciso, quello heavy metal. 

La cura del dettaglio è una particolarità dei Protest The Hero: ogni accordo, ogni strumento è perfettamente coeso, così da creare un chaos ordinato, una rispettosa follia. 

Una preghiera ossequiosa e assordante al Dio dell’Heavy Metal, una miscela di Mathcore e Progressive metal, come testimoniano The Fireside, Soliloquy e Gardenias.

Un’impresa meticolosa, accurata. Uno scrupoloso reportage sull’heavy metal, che ci riporta agli albori della storia del metal, dimostrando una crescita musicale nonché personale, un’esplorazione stilistica curata nel minimo dettaglio, fino al vomito.                      

 

Protest The Hero

Palimpsest

Spinefarm Records

 

Marta Annesi

Let the Music Play @ Anfiteatro del Venda

Anfiteatro del Venda (Galzignano Terme) // 16 Giugno 2020

 

Alla fine è successo. Prima di quando sperassi(mo). Meglio anche di quanto sperassi(mo).

È stato bello, è stato vero.

Siamo tornati ad un concerto. Un concerto reale, con i crismi che deve avere. Niente drive in, niente ologrammi, niente streaming né altre diavolerie. 

Un pubblico, coi distanziamenti e le misure previste, un palco — e che palco… esagero nel dire che in Italia ci sono pochi luoghi che possono reggere il confronto con l’Anfiteatro del Venda, con quel palco affacciato sulla pianura Padana e le sue mille luci? —e gli artisti su di esso. 

Tutto bello. Tutto perfetto.

Cioè non proprio tutto, come sostengono i rappresentanti delle Maestranze dello Spettacolo del Veneto, che ad inizio serata si prendono la scena, espongono uno striscione e fanno capire senza grandi giri di parole che la ripartenza tanto sbandierata è effimera, quando non proprio inesistente, soprattutto per certi settori, quali ad esempio la cultura. Sono parole importanti, dure, come giusto che sia, perché se la facciata ci appare stia tornando ad essere bianca, nasconde dietro ancora un sacco di sporco, che sarà difficile eliminare. Ad ogni modo un in bocca al lupo a tutti loro, sperando che presto possano ritrovare un po’ di serenità. E di diritti.

È la volta poi della musica, quella suonata, quella che ci ha spinto in cima al monte Venda, sfidando il maltempo che sta trasformando questo giugno in un novembre inoltrato, e ad aprire le danze tocca a Ricky Bizzarro, rocker trevigiano, una vita sul palco, da solo, in teatro, soprattutto coi Radiofiera, che hanno un disco pronto in uscita, prodotto da Giorgio Canali, e che questo virus ci costringe ad attendere. Ricky scherza “ho scritto un libro, ma ne ho una sola copia qui”, canta, suona, coadiuvato dal Maestro Sergio Marchesini, che con la sua fisarmonica fungerà da trait d’union della serata. Con l’occasione Bizzarro presenta anche un paio di brani in anteprima, mostra la sua enorme classe con una commovente In Meso Al Prà Dea Fiera, trascina con la sempre bella Me ciamo fora, si congeda felice quanto noi di essere tornato su di un palco.

Il testimone passa ad Erika Boschiero, col suo delicato folk, in bilico tra Joni Mitchell e la canzone popolare mostra (a me personalmente, che non la vedevo dal vivo da diversi anni…) un livello artistico ed una padronanza della voce e della chitarra non comuni e che strappano applausi ed urla di approvazione da tutta la collina. Salta con una naturalezza disarmante da un toccante omaggio a GianluigiGianniSecco, ad una dolcissima Cucurrucucù Paloma, alle tradizioni bellunesi de L’omo nero.

Il giro delle province venete si chiude con il veneziano Iacampo, che non pare aver risentito di questi mesi di stop forzato e si esibisce in una deliziosa Le mie Canzoni con il suo cantautorato così personale e figurativo, per poi annunciare che “ho comprato io il libro di Bizzarro, è all’asta”, e respingere al mittente Marchesini che aveva sbagliato ingresso e strappare risa e applausi al bel pubblico.

La serata scivola via in maniera così piacevole e naturale che accetto di buon cuore di lasciare lo spettacolo anzitempo (accogliendo tra i primi per altro l’invito di Simone, il padrone di casa, di non ammassarsi all’uscita), ma la cinquenne tradisce qualche segnale di stanchezza e pur avendo apprezzato il tutto (in particolar modo l’invito di Erika Boschiero ad accendere le torce dei cellulari per creare un po’ di scena) reclama un letto, per cui sì, è un report senza finale, senza il gran finale che posso solo presumere ci sia stato, con i quattro moschettieri assieme sul palco, distanziati il giusto, ma uniti dal grande abbraccio della musica.

Sopra il Venda ci sono le nuvole, ma noi siamo tornati a riveder le stelle, già. 

 

 

Alberto Adustini

Ti ricordi i RATM ad Imola nel 2000?

 

Venite piccoli e sedete qui attorno. Vi racconto una storia.

È accaduta in un tempo ormai remoto, per l’esattezza 7305 albe fa. O tramonti, a seconda. Se ci rifacciamo, come largamente accade in tutto il mondo, al calendario gregoriano, quel 7305 diventa magicamente una cifra tonda tonda, vale a dire 20 anni.

Vedete piccoli, nella mattinata di quel venerdì 16 giugno del 2000, il vostro papà saliva in auto, forse quella di Guido, forse no, perché i problemi di memoria iniziano da subito, in direzione Imola, “Autodromo Enzo e Dino Ferrari”, per l’Heineken Jammin’ Festival. Erano tempi strani, sapete? Migliori? Forse. C’è quel pezzone dei Gazebo Penguin, Senza di Te, che ad un certo punto fa “è tutto un ricordar le cose meglio di com’erano davvero di quando avevamo qualche anno di meno”. 

Ve lo ricordate? Ogni tanto vi mostro quel video favoloso, e voi dite sempre “chi sono quei pazzi!”. Beh vediamo di non iniziare subito a divagare, che la strada fino a notte è lunga e tortuosa.

Ad ogni modo a ripensarci, a cercare di tornare indietro con la mente a vent’anni fa, non so se la frase dei Gazebo sia vera o falsa. Probabilmente non è né l’una né l’altra, perché a dirla tutta, a 17 anni (eh già, non ero ancora maggiorenne, per poco, in quel giorno), sapete quanto vi frega che la scaletta di un gruppo sia bilanciata, che l’audio sia più o meno buono, che il pubblico sia partecipe o indisciplinato o altro? Zero. Zero assoluto.

Figli miei, quel giorno io ero salito in macchina di Guido (ammettiamo che fosse la sua d’ora in poi) con un intento così semplice che davvero pare appartenere ad un’epoca che non esiste più: divertirmi, il più possibile, ascoltando un concerto.

E non c’erano pare, polemiche, shitstorm sui social per le code, per i token, se un gruppo saltava, se il parcheggio era a 10 € (che poi mi sa che eravamo ancora in Lire), o meglio, così era per me e per l’accolita a cui mi accompagnavo quel giorno. Ed il fatto che non esistessero praticamente i social di certo giovava al clima generale.

Sta di fatto che soprassedendo ai vari transfer e spostamenti vari la timeline scivola fino al primo pomeriggio. Mi trovavo sulle collinette dell’autodromo, non proprio in prossimità del palco, perché dovete sapere figli miei, che nei festival il bello solitamente arriva alla fine, e le energie vanno dosate, specie nel mio caso, che avevo come unico obiettivo della vigilia di pogare e prendere n (con n che tende a + ∞) calci e pugni durante il live dei Rage Against The Machine. Cosa volete, sono un tipo semplice.

Ricordo che ci si dilettava con degli artifici dai quali dovrete SEMPRE stare alla larga, quando diventerete più grandi (mi raccomando eh!), quando in lontananza dal palco arrivano delle note che a più di qualcuno dei presenti fanno un attimo rizzare le antenne. “Apperò senti questi come suonano”. Interrompo (temporaneamente) l’attività alla quale stavo dedicando molta attenzione per dirigermi verso il main stage, ed ascoltare sto terzetto di giovanetti che suonavano da dio, veramente. Un live breve, come d’altronde capita ai gruppi minori del pomeriggio che si esibiscono con il sole a picco sulla testa e poche centinaia di persone davanti, ma magnifico. Ricordo bene che alla fine dell’esibizione il pubblico era diventato incredibilmente più numeroso. A notte inoltrata venni a sapere che il gruppo in questione, che a quanto pare era al primissimo concerto in suolo italico di sempre, risponde(va) al nome di Muse. E siamo al primo “io c’ero di giornata”.

Il menu prevedeva anche i Punkreas, saltati a piè pari (con tutto il bene che voglio a Cippa e compagni, ma a quei tempi li vedevo in media dieci volte all’anno), i germanici Guano Apes (e se ve lo chiedete la risposta è sì, suonano ancora) che non credo siano mai andati oltre ai successi di Open Your Eyes e a Big In Japan, ma che ricordo di aver visto da sotto il palco e che fecero un numero che per l’imberbe che ero allora fu difficilmente dimenticabile: nel bel mezzo di un brano, dal nulla, entrarono tutti in modalità freeze, cioè si congelarono, in una frazione di secondo. Delle statue per diversi lunghissimi secondi. Poi, attraverso un qualche segnale che ovviamente non colsi, ripresero a suonare dallo stesso punto in cui si erano fermati. E io a bocca spalancata. Primo live anche per loro in Italia. E secondo “io c’ero”.

Dopo dei Guano Apes nuovo momento topico della giornata. Tocca ai Primal Scream. Eh già, le line up una volta erano migliori, dai, ammettetelo. Sta di fatto che io, già in posizione d’attacco per essere pronto per Zac e soci, assieme a qualche altro migliaio di persone, noto che qualcosa non torna, perché il cambio palco è insolitamente lungo, sembra tutto a posto e invece ogni tot esce un qualche tecnico, colpetto sul microfono, verifica un filo, penso avranno accordato una chitarra quattro volte. E circola la voce che siano in ritardo perché Bobby Gillespie avesse perso l’aereo. Rumours al tempo delle voci di corridoio.

Sta di fatto che alla fine, con tipo un’ora di ritardo gli scozzesi escono ed iniziano l’esibizione. La risposta del pubblico non è proprio amichevole, diciamo così. Oltre ai fischi volano oggetti di vario tipo. Il signor Gillespie, che qualche situazione del genere la deve aver vissuta, riporta la calma sulla folla inferocita con un distensivo “Hello, fuck you for waiting”. L’ho amato. Anche perché poi ricordo una versione di Swastika Eyes allucinante. E allucinata.

In mezzo a queste esibizioni c’è un simpatico aneddoto. Simpatico fin là, per me. Ad ogni modo fino a qualche mese fa ho vissuto nell’incrollabile certezza che i The Tea Party, band canadese che amo molto, non avesse suonato. E fosse anzi stata sostituita proprio dai Punkreas. Fino a qualche mese fa dicevo perché ho scritto su Twitter al cantante e al bassista, ed entrambi mi hanno confermato che suonarono appena dopo sti famigerati Muse. Ora ok le attività ricreative, ok anche che nel 2000 i The Tea Party non erano ancora entrati a regime nei miei ascolti, ma cristodio! Che poi se il web non mente quella rimane l’ultima apparizione dei canadesi dalle nostre parti. E terzo “io (non) c’ero”.

Comunque arriviamo al dunque. Che poi si esaurisce in un attimo. Ricordo che la pressione era molta. Fisica intendo. Credo fossimo sull’ordine delle 45 persone per metro quadrato. A due metri dalle transenne. Il classico “This is Rage Against The Machine from Los Angeles, California” del riccioluto signor De La Rocha e poi boh, vai a sapere tu cosa è successo. Per i primi due o tre brani sono stato più a terra che in piedi, faticando ogni volta per rialzarmi, cantare un paio di versi, evitare quello più grosso, ma divertendomi come raramente mi era capitato. 

Fino a che non arriva il coglione di turno. Un ragazzo, età indefinita, perché ricordo che aveva un berretto di lana calato sul viso fino a sotto il naso ed in bocca quella che ad un occhio distratto sarebbe potuta sembrare una sigaretta, ma che nella realtà dei fatti non lo era (mi raccomando bimbi!), e che avanzava roteando le braccia all’impazzata e tirando pugni senza senso. E vabbè all’inizio lo tolleri, lo spingi un po’ in là, ma questo torna, sempre più fastidioso, a minare l’equilibrio che anche in situazioni di tale caos esiste, e quindi ci guardiamo in due, tre ragazzi, e senza nemmeno metterci d’accordo partiamo a tutta contro il malcapitato, lo carichiamo proprio, e questo non so come o dove sia finito, l’ho visto volare da un lato e venire inglobato dalla folla. Problem solved.

Che ve lo dico a fare poi figlioli che i quattro chiudono il concerto con Killing In The Name e si vola altissimi, meravigliosa giovinezza, e butto un’ultima occhiata al mega drappo dietro al palco con l’immagine di The Battle Of Los Angeles, e alla bandiera d’ordinanza sull’amplificatore di Tom Morello e ringrazio i miei genitori che mi avevano concesso questa occasione (che poi avanzavo i Silverchair dall’anno prima quindi conto pari). Lentamente, col fiatone, risalgo il prato, vedo solo facce sorridenti, tutti accomunati dalla stessa luce negli occhi, quella preziosa, che odora di meraviglia. Noto con un filo di orgoglio che ho un calzino rosso sangue ed un ginocchio con un taglio, la cui emorragia era stata provvidenzialmente fermata dalla polvere alzatasi sotto il palco. Anticorpi. 

Fa strano, ripensando a quel giorno proprio in questo periodo, a certi commenti che ho letto proprio verso Tom Morello, da sempre molto attivo in ambito diritti umani, non solo da quando spopola il #blacklivesmatter, o addirittura verso i R.A.T.M. (facile fare la band politica stando sotto contratto con una major), e davvero mi vien da pensare che ricordiamo le cose meglio di com’erano davvero perché, in effetti, lo erano.

E adesso andate a nanna. La prossima volta vi racconto dei Nine Inch Nails a Monza. Che son vent’anni anche per quello.

 

Alberto Adustini

BAY FEST 2021 DIVENTA DI QUATTRO GIORNI! ANNUNCIATI ANCHE I SUM 41

BAY FEST 2021 IL FESTIVAL PIU’ PUNK D’ITALIA DIVENTA DI QUATTRO GIORNI!

ANNUNCIATI SUM 41

11-12-13-14  AGOSTO 2021

PARCO PAVESE | BELLARIA – IGEA MARINA | RIMINI

NEL CARTELLONE CONFERMATI ANCHE MILLENCOLIN E FLOGGING MOLLY CHE SI UNISCONO A BAD RELIGION, THE BOUNCING SOULS E CIRCLE JERKS

 

Il Bay Fest 2021 sta decisamente prendendo forma, buone notizie per chi sta già sognando il festival punk-rock del prossimo anno, per chi impaziente vorrebbe tornare “alla normalità”, per chi come la maggior parte degli appassionati vuole eventi ricchi di contenuti e musica dal vivo.

Certamente l’evento del 2021 è ancora in costruzione, sia in termini artistici e meramente organizzativi, ma intanto Hub Music Factory e LP Rock Events sono al lavoro – fin dall’inizio del lockdown – per costruire la nuova edizione, ci sono oltre 16 mesi durante i quali il festival prenderà forma  in tutte le sue dimensioni, da quella artistica a quella organizzativa, l’idea è lavorare per costruire un evento più ricco di contenuti e “spazi “ di divertimento, in una location unica per la media degli outdoor festival italiani: un festival in riva al mare!

 

Così con la conferma  del periodo – sempre a ridosso di Ferragosto, sempre sulla Costa Adriatica – si è passati a definire i contenuti e ci sono due importanti novità: la prima –  proprio nell’ottica di un festival più “influente” – è che per l’edizione 2021 i giorni diventano quattro, con una giornata in aggiunta e ribattezzata “warm-up”, un giorno in più all’insegna della musica e dei divertimenti propri di un festival punk: la birra, lo skateboard, il sole, la musica, la spiaggia e il mare dell’Adriatico a pochissimi passi…

 

La seconda novità è la conferma della band “principe” del festival, i SUM 41 torneranno in Italia con il loro “No personal space tour”, una lunghissima tournée in tutto il mondo iniziata qualche mese fa, interrotta a causa della pandemia da Covid-19 e oggi confermata per il prossimo anno:  insieme a diversi show annunciati, ci sarà anche quello al Bay Fest 2021.  Anche per i Sum 41 questi ultimi tre mesi sono stati un vero testa-coda, l’ondata di crisi dovuta alla pandemia globale e il movimento Black Lives Matter hanno portato la band – non solo ad annullare il loro tour- ma anche ad esporsi pubblicamente e creare un nuovo modo di fare comunità con i fans: sono nati una seria di appuntamenti in streaming chiamati “Live from studio Mr.Biz” con protagonista il cantante e songwriter Deryck Whibley (a questo link potete vedere l’ultima toccante puntata, uscita il 14 giugno, in cui viene rivisitata “The Hell Song”).

 

La priorità per il 2021 resta la line up artistica, l’aggiunta di Sum 41 si affianca a quella di due mostri sacri come Bad Religion e Circle Jerks, di band come The Bouncing Souls o Flogging Molly, e artisti storici come Millencolin saranno tra le tante band che si alterneranno sul palco del Bay Fest.

 

INFORMAZIONI BIGLIETTI BAY FEST 2021

Una importante decisione degli organizzatori:  il “warm-up day”, il primo giorno di festival aggiunto per l’edizione 2021 sarà gratuito ovvero compreso nell’abbonamento se quest’ultimo è stato acquistato prima del 7 Marzo 2020.

E’ da oggi disponibile il primo biglietto cumulativo per i 4 giorni di festival, si tratta del Early Bird (link 1  – link 2): potrà essere acquistato fino al 30 Giugno.  Nei punti vendita è possibile prenotare anche il camping del Bay Fest.

 

 

 

IL FERRAGOSTO PIÙ PUNK D’ITALIA DIVENTA DI 4 GIORNI!

11-12-13-14 AGOSTO  2021  @  PARCO PAVESE | BELLARIA – IGEA MARINA | RIMINI

 

Prevendite disponibili dal 16 giugno 2020 su:

Mailticket  https://www.mailticket.it/manifestazione/VY29/BAY_FEST_2021

https://www.mailticket.it/manifestazione/VZ29/BAY_FEST_CAMPING_2021

Vivaticket  https://www.vivaticket.com/it/biglietto/bay-fest-2021-abb-combo-3-days/148590
https://www.vivaticket.com/it/biglietto/bay-fest-2021-abb-combo-4-days/148591

 

Per informazioni www.hubmusicfactory.com

 

GOOD RIDDANCE 18 GIUGNO 2021 |LOW-L FEST

La band californiana era attesa in Italia al LOW-L FEST,  un
festival no-profit della provincia di Lodi che sarebbe dovuto tenersi nel
2020 e, causa Covid-19, è stato rimandato all’anno prossimo.

I punk di Santa Cruz – politicamente – non hanno mai nascosto le loro
opinioni, non sono mai stati una band che mette in secondo piano le
questioni sociali;  da anni “agganciano” l’ascoltatore con melodie
accattivanti seppur in pieno stile hardcore e nel mentre; educano
Lo fanno da anni ma ancora di più con il loro ultimo disco, il primo da
quando Trump è entrato in carica, ribadendo la loro visione con canzoni come
“Our Great Divide”, “No King But Caesar”, “No Safe Place” e soprattutto “Pox
Americana”.
I Good Riddance sono sempre stati cosi _ hardcore da atmosfere sud
californiane e testi impegnati, così fu fin da disco “Ballads From The
Revolution”, ventidue anni fa.

 

Per informazioni www.hubmusicfactory.com
https://www.facebook.com/events/254433276004713/

 

GOOD RIDDANCE Low-L Fest
Venerdì 18 Giugno 2021
Guardamiglio (LO)

Ingresso gratuito