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The Bustermoon “Mareena Roots” (Self Released, 2020)

Di feste e d’estate

 

Anticipato dal singolo Poppoporopporoppopoporopporoppopoporopporopo, definita dalla band stessa sui social una “all together song”, una canzone che il pubblico intona sempre all’unisono durante i loro concerti e che vede quello stesso pubblico come protagonista del video, la band genovese The Bustermoon pubblica il suo primo LP Mareena Roots, il cui titolo appunto si rifà alle loro radici ben piantate nel mare della loro città.

Il disco è l’evoluzione naturale e spontanea del loro primo lavoro, l’EP Going to Taumatawhakatangihangakoauauotamateaturipukakapikimaungahoronukupokaiwhenuakitanatahu pubblicato due anni fa. Il loro marchio di fabbrica, quello che chiamano “folk’n’roll”, è ben visibile anche in Mareena Roots, dove la chitarra acustica fa da padrona. Un mix particolare e diverso dal solito, che unisce il country al rock’n’roll e al folk. Un mix che sa di feste e d’estate e che invita chi ascolta a ballare sottopalco sulle note di tracce come Traveling Love o Sweet Mama quando sarà di nuovo possibile farlo. Insomma, un disco spensierato come difficilmente se ne trovano oggi. 

Non mancano di certo le canzoni un po’ più malinconiche, come può essere ad esempio Rancho Rd, ma anche loro non abbandonano mai del tutto un certo piglio di allegria, che resta nascosto dietro alla nostalgia che si prova mentre si pensa ad una cosa bella, a prova del fatto che si può sempre trarre qualcosa di positivo, anche dalla malinconia. 

Mareena Roots, con un genere tutto suo, è quindi uno degli album che più si discosta dalla scena musicale italiana di oggi, strizzando l’occhio decisamente più agli Stati Uniti. Forse l’esempio più eclatante si sente in As I Breathe, la nona traccia del disco, che termina con il ritornello cantato in modo da ricordare un coro gospel d’oltreoceano. 

Chiude il viaggio dei The Bustermoon una ghost track, Cherry Tree, singolo che la band aveva già pubblicato la scorsa estate in collaborazione con Early Vibes e che qui viene proposto in versione riarrangiata. Un ottimo modo per chiudere quest’album carico di spensieratezza: con un sempreverde ma necessario “it’s alright”.

 

The Bustermoon

Mareena Roots

Self Released, 2020

 

Francesca Di Salvatore

LOBINA: ESCE OGGI IL NUOVO EP “CLOROFILLA”

“Clorofilla”, l’EP di debutto della giovane cantautrice genovese Lobina. Anticipato dal primo singolo “Molecole”, “Clorofilla” è da oggi disponibile sulle piattaforme di streaming e negli store digitali.

 

Il nuovo EP “Clorofilla” è il ritratto di una donna che dopo aver messo a nudo tutte le sue fragilità si scopre in grado di rialzarsi, anche dopo i colpi più improvvisi e terribili, forte e coraggiosa, capace infine di rigenerarsi.

Il racconto inizia così dal riconoscimento delle proprie debolezze di “Precipitare”, prima traccia dell’EP (“I miei atomi sensibili si raddoppiano / E non ho più anticorpi per difendermi / I miei passi consumati ti rincorrono / Ma non ho più muscoli per sorreggermi”), prosegue con l’inane speranza che tutto torni come prima in “Molecole” (“Io proverò a difenderti / Mentre speri di essere / Quel qualcuno che non sei più / Io non starò ad illuderti”), ricerca una realtà solida e consistente, come un’isola che accorci le “Distanze” tra le sponde di un mare agitato (“Conserva la mia anima / Diventa la mia isola / Prima o poi vedrai / Accorceremo le distanze”), acquista luce e colore in “Leggera”, quarta canzone dell’EP, vero e splendente turning point nella narrazione di Lobina (“Chiudi le paure / Dentro a quella stanza / Balla a piedi nudi sui dolori e non pensarci / Puoi lasciare andare / Tutti quei ricordi / E ti sentirai leggera come non sei stata mai”), prima di fermarsi infine, con l’ultima canzone “Caos”, a guardare con la giusta prudenza la lunga strada che ancora resta da percorrere (“Ancora no non mi conosco / E prendo treni, prendo aerei per cercarmi / E a volte mi trovo in uno specchio / A volte in un libro che ancora non ho letto”).

Il sound di “Clorofilla” è il risultato dell’incontro di Lobina con il produttore Simone Carbone, che in perfetta sintonia con l’autrice inserisce elementi elettronici (synth, tastiere, drum machine) ad accompagnare le melodie limpide e cristalline della sua voce.

01. PRECIPITARE
02. MOLECOLE
03. DISTANZE
04. LEGGERA feat. MARCELLO (ECE)
05. CAOS

 

Produzione: Simone Carbone @ Soundshape Studio – Genova
“Leggera” feat. Marcello ECE (traccia n.3) è stata registrata e mixata da Fulvio Masini @ Unbox Productions @ BlackwaveStudio – Genova
Testi e musica: Lobina
Foto e video: Mattia Ciafardo

 

Lobina nasce a Genova nel gennaio del 1991. A 10 anni prende in mano una chitarra 12 corde da cui non si separerà più.

Partecipa a vari concorsi (terza classificata al Varigotti Festival 2015, seconda al Premio Max Parodi, finalista al Festival Lanterne Rock 2015, semifinalista alla V Edizione del Talent per autori “Genova per Voi”).

Uno spirito di ricerca la anima, lei cerca sé stessa, si trova. Nel 2015 vive un’esperienza che le cambia la vita, per sempre. Nasce così il singolo “Aliante” (2017), chiusura di un percorso, e allo stesso tempo inizio di uno nuovo. “L’unica cosa che non mi ha fatto precipitare è stata la musica” – racconta – “Lei è l’unica certezza che ho ed è l’unica cosa che trovo, nel mio disordine”.

Sempre nel 2017 incontra Fulvio Masini, chitarrista, producer, videomaker, col quale imbocca una nuova via musicale. Alla chitarra aggiunge tastiere, synth ed effetti sulla voce.

A novembre 2017 pubblica il videoclip di “Aliante”, a maggio 2018 il secondo singolo “Distanze”.

Nel 2018, insieme all’amica e collega Jess crea #semprepiupoveritour, un format itinerante grazie al quale le due giovani cantautrici portano in giro per l’Italia i loro progetti musicali.

Nel 2019 incontra Simone Carbone, producer e sound engineer col quale nasce la sintonia che cercava per dedicarsi finalmente al suo primo EP.

“Clorofilla” rappresenta una fase della sua vita dove alcuni eventi l’hanno portata a provare un dolore così forte da non riuscire per molto tempo a guardarsi allo specchio, ma soprattutto rappresenta la sua voglia di rinascere e riprendere a respirare, per scoprirsi una donna nuova.

The Winstons ft. Mick Harvey “A Man Happier Than You”

Paesaggio lacustre accompagnato da una chitarra malinconica.

Bianco e nero, occhi neri che si alternano a luminosissime luci al neon.

Così inizia il viaggio del videoclip di A Man Happier Than You, brano contenuto in Smith (2019) de The Winstons accompagnati dal magico Mick Harvey (Nick Cave and the Bad Seeds).

Il brano è il risultato di un lavoro corale, impegnativo e “internazionale” (è stato registrato tra Londra, Milano e Melbourne) e a causa della pandemia anche il videoclip è stato filmato e assemblato “a distanza”, che è il tema chiave della canzone.

Due persone che dopo anni di lontananza si ritrovano a parlar delle loro vite, delle disavventure e delle gioie.

La nostalgia del testo, l’unione perfetta degli strumenti e con la splendida, calda, avvolgente voce di Mick Harvey che si sposa perfettamente con lo stile rock psichedelico del side project di alcuni membri degli Afterhours (Roberto Dell’Era aka Rob, Lino Gitto aka Linnon ed Enrico Gabrielli aka Enro) fa di questo brano un piccolo capolavoro.

Tre fratelli in pratica, cresciuti con una visione della musica molto vera, essenziale. Studiare suoni per evocare emozioni nell’ascoltatore, usare la voce e gli strumenti per riportare a galla sentimenti che credevamo perduti, sommersi nell’indifferenza della quotidianità.

Sul finire del videoclip il paesaggio diventa viola, ne segue un monologo sulla felicità da accapponare la pelle.

Consigliabile ascoltarlo con le cuffie, di sera, sdraiati al fresco a rimuginare su vecchie (e nuove) ferite.

 

 

The Winstons ft. Mick Harvey

A Man Happier Than You

TARMAC / Rokovoco / Sony Music

 

Marta Annesi

1DAN e la necessità di non inseguire le classifiche a tutti i costi

1DAN è un artista in grado di far confluire nei suoi pezzi le innumerevoli influenze sonore assorbite nel corso del tempo, e il nuovo singolo Magica, pubblicato il 28 maggio scorso ne è la conferma. Alcuni mesi fa ha fatto il suo debutto sulla scena con Super, pezzo che già metteva in risalto una singolare commistione di pop, elettronica, soul e trap, dal risultato efficace e sorprendente. Ora Antonio Giordano, questo il suo nome di battesimo, è tornato con una traccia ancora più definita e curata dal punto di vista produttivo, personale e intrisa di emozioni, frutto di una serie di riflessioni su alcuni momenti cruciali della sua vita. 

Nato in Campania ma di base a Milano da qualche anno, la città è risultata decisiva per la sua crescita cantautorale, grazie agli stimoli ricevuti che lo hanno convinto a perseguire i suoi sogni con determinazione e consapevolezza. In attesa di osservare come potrà evolversi in futuro il suo percorso, abbiamo avuto l’occasione di scambiare quattro chiacchiere con lui per scoprire qualcosa in più su Magica. Ecco cosa ci ha raccontato.

 

Raccontaci un po’ qualche retroscena sulla nascita di questo pezzo. 

“Questo pezzo è nato esattamente un anno fa, in quel momento ero un po’ perso, sentivo di non riuscire a capirmi, non mi accettavo. Il “viaggio nel tempo” di cui parlo nel testo ha un duplice scopo: riconquistare una storia importante e ritrovare me stesso. Fortunatamente sono riuscito soltanto in uno dei due scopi.”

 

Il testo parla di una relazione conclusa con tutto ciò che ne consegue, quanto c’è di personale e quanto di romanzato? 

“Di solito cerco di romanzare poco perché non voglio che una storia venga percepita in maniera sbagliata. Questo pezzo è tanto personale, molto più di Super — il mio primo singolo — e credo che sia molto evidente in alcune frasi. Quando l’ho scritto le parole sono scivolate fuori da sole, senza che ci pensassi troppo ed è questa la parte che preferisco del brano: la spontaneità.”

 

Il sound è molto elettronico e curato, come hai lavorato in fase di produzione? 

“Ormai ho una sorta di pattern che seguo sempre per la produzione di un brano: inizialmente compongo un giro di piano con un suono che mi piace, aggiungo un beat e lo metto in loop finché non ho un primo mood a livello melodico. Conclusa questa fase, penso a raffinare le varie sezioni della canzone con bassi, suoni e plug-in vari, finché non rimango soddisfatto della struttura finale. Questa volta è stato fondamentale anche il contributo di Davide Foti, che ha alzato l’asticella con il suo lavoro di mix e master.”

 

È il tuo secondo singolo dopo “Super” pubblicato qualche mese fa, come valuti il nostro panorama musicale ora che ne fai parte da “insider”?

“Il contenuto dei brani sembra sia un optional ormai e lo scopo principale di un pezzo è di azzeccare il ritornello, anziché trasmettere qualcosa di reale e sincero. Tutto ciò porta a una corsa agli streams e alle classifiche che trovo imbarazzante, i numeri alimentano la popolarità e non la qualità musicale. In ogni caso, calo la testa perché conosco poco questo mondo ma, per quello che ho visto e percepito finora, credo quasi di odiarlo. Nonostante ciò non posso fare a meno di continuare a scrivere canzoni e sperare in un cambiamento il prima possibile.”

 

Ripercorrendo il tuo percorso, come ti sei avvicinato alla musica? Che esigenza ti ha spinto a scrivere? 

“Credo che mio fratello sia stata la mia maggior fonte d’ispirazione da ragazzino. Lui era il classico figo della scuola, amato da tutti — comprese le mie compagne di classe — e i suoi amici suonavano in gruppi pop/punk e ska. Vederli suonare dal vivo con gli occhi di un liceale, ha acceso qualcosa in me che per fortuna non si è ancora spento.”

 

C’è qualche ascolto che ti ha influenzato particolarmente e che ti sentiresti di consigliarci? 

“Non penso mai: “questo pezzo voglio che suoni come Flume”, perché vorrei provare a creare qualcosa di nuovo o almeno riconoscibile. Nonostante ciò sono sempre pronto a consigliare nuova musica e credo che gli ultimi album di Dua Lipa e The Weeknd siano incredibili, contornati da un’estetica pazzesca: non ascoltarli sarebbe un torto al buon senso.”

 

Svelaci un segreto dell’artwork: come mai proprio il delfino in copertina? 

“Non mi considero un appassionato di fotografia, ma sono solito portarmi una macchina analogica durante le mie vacanze o weekend fuori porta. L’immagine scattata dei delfini è una foto che ho fatto all’acquario di Genova quest’anno, mentre si esibivano in una danza che saprei definire soltanto “magica”. Il lavoro di Attico36, il grafico con cui ho lavorato, ha poi portato tutto a un livello superiore, creando un vero e proprio mood.”

 

Stai lavorando a qualcosa anche dal punto di vista video? 

“Assolutamente si, il video uscirà questo mese e sarà una vera e propria figata.” 

 

Sicuramente non è un periodo semplice per chi fa musica, dal tuo punto di vista come valuti le nuove forme di interazione a distanza, ovvero i concerti in streaming ed eventi simili? Credi che possano avere un impatto sul futuro dei live? 

“Credo che la comunità mondiale si sia mossa in maniera impeccabile in tutti i campi e sia riuscita a restare a galla nonostante il periodo non lo consentisse. Non sono un grande fan dei concerti in streaming e dubito che saranno riproposti in futuro — le vibes non sono le stesse — ma da appassionato di videogiochi, trovo che il concerto su Fortnite di Travis Scott sia stata una delle trovate più geniali di sempre.”

 

Filippo Duò

Muzz “Muzz” (Matador Records, 2020)

Cosa succede quando un Paul Banks particolarmente ispirato si riunisce, con l’aiuto di Matt Barrick (batterista di The Walkmen e Fleet Foxes), con il suo amico di vecchia data Josh Kaufman? Nascono i Muzz.

Con questa premessa, abbiamo ascoltato l’omonimo album di esordio Muzz uscito per Matador Records e il primo pensiero è stato “questi tre suonano come Interpol e The National messi insieme”, ma senza le atmosfere cupe dei primi né la malinconia novembrina dei secondi. Coincidenze? Direi proprio di no, dato che degli Interpol c’è l’inconfondibile voce, Banks, e dei National c’è un compositore e arrangiatore, Kaufman. E poi c’è Barrick, che ci mette del suo con una battuta rarefatta qua e là in attacco a Bad Feeling o creando eleganti atmosfere da oscuro club jazz in How Many Days.

Nonostante sia particolarmente evidente individuare i gruppi di appartenenza o le affiliazioni precedenti dei nostri tre, quello che non è affatto prevedibile è il risultato di questa collaborazione: stili e retaggi ci sono, ma sono solo il trampolino di lancio per un disco che ha un’anima e un’identità tutta sua.

L’apertura è affidata a Bad Feeling, anche singolo, che entra in punta di piedi, quasi parlando, e sfoggia un finale in crescendo di ottoni molto National. Con questa premessa, si scivola in Evergreen, un gioco di echi e atmosfere languide dal sapore vagamente War on Drugs per poi tornare ai National con Red Western Sky.

Da qui l’album prende una direzione particolarmente cinematica e si stacca da riferimenti noti per definire l’identità propria del gruppo: un’infilata di brani che, chiudendo gli occhi, liberano l’immaginazione dell’ascoltatore portandolo da un film in bianco e nero (Patchouli) ad una danza avvolgente in una piazza di paese assolata (Everything Like It Used To Be).

Ascoltare questo album è come assaggiare lo sciroppo di Mary Poppins: ad ogni cucchiaio senti il sapore che ti piace più sentire in quel momento, ti lasci andare alle immagini che i brani evocano, senza un filo conduttore preciso ma tutti accomunati da un’elegante raffinatezza compositiva e stilistica.

Il cuore dell’album lo troviamo in due pezzi ugualmente evocativi e contrapposti: Broken Tambourine, con la sua intro di piano tranquilla, dolce, il cinguettio degli uccellini, è una canzone che sa di cielo lilla del tramonto, un patio, probabilmente un dondolo che guarda al viale alberato che porta all’ingresso di una casa del Sud degli Stati Uniti e richiama atmosfere da film degli anni ’50.
Di tutt’altra pasta è invece la galoppata di Knucleduster: un tiro irresistibile, la voce di Banks, capace di una dolcezza che si può notare raramente con gli Interpol, si apre come uno squarcio di sole tra le nuvole dando all’ascoltatore un senso di speranza.

Se Chubby Checker è un pezzo rarefatto e senza fronzoli, How Many Days si distingue, oltre che per gli arrangiamenti tendenti all’improvvisazione jazz già menzionati, per il calore seducente del cantato, come cachemire che scivola sulla pelle.

La chiusura dell’album è una tripletta di brani ben costruita: si inizia con Summer Love eterea e stratificata, malinconicamente inesorabile come le ombre che a fine estate si allungano sempre di più e baciano fredde la pelle abbronzata.
Si prosegue con All Is Dead To Me che riscalda l’atmosfera con l’uso profuso degli ottoni e creando dissonanze melodiche. Si giunge infine a Trinidad: il corno, una canzone crepuscolare, una ninna nanna, un commiato gentile.

Alla fine dei 43 minuti di ascolto l’album di esordio dei Muzz ci ha presi per mano e portati in quel posto dell’immaginazione dove la musica proietta film sul retro delle nostre retine, un posto sicuro fatto di melodie che riecheggiano una bellezza assodata e al contempo ci hanno fatto scoprire nuove sonorità che solo l’incontro tra tre artisti così ben assortiti come Banks, Kaufman e Barrick poteva generare.

 

Muzz

Muzz

Matador Records

 

Francesca Garattoni

 

Endrigo “Anni Verdi”

Tre amici e la passione per la musica che dalla cantina di casa li ha portati a suonare per le feste di paese fino ad arrivare su palchi importanti. 

Si sono meritati il loro spazio nelle band alt rock italiane grazie alla malinconia che solo la voce delicata e grintosa di Gabriele Tura sa esprimere, al talento con chitarra, basso e tastiere di Matteo Tura e l’energia di Ludovico Gandellini alla batteria.

Il nuovo disco è anticipato dai singoli Infernino (affiancati dai Bologna Violenta), Smettere di Fumare e l’ultimo uscito Anni Verdi. 

Nonostante il titolo possa far pensare ad una rievocazione del passato, un racconto di una gioventù tra palchi, banconi del bar e casini, non è così. Come spiega Gabriele, questo pezzo è ambientato ai giorni nostri, nel presente. Rappresenta la vita passata un po’ allo sbando, tra concerti, interviste, birre. Sicuramente affascinante, ma col rischio di rimanere incastrati nell’adolescenza e di dover combatte per diventare adulti, per dimostrare a tutti di esser cresciuti, migliorati.

E puntualmente si ricade negli anni verdi, nelle sbronze e nelle cazzate.

Una nostalgica ballata alternative rock che esplode in un’accorata promessa.

È un lungo sabato sera, coi post sbronza, stanze di alberghi, gli imprevisti, le fan, le emozioni che solo il palco può regalare. Un trucchetto per sfuggire alla routine della vita “da grande”. Il lavoro, la famiglia, i rapporti imposti, le responsabilità vengono messi da parte, e per quella serata (o tour) esiste solo la musica; suonarla e farla vivere. 

Uno scambio di energie in eccesso. Loro esprimono, noi percepiamo, contraccambiamo e restituiamo. Benefici per entrambi le parti e s’abbracciamo. 

 

 

 

Endrigo

Anni Verdi

Garrincha Dischi / Manita Dischi

 

Marta Annesi

Palaye Royale “The Bastards” (Sumerian Records, 2020)

L’essere umano adulto è il risultato di esperienze accumulate, ma sono i traumi, i momenti negativi che conducono la psiche a mettere in atto una serie di tecniche di protezione dell’Io per salvaguardare il bambino che c’è in noi.                                                                                                                        

Questi avvenimenti ci segnano in modo così profondo che la nostra psiche escogita sistemi per sopravvivere, e i più fortunati nascono con un talento particolare nel comunicare questo disagio: l’arte di esorcizzare il proprio dolore condividendolo.

È proprio questo bisogno che ha portato tre fratelli di Los Angeles, Remington Leith, Sebastian Danzig e Emerson Barrett (ovviamente cognomi d’arte, quello vero è Kropp) alla formazione di un gruppo nel 2008 con il nome di Kropp Circle, per poi cambiarlo nell’estate 2011 nel definitivo Palaye Royale (omaggio al luogo del primo incontro dei nonni).
Crescono influenzati dal rock, e dalle band alternative del momento. Uno stile malinconico, che spazia dall’emo punk e il rock classico, impreziosito dalla voce di Remington (che nel 2018 ha “prestato” la voce nelle parti cantate a Johnny Faust in American Satan, film diretto da Ash Avildsen).
Il primo singolo di debutto è datato 2012, ma la svolta arriva nel 2015 con la firma del contratto con la Sumerian Record e quindi un nuovo album (in cui compare Kellin Quinn degli Sleeping with Sirens).

Il 2018 vede l’uscita di un nuovo album, di un tour e della vincita come miglior artista rivoluzionario per il Rock Sound Awards.

L’anno seguente al gruppo si aggiunge Daniel Curcio, bassista. 

Quest’anno tornano con The Bastards, album anticipato dall’uscita del singolo Lonely, un sound rockeggiante contaminato dal ritmo R&B, una ballata sulla solitudine e la depressione, dove la voce suadente del cantante esplode poco prima del ritornello. 

Little Bastard, il primo brano, infarcita di malinconia e rock con un’ intro che ricorda vagamente Falling Down di XXXTentacion.

Sull’onda del hard rock si presenta Massacre, The New American Dream dal ritmo concitato, chitarre veloci e la voce di Remington che dimostra di saperci fare, diventando acida e corrosiva pur mantenendo una dolcezza intrinseca.

L’asticella del gradimento impenna in Anxiety, rock alternativo mischiato con elementi della musica elettronica, i 30 Second To Mars fusi con i My Chemical Romance. Passaggi rapidi da uno stile all’altro che culmina in un urlo devastante. Questo andamento rappresenta perfettamente la condizione di un portatore cronico di ansia, quando l’attacco è alle porte e puoi sentirlo scivolare sottopelle fino al punto massimo di resistenza per poi scoppiare in tutta la sua potenza repressa.

In Tonight Is The Night I Die, il quarto brano dell’album, è riconoscibile il tema di James Bond in un contesto ritmato che trasmette rabbia, dolore, dove il testo stesso della canzone assomiglia ad una lettera di addio, carica di disperazione e rassegnazione.

Il disagio del sentirsi incompresi, sfruttati a livello emotivo traspare in Fucking With My Head, la loro anima punk rock dilaga contagiando anche il pezzo seguente, Nervous Breakdown (brano adattissimo per il post quarantena). 

La ciliegina sulla torta, il pezzo più figo è la bonus track, Lord Of Lies, un vero delirio post punk, tra batterie incasinate, bassi impossessati, sirene come sottofondo e la voce di Remington che diventa demoniaca.

In questo nuovo album troviamo i vecchi traumi, dalla paura dell’abbandono alla depressione, passando per l’abuso di sostanze per arrivare a tendenze suicide, ma viste con l’occhio di chi è riuscito (almeno in parte) a sopravvivere. Di avere la libertà di non soccombere alle costrizioni della società.

C’è del talento, una buona coordinazione tra i vari strumenti. L’evoluzione si è compiuta attraverso la sperimentazione, il cambiamento. La crisalide si è schiusa, il loro vero essere si è liberato.                             

 

Palaye Royale

The Bastards

Sumerian Records

 

Marta Annesi

Il realismo positivo di Ghemon

È uno degli artisti più eclettici del panorama musicale italiano, in grado di unire il cantautorato al rap e al soul. A tre anni dall’uscita di Mezzanotte e con una partecipazione al Festival di Sanremo nel frattempo, Ghemon ha da poco pubblicato il suo ultimo lavoro, Scritto Nelle Stelle. 

Abbiamo fatto due chiacchiere al telefono per parlare dell’album, ma anche di concerti drive-in e stand-up comedy.

 

Ciao! Bentornato sul nostro magazine e grazie per averci concesso quest’intervista.

“Grazie a voi!”

 

Scritto nelle Stelle ha avuto un’uscita un po’ travagliata: prima il 20 marzo e poi il 24 aprile, sempre in periodo di lockdown. Com’è stato il lancio in questo momento così complicato?

“È stato particolare, sicuramente un lancio che non dimenticherò. Abbiamo preso la decisione di rimandare l’uscita del disco a inizio marzo, quando ancora il lockdown era parziale, ma già si sentivano umori piuttosto oscuri. Alla fine è uscito il 24 aprile, durante la fase discendente e quando si iniziava a percepire un po’ più di fiducia. Sono comunque fiero della scelta che abbiamo fatto, anche se va contro ogni logica commerciale, perché l’accoglienza è stata buona e ho ricevuto molti messaggi in cui le persone mi ringraziavano per averle aiutate con questo disco a trascorrere un po’ meglio la loro quarantena.” 

 

Si è parlato anche dell’ipotesi dei concerti stile drive-in per venire incontro al settore in crisi. Tu cosa ne pensi: meglio aspettare tempi migliori o provare a portare la musica in giro in questo modo?

“Penso che sia meglio aspettare. Non è per una questione di snobismo, ma perché è comunque difficile da organizzare: bisogna tenere conto degli spazi, della logistica e di eventuali assembramenti anche dentro le macchine. Però non credo che questa sia l’unica soluzione. Ad esempio, si è parlato di fare concerti sempre sullo stile drive-in, ma con le biciclette al posto delle macchine. Ad ogni modo, noi continuiamo a guardarci attorno e a cercare più alternative possibili.” 

 

Parlando del nuovo album, fin dalla citazione scritta sulla copertina si capisce che Scritto nelle Stelle è un album diverso, più sereno. Cos’è cambiato dal Ghemon di Mezzanotte?

“Sono io ad essere cambiato [ride]. Alla fine sono passati tre anni dall’uscita di Mezzanotte e per certe cose tre anni significano davvero un’era geologica. Sono cambiate le mie relazioni, il mio stato d’animo, il mio umore e ho fatto esperienze diverse, quindi avevo bisogno di raccontare questo posto nuovo in cui sono arrivato, di raccontare una sorta di nuova primavera, invece che rimanere ancorato alla nostalgia di una stagione passata.” 

 

I tuoi testi sono sempre molto sinceri. C’è uno sforzo dietro o ti viene naturale?

“È una cosa naturale. O meglio, all’inizio c’era sicuramente uno sforzo maggiore dietro, ma con la forza dell’abitudine questa sincerità è diventata la normalità. Volevo abbandonare la divisa da supereroe per cercare di cantare canzoni che dicessero la verità e mi rendo conto che è stata una scelta che ha dato i suoi frutti.” 

 

C’è una canzone di Scritto nelle Stelle a cui ti senti particolarmente legato?

“Non è una domanda facile. Sono molto legato a tutto il disco perché dentro c’è tutta una serie di cose che volevo fare e dire e che non ero sicuro se dire proprio in questo modo o meno. Ci sono soprattutto riflessioni che prima non avevo mai avuto modo di esprimere, come in In Un Certo Qual Modo oppure in Un’Anima, che tra l’altro è la mia prima ballad con solo voce e pianoforte. In generale in quest’album c’è un realismo positivo in cui mi rispecchio molto, quindi, nonostante le novità, non direi che si è trattato un esperimento, anzi mi ci rivedo parecchio. Però non c’è una canzone a cui sono più legato di altre, voglio bene a tutte allo stesso modo.” 

 

Sui vari social, soprattutto su Twitter ma anche nei video promozionali su Instagram, sembra che tu abbia sempre la battuta pronta. Qual è il tuo rapporto con l’ironia?

“Credo faccia parte del mio DNA familiare, da parte di mio nonno e di mio padre. Mi piace quel tipo di ironia fatto di battute ghiacciate ma dette con la faccia da poker, come se non stessi davvero scherzando, ed è una bella sensazione quando gli altri ridono per una battuta che ho fatto. Sono un fan della stand-up comedy e qualche volta ho anche provato ad esibirmi. Nelle canzoni tendo a non essere ironico, quindi questo è un modo per esprimere un qualcosa, un altro lato che di solito non traspare quando canto.” 

 

Francesca Di Salvatore

PearlJamOnline Livestream Fest con Brian Fallon, Joseph Arthur e tanti altri

Brian Fallon, Joseph Arthur, Liam Finn, Jim Ward e Jonah Matranga sono gli artisti che si esibiranno sul palco (virtuale) del primo festival.

 

Il momento è difficile per tutti, in Italia come negli Stati Uniti così come in tutto il mondo. Ciò nonostante la voglia di vedere i nostri artisti preferiti dal vivo non ci è mai passata.

Nasce da questi presupposti il PearlJamOnline Livestream Fest 2020, primo festival di PJ Online (virtuale) dedicato ad alcuni dei loro musicisti preferiti.

PearlJamOnline Livestream Fest 2020 sarà trasmesso in diretta sul canale Instagram a partire dalle 19:00 di sabato 16 maggio 2020. Ogni musicista sarà intervistato da Luca di PearlJamOnline e suonerà un paio di pezzi dal vivo.

Qui sotto la lista degli ospiti con l’orario d’inizio di ogni singola esibizione (per l’orario italiano, fare riferimento al fuso orario CET).

Ci vediamo sabato!

 

link alla diretta QUI

 

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DA LONTANO PER VEDERE MEGLIO: IL NUOVO SINGOLO DI AN EARLY BIRD

ESCE OGGI 15 MAGGIO

FROM AFAR

BRANO CHE APRE A SONORITÀ INEDITE

TRA DREAM FOLK, GLITCH MUSIC E ALT. POP

 

puoi ascoltarlo QUI

Un 2020 di nuove uscite per An Early Bird. Dopo il featuring con Old Fashioned Lover Boy in Talk To Strangers e l’apripista One Kiss Broke The Promise, primo estratto dall’imminente disco, esce il 15 maggio il nuovo singolo From Afar.

Il brano, distribuito da Artist First ed edito dai tedeschi Edition Mightytunes/Budde Music, racconta di una storia (in)finita che continua silenziosamente da lontano, in attesa di ritrovarsi sul ring di uno scontro odio-amore eterno.

From Afar, prodotta presso Il Faro Studio daLucantonio Fusaro, Claudio Piperissa e Luca Ferrari, conferma la sensibilità folk contemporanea di An Early Bird virando però verso sonorità pop contaminate: musicalmente suona come se i Tunng rivisitassero The Paper Kites, tra fingerstyle, sintetizzatori e pulsazioni elettroniche.

Quello che racconto in questa canzone penso sia qualcosa che tutti prima o poi si sono ritrovati a dover affrontare nel corso delle loro vite.

Di recente mi sono imbattuto in una poesia di Charles Bukowski che non conoscevoEd io ti penso ma non ti cerco – bellissima,

Nel leggerla ho avuto i brividi perché questo tenersi lontani e resistere in silenzio su un doppio binario che non lascia mai congiungere sembra essere un’attitudine eterna dell’animo umano.”

 

From Afar è il secondo singolo estratto dal secondo disco di An EarlyBird previsto per l’estate.

Per promuovere il brano è stata realizzata una video session da cui verrà estratto il video live ufficiale.

 

Mourning [A] BLKstar “The Cycle” (Don Giovanni Records, 2020)

Niente inganni, niente trucchi. È andata esattamente così.

Mi stavo apprestando ad uscire per la mia consueta corsetta e ricevuto un pacco all’ultimo momento dal partner di sudata, per darmi un po’ più di coraggio e vincere le possibili resistenze e le alternative certamente più allettanti che la mia psiche avrebbe sicuramente tentato di propormi, avevo optato per gli auricolari a farmi compagnia. Avevo già stabilito che avrei ascoltato i Fontaines D.C., perché Dogrel aveva la durata perfetta per il giro in programma (già testato, se non ci sono intoppi apro il cancello di casa a metà Dublin City Sky). Sta di fatto che mi ero appena cambiato, un’ultima scorsa al feed di Twitter, più per consuetudine che per reale necessità, quando avevo incrociato il tweet che come fai ad ignorare e più o meno recitava “Uscito oggi The Cycle. Disco dell’anno. Punto”. Per curiosità controllo se esisteva questo nome a me totalmente ignoto su Spotify, ed in effetti c’era: Mourning [A] BLKstar. 

Senza pensarci troppo su premo play e parto. Totalmente alla cieca. Precisazioni doverose: non avevo mai, mai sentito nominare questo nome, non sapevo che genere facessero (o facesse?), non sapevo da dove fossero (fosse), il nulla. E l’aspetto ancor più peculiare di tutta questa storia è che mentre scrivo queste righe sono nella stessa medesima situazione di cui sopra. Questo giro di proposito. Prima volta che mi capita nella mia gloriosa (rotfl) ultradecennale (lol) carriera (wtf) di recensore musicale di ascoltare e successivamente scrivere di un disco senza avere un minimo di contesto, due coordinate in croce, una mezza riga di biografia. A tal proposito ho sempre trovato assolutamente stimolante per possibili interminabili discussioni il passaggio di un disco dei Uochi Toki, Libro Audio, quando su L’Osservatore, L’Osservatore Primo, Napo enuncia “Non m’interessano i contesti sociali dai quali i gruppi musicali provengono, a meno che non si tratti di alieni, navi spaziali od antichi guerrieri più o meno medievali”. Ve l’ho buttata là intanto, poi un giorno magari ci torniamo.

Torniamo a me e alla mia corsa. Saranno gli auricolari di buona qualità, sarà che sto attraversando una sperduta stradina ai cui lati si distendono ettari di frumento ed altre non meglio identificate colture, sarà che a 4.50 al chilometro le difese si fanno più labili (ebbene sì, sono tornato sotto i 5 al chilometro) ma ci metto davvero poco a farmi ipnotizzare, forse trenta secondi e mi trovo a correre a Bristol con “3D” Del Naja e Beth Gibbons, che non sapevo corresse, e approfitto per dirle che mi innamoro di lei ogni qual volta la vedo fumare durante Glory Box su Roseland NYC Live. Passa poco e una traversata oltreoceano mi catapulta a Brooklyn, dove ad attendermi trovo Tunde Adebimpe e Kyp Malone, per poi spostarmi ancora verso ovest, destinazione Cincinnati, ospiti di Yoni, Adam e David e poi ancora più in là, verso la San Diego di Sumach Ecks. 

Sono queste le coordinate entro le quali si colloca questo The Cycle (ah, la copertina non ricorda tantissimo quella di Jane Doe, dei Converge?) il trip hop di matrice bristoliana targato Massive Attack e Portishead, le sfumature black dei primi TV On The Radio, il sommesso incedere dei Clouddead, il mood straniante, fuori fuoco, polveroso di Gonjasufi. Il tutto accompagnato da ottoni che suonano un peculiare klezmer sotto ketamina mentre ammiccano senza troppa timidezza in direzione Detroit, Grand Boulevard, citofonare Motown. O se volete un riferimento più recente alcuni passaggi dei The Roots.

Raggiungo la dimora sugli acuti irreali di So Young So, il tempo di una doccia e riprendo a lavorare (meraviglie dello smart working) in attesa della cena, e contestualmente riprendo l’ascolto. E non scende di livello, non perde un colpo nemmeno a cercarlo. Ecco, ascoltare questi Mourning [A] BLKstar ti lascia lo stesso senso di ammirazione (o invidia?) che provavi da bambino, quando avevi l’amico fortissimo a giocare a calcio, ma quando te lo trovavi a giocare a basket era ancora meglio, per non parlare di quando si metteva a sciare, snowboard o sci non faceva differenza. Questi stronzi fanno bene tutto (volevo scrivere dannatamente bene, come nei migliori doppiaggi italiani), qualsiasi vestito decidano di mettersi lo indossano alla perfezione, e la loro camminata rimane assolutamente inconfondibile; sono eclettici, liberi, e pieni di idee.

Ed ora, mentre in sottofondo scorrono le note di 4 Days (al minuto 5.40 quell’ipnotico passaggio dispari voce / pianoforte mi muove quasi alle lacrime), brano di chiusura di questo enorme lavoro, e non solo per i quasi 70 minuti di durata, eccovi le informazioni di cui vi sono debitore, ma che potete tranquillamente bypassare qualora la pensaste come il caro Napo: i Mourning [A] BLKstar più che una band nel senso stretto del termine sono un collettivo, di stanza a Cleveland, che ruota attorno alla figura di Ra Washington, il quale pare abbia portato dodici abbozzi di canzone in sala prove e tutti i musicisti abbiano creato e arrangiato le loro parti direttamente sul posto (delle altre sei non c’è dato sapere). Il numero dei membri varia, a vedere le foto dallo splendido loro sito e le varie line up accreditate. Ad oggi sembra siano in otto, abbiano tre cantanti e nessun bassista. Ed una bio che potrebbe rimettere tutto in discussione. O forse no:

We are a multi-generational, gender and genre non-conforming amalgam of Black Culture dedicated to servicing the stories and songs of the apocalyptic diaspora.

 

Mourning [A] BLKstar

The Cycle

Don Giovanni Records

 

Alberto Adustini

Mark Lanegan “Straight Songs of Sorrow” (Heavenly Recordings, 2020)

Catabasi Elettrificata

 

Mark Lanegan si aggiunge alla folta schiera di personaggi che possono vantare una gita agli inferi. Con un paio di differenze: non è il protagonista di un racconto, è l’autore. E là sotto, invece di amori perduti e antenati, è andato a cercare gli anni della sua gioventù, e si sarà fatto un paio di whiskeys, prima di risalire. 

Il nostro eroe viene dallo stato di Washington, che, evidentemente, qualcosa nelle falde acquifere deve averlo, dato che produce ottima legna e artisti leggendari.
Un’infanzia infelice, un’adolescenza turbolenta, un gruppo seminale e profetico, gli Screaming Trees, una Seattle come palcoscenico, prima che diventasse caput mundi del grunge. Anche se nel movimento lascia una zampata, facendo vibrare i vostri subwoofer a colpi baritonali, perfetto contraltare per Layne Staley nel disco dei Mad Season.

Droga, alcool, e un discreto numero di “affari loschi”, come li definisce lui stesso, ridendo, mentre parla del suo libro autobiografico Sing Backwards and Weep. Proprio questa sua ultima fatica letteraria è al centro della genesi dell’album Straight Songs of Sorrow.
Lo stesso Lanegan racconta che il libro non ha portato la catarsi sperata. Anzi, lo descrive come un vaso di Pandora colmo di dolore e miseria. Ha però portato un album in dono, quindici tracce figlie di un lavoro di introspezione che ha trovato uno sfogo inizialmente nelle parole, forse non sufficienti, forse compagne non così abituali. L’album nato tra le righe dei capitoli è composto di canzoni dedicate ai personaggi del libro, molti dei quali non ci sono più. È una personalissima Spoon River per Lanegan, inspiegabilmente ancora in piedi, microfono in mano. Non c’è resilienza, né resistenza, qui si canta di una insperata sopravvivenza, di anni difficili, di una tendenza autodistruttiva che ha sbagliato mira.

Questo viaggio nei ricordi e nelle cicatrici è accompagnato da alcune collaborazioni, Greg Dulli su tutti, e da stili inizialmente antitetici, elettronico e folk, presenti però nella carriera di Lanegan, che lentamente, nel percorso del disco, si fondono sempre più, a volte dividendosi la scena (sonora), a volte prevalendo sull’altra.

L’overture di I Wouldn’t Want to Say spiazza per la dissonanza tra cantato e base synth, ma lentamente, entrando nel disco, si prenderanno le misure dei suoni di questo strano luogo della memoria. È un inizio fatto di antitesi, di stili e di ritmi, che ci conducono fino alla coppia di canzoni che sono la quintessenza dell’album, Stockholm City Blues e Skeleton Key, un destro-sinistro che lascia al tappeto. Nella prima si elabora il rimorso per tutto ciò che è stato, nella seconda, sette minuti di ballata, si cerca la redenzione, partendo da un caposaldo: “I’m ugly inside and out”, e da una domanda senza risposta: “I spent my life trying every way to die. Is it my fate to be the last one standing?”. 

È come passare il dito lungo i lembi di una cicatrice e sperare di dare sollievo. Al limite si tracciano i confini di un dolore passato, ma di pace non c’è traccia, c’è solo una rinnovata consapevolezza. 

Cito perché notevoli Ketamine, dedicata a un amico che chiese, dal letto d’ospedale in cui giaceva, della ketamina, al cappellano giunto a dare conforto e At Zero Below con Greg Dulli, una ballata folk che lascia sottopelle un battito poco analogico.

Il disco è buio, è blu di fumo di sigaretta, ruvido come le guance di Lanegan, che più passano gli anni più mi appare come un ibrido tra Jack Palance e HellBoy.
È un’opera che racconta senza indorare, che però del raccontare fa il suo perno. La parte musicale si esalta quando le due anime, acustica ed elettronica, trovano il modo di fondersi e trovo affascinante, se voluto, l’evoluzione interna di questo processo nel percorso delle quindici tracce. 

È una discesa negli inferi personali di Lanegan, ma con una guida esperta che ha addomesticato i propri demoni, prendendoli per stanchezza. 

 

Mark Lanegan

Straight Songs of Sorrow

Heavenly Recordings

 

Andrea Riscossa