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ALBERTO FERRARI (Verdena) • SABATO 4 APRILE alle ore 21.00 Live set dalla pagina Facebook di LATTERIA MOLLOY

SABATO 4 APRILE alle ore 21.00

Live set di ALBERTO FERRARI (Verdena)

dalla pagina Facebook di LATTERIA MOLLOY

all’interno del progetto #StayON di KEEPON LIVE

a sostegno delle attività di EMERGENCY nei territori di Bergamo e Brescia

 

Lanciato lunedì 16 marzo da moltissime live venue, #StayON (il progetto coordinato da KeepOn LIVE -Associazione di Categoria Live Club e festival italiani, www.keeponlive.com/), sta raccogliendodonazioni a favore di ospedali e enti sanitari impegnati nell’emergenza COVID.L’iniziativa si concretizza in una staffetta di eventi in streaming, che raccoglie il mondo della musicaattorno ad una tematica comune: creare un unico grande palco virtuale per riaccenderele luci sugli spazi culturali come luoghi di aggregazione e socialità e fonte di lavoro per migliaia di persone del nostro Paese.Proprio sotto l’egida di #StayON (www.keeponlive.com/blog/stayon),Sabato 4 Aprile la pagina Facebook della Latteria Molloy di Brescia (www.facebook.com/LatteriaArtigianaleMolloy/) trasmetterà un live set esclusivo di Alberto Ferrari (Verdena, www.verdena.com/): un contributo musicale nel corso del quale il frontman della celebre band bergamasca, dal luogo in cui sta trascorrendo la quarantena, rivisiterà in modo intimo e personale i brani più celebri del gruppo, insieme a cover delle sue canzoni internazionali preferite.

 

Dalla Latteria Molloy: Mai come in questo momento difficile, Bergamo e Brescia sono sorelle.Un grande Artista come Alberto Ferrari (Verdena) e il live club di Brescia (Latteria Molloy) si uniscono a favore della raccolta fondi a sostegno delle attività di Emergency, che sta operando attivamente in supporto dell’emergenza nelle due città lombarde, particolarmente colpite dal COVID.Un gesto simbolico che può fare davvero la differenza: a chi si connetterà da casa per seguire l’evento gratuitamente in streaming verrà chiesto di devolvere il costo del biglietto “virtuale” per sostenere chi è in prima linea in questi giorni di crisi.

L’evento sarà, infatti, a sostegno delle attività che EMERGENCY (www.emergency.it/) sta svolgendo nei territori di Bergamo e Brescia nel corso di questa crisi sanitaria. Tutte le informazioni circa le iniziative in atto e le modalità di donazione si trovano su: sostieni.emergency.it/dona-ora/

 

#StayON

Che Musica sarà se non sarà la Musica dal Vivo?

 

#StayON è un vero e proprio movimento nato da live club e festival dell’intera penisola coordinato da KeepOn LIVE – Associazione di Categoria Live Club e festival italiani per donare agli ospedali e agli enti sanitari e mantenere il proprio ruolo di fondamenta del sistema musicale. L’iniziativa si concretizza in una staffetta di eventi in streaming, ma raccoglie il mondo della musica attorno ad una nuova sfida ben più complessa di un unico grande palco virtuale per riaccendere le luci sugli spazi culturali come luoghi di aggregazione e socialità (quanto ci mancano adesso!) e fonte di lavoro per migliaia di persone del nostro Paese. Il progetto è stato lanciato lunedì 16 marzo da moltissimi club e festival italiani e in pochi giorni tantissimi sono gli artisti che hanno aderito e che stanno prendendo parte a questa coloratissima rete. Tra i nomi, musicisti, scrittori, attori e pensatori che della performance hanno fatto la propria strada: Roy Paci, Alberto Ferrari (Verdena), Ascanio Celestini, Samuel, Emidio Clementi, Levante, Lodo Guenzi (Lo Stato Sociale), Leo Gassmann, Giovanni Truppi, Erica Mou, Guido Catalano, Roberto Mercadini, Eugenio in Via Di Gioia, Federico Poggipollini, Bebo (Lo Stato Sociale), Gatto Ciliegia Contro il Grande Freddo, Any Other, Marina Rei, Fast Animals and Slow Kids, Margherita Vicario, Selton, Pino Scotto, Folkabbestia, Giancane, Zibba, Laago, I Quartieri, La Municipàl, Marianne Mirage, Alberto Fortis, The Niro, Madaski, Pino Marino, Michela Giraud, Paolo Benvegnù, Roberto Dell’Era, Eva Pevarello, Giovanni Succi, España Circo Este, Carmelo Pipitone, Bianco, Francesco Di Bella (24 Grana), Cimini, A Toys Orchestra, Lorenzo Kruger, Raphael, Renzo Rubino, Enrico Gabrielli, Gnut, Pier Cortese, Ketty Passa, Giorgieness, Daniele Celona, Giulia Cavaliere,Giovanni Guidi, Sipolo, Nicolò Carnesi, Fabrizio Cammarata, Cisco, Finaz (Bandabardò) Cesare Basile, Davide Shorty, Ettore Giuradei, Scarda, DJ Osso, Federico Dragogna, Hipster Democratici, Daniele Fabbri e moltissimi altri stanno aderendo in queste ore.

Ad ogni diretta è associato un link a sostegno di campagne territoriali per raccolte fondi dedicate agli Ospedali e alla Protezione Civile.Partecipano a questa coloratissima staffetta di #StayON anche artisti internazionali come (autore, compositore e fondatore della band americana The Lumineers), Jesse Smith (figlia della poetessa Patti Smith), Stef Kamil Carlens (fondatore della banddEus)Mark Hart (componente della storica bandSupertramp e deiCrowded House) e Steve Wynn(già leader della band americana The Dream Syndacate)per dimostrare che il supporto alla musica dal vivo non ha confini in un momento come quello che stiamo vivendo.

“Ci siamo sentiti da luoghi diversi e lontani. Mai come in questi giorni abbiamo azzeratole distanze.Insieme abbiamo creato #StayON che, per un mondo spesso disgregato come il nostro, è una rivoluzione culturale.#StayON è la costruzione di palinsesti social condivisi tra live club e festival, un reale tavolo di lavoro che vede la sincera e preziosa collaborazione di musicisti e pensatori che saranno protagonisti di veri e propri Take Over. Ognuno dalla propria casa, ma in diretta dai canali social degli spazi che tutti i giorni fanno musica e cultura….perchè se crisi significa anche cambiamento, allora prendiamocela questa occasione e colleghiamoci.I Live Club e i Festival sono le scintille che da sempre hanno scatenato le lunghe storie d’amore musicali che sono state colonne sonore dei nostri tempi.La musica non può finire. Live Club e Festival non possono chiudere. E se le persone non possono andare nei club saranno i club ad andare dalle persone. Siamo un patrimonio culturale e lo stiamo dimostrando. Quando tutto questo sarà finito, questo non dimentichiamocelo.”

Dalle 18:00 alle 20:00 fino a nove canali. Ogni canale è composto da 4 live club e festival che trasmettono le rispettive dirette identificandosi con un colore dell’arcobaleno. Arcobaleno che rappresenta la speranza e l’accoglienza, per eccellenza le basi concettuali del nostro settore, simbolo quanto mai attuale in questo difficile periodo storico.

I canali dell’arcobaleno di #StayON:

_il canale viola con Germi (Milano), Diavolo Rosso (Asti), il Festival Suoni di Marca (Treviso), Off Topic (Torino)

_ il canale indacocon Latteria Molloy (Brescia), Deliri Cafè Bistrot (Sora FR), Indiegeno Festival (Patti-ME) e Blackstar (Ferrara)

_ il canale blu con Bloom (Mezzago, MB), Hall (Padova), La Musica Può Fare Festival (Caserta), Cinzella Festival (Taranto), Here I Stay Festival (Mogoro, OR)

_ il canale verdecon Mood Social Club (Rende, CS), Circolo Quadro (Cittadella, PD), Cap10100 (Torino), Fabbrica 102 (Palermo), Reload Sound Festival (Biella)_il canale giallocon I Candelai (Palermo), Linea Gotica (Ferrandina, MT), _resetfestival (Torino), Spazio23 (Gallarate-VA)

_ il canale arancionecon Mikasa (Bologna), Lanificio 25 (Napoli), Comic Festival (Perugia), QuIndie Festival (Perugia) e Demodè (Bari)_il canale rosso con Punk Funk (Palermo), Binario69 (Bologna), Distilleria Molloy (Brescia), Lumiere (Pisa), Sofà So Good, BlahBlah, Mad Dog (Torino), Balena Festival + CANE (Genova)

_il canale magentacon Fuori Tema (Urbino), Cisim (Ravenna), Largo Venue (Roma), Inkiostro -Church Unplugged Session (Cori -LT)

_il canale azzurrocon Arci La Freccia -Ex Mattatoio (Aprilia), Sei Festival (Lecce), Trenta Formiche (Roma), Far art Club (Terni), gARTen (Correggio, RE), Rock In Rolo (RE)

 

Dopo l’intervento sulla pagina di KeepOn LIVE del Dott. Antonio Franco Marco (Infettivologo e Responsabile della prevenzione rischio infettivo ASL Città di Torino) che ha risposto in diretta a molte delle domande che tutte le persone si stanno ponendo in questi giorni (la diretta è disponibilequi), il progetto di StayON usa la pagina facebook di KeepOn LIVE per trasmettere interventi tecnici che possano creare a diversi livelli del mondo della musica informazione su argomenti chiave.

Di seguito il calendario degli appuntamenti:

-27 marzo alle ore 20:00 con Andrea Marco Ricci (Presidente Note Legali) incontro dal tema “Decreto Cura Italia -interventi a favore degli autori e degli artisti”

-31 marzoalle ore 20:00 con Pierfrancesco Pacoda (Saggista) e Marta Fana (PhD in Economia) incontro dal tema “Quali scenari futuri per la musica live? Quali ripartenze possibili?”

-2 aprilealle ore 20:00 con Davide Grosso(International Music Council) incontro dal tema “Fare rete durante l’emergenza: uno sguardo internazionale”

Protagonista esclusivo dalla pagina di KeepOn LIVE è Roy Paci che incontrerà virtualmente i direttori artistici di realtà dell’operosa provincia italiana per porre l’accento sui territori.La musica non è solo delle grandi città e la vivacità culturale del nostro paese passa da tantissimi spazi consideratiperiferici che tutti i giorni portano avanti, a volte eroicamente, la propria funzione sociale e culturale. L’appuntamento con Roy Paci e i suoi ospiti andrà in onda dalle 17:00 alle 17:30 martedì 31 marzo, giovedì 2 aprile, sabato 4 aprile, martedì 7 aprile, giovedì 9 aprile e di sabato 11 aprile.

Seguiranno altri “incontri” per chiarire l’applicazione del Decreto Cura Italiadedicati specificatamente alle imprese della musica live, alle associazioni culturali, alle partite iva. Parleremo con esperti di settore di scenari economici futuri, fiscalità, rapporti di lavoro e molto altro.

È attivo anche un canale biancodestinato “a reti unificate” a eventi di raccolta fondi e ai festival. Il primo evento #AiutiAMOBresciaè andato in onda giovedì 19 Marzo alle 21.30 sulla pagina Facebook della Latteria Molloy (https://www.facebook.com/LatteriaArtigianaleMolloy/), in diretta uno speciale concerto-readinga porte chiuse, a supporto dell’iniziativa di Giornale di Brescia e Fondazione della Comunità Bresciana Onlusper aiutare gli ospedali brescianiin questa emergenza coronavirus.Il secondo evento #AiutiAMOBergamo andrà in onda marterdì 31 Marzo alle 21.30dalla pagina faceboook dell’Happening delle Cooperative Sociali di Bergamo, con uno spettacolo di Ascanio Celestini per la raccolta fondi “Abitare la Cura: una mano per alleggerire gli ospedali”.Il canale biancoche trasmette in seconda serata vede anchela partecipazione di festival come Suoni Controvento (Monte Cucco PG), RiveRock Festival (Assisi PG), Color Fest (Lamezia Terme CS) e Happening delle Cooperative Sociali (Bergamo).

In questo momento di emergenza sanitaria e grave crisi, gli operatori delmondo della musica vogliono -insieme! -lanciare un messaggio fondamentale: se le porte degli spazi sono tutte serrate in ottemperanza alle disposizioni di Governo e per profondo senso di dovere civile, riaccendiamo insieme le luci dei nostri spazi sui palchi virtuali. Un appello permanente agli artisti, ai media e al pubblico che nasce dalla responsabilità di ridisegnare il ruolo sociale e culturale che tutti i giorni la filiera della musica dal vivo svolge per il nostro Paese.

Sul sitokeeponlive.com è possibile consultare il calendario e l’archivio in continuo aggiornamento di tutte le dirette streaming: un vero e proprio palinsesto multicanaleche testimonia la vivacità e la voglia di collaborare di questa categoria. Quando l’emergenza sarà passata, sarà richiesto proprio agli spazi e ai festival di essere il motore che rigenererà l’aggregazione socialee la proposta culturale musicale del nostro settore. Aiutateci a poterlo fare!

I palchi virtualirestano aperti gratuitamente a tutti: per due ore al giorno, in “slot” da 30 minuti l’uno, fino alla fine del periodo di contenimento, le pagine Facebook di Festival e Live Club sono continuamente animate da una seriedi esibizioni speciali, che saranno raccolte sulla piattaforma di KeepOn LIVE.

La volontà non è quella di saturare i social: si vuole, invece, lasciare spazio a tutti, sommare gli sforzi di tutti, far partecipare tutti -grandi e piccoli -e riconoscerci come la grande e importante comunità che da sempre coltiva il contatto diretto con i cittadini e offre un servizio culturale irrinunciabile.

Ultimo ma importantissimo tassello di questa catena virtuosa sono gli uffici stampa, indispensabili attori nel processo di divulgazione delle informazioni: il coinvolgimento di più realtà all’interno di questo progetto di mostra, forse per la prima volta, la compattezza e la centralità di un mondo, quello musicale, che ha solo voglia di ripartire nel modo giusto. Per #StayON stanno lavorando in queste ore in un unico grande tavolo virtuale Angelicimedia, Astarte Agency, Babel Agency, Big Time, Daccapo Creative Agency, Fleisch Agency, GDGPress, Elliefant, Hungry Promotion, Libellula Music, Sfera Cubica, SiddARTa Press. Ci auguriamo che, una volta giunto al termine, #StayON avrà raccolto dei numeri significativi far riaffermare ai tavoli istituzionali preposti l’urgenza di misure e politiche tese ad avvalorare il settore della musica dal vivo. Non sappiamo dirvi oggi se funzionerà. È un momento in cui le previsioni sono impossibili da tutti i punti di vista, ma quello di cui siamo certi è che se agenzie, etichette, artisti, live club/festival e addetti ai lavori, enti profit e no profit della musica, riusciranno a lavorare in sinergia e in modo compatto, il risultato potrebbe davvero essere una fotografia del settore in termini di produzione culturale, di numeri e di indottoche non si è mai vista prima. Il risultato potrebbe davvero essere una rivoluzione culturale per il nostro Paese riconoscibile a livello internazionale e una presa di coscienza di settore.

 

UFFICI STAMPA:

Angelicimedia,

Astarte Agency,

Babel Agency,

Big Time,

Daccapo Creative Agency,

Fleisch Agency,

GDGPress,

Elliefant,

Hungry Promotion,

Libellula Music

Sfera Cubica

SiddARTa Press

 

 

Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs “Viscerals” (Rocket Recordings, 2020)

“Alternare Waxahatchee agli Unsane è da smidollati musicali. Però dà un gusto incredibile”.

Mi è capitato di leggere questo tweet, un paio di giorni fa, e mi ci sono fermato su, primariamente per l’accento sulla a, così raro da trovare, e poi perché parla di me. In pieno. Anche se è forte il rischio di entrare nella annosa questione “ – che musica ascolti? – un po’ di tutto”, che da decenni fa trasalire noi onnivori, è così. Non so se sia da smidollati, può darsi, ma che gusto ci dà tutto ciò? Anzi, è proprio questa l’essenza. 

Ad ogni modo dopo aver visto il mio impianto audio monopolizzato per giorni dalla sopra citata Waxahatchee, ora è arrivato l’ultimo disco dei Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs, Viscerals, uscito da qualche giorno per la Rocket Recordings (etichetta che annovera gruppi tipo Goat, Shit and Shine, tra gli altri, gente non proprio raccomandabile) a reclamarne legittimamente la titolarità. 

E sfruttando (e mi scuso per la scarsa fantasia) il famoso adagio pronunciato da Mario Brega “’sta mano po’ esse fero e po’ esse piuma”, di piuma in Viscerals non se ne trova, nemmeno a scavare in fondo, nemmeno se vi mettete a setacciare con la più grande pazienza possibile, in stile Tom Waits in The Ballad of Buster Scruggs. Vi potrete imbattere in ferro, acciaio, diversi altri tipi di leghe, ma sempre comunque pesi specifici importanti.

Prima però mettiamo un po’ d’ordine: i Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs (d’ora in avanti Pigs*7), sono un quintetto inglese, giunti al quarto disco, non hanno una pagina dedicata su wikipedia (ammetto che a me ha fatto un certo che, considerato che vi si trova cani e porci) e ascoltare un loro album equivale a trovarsi richiusi in una centrifuga, infatti per quanto possiate sforzarvi a mantenere una posizione e ad evitare di sbattere ovunque, ogni vostro tentativo risulterà vano. Vi fidate? Sono un gruppo pazzesco. Su disco certo, ma soprattutto live. E ve lo dice uno che non li ha mai visti. Ma utilizza youtube. Convengo che sia quasi paragonabile a visitare il mondo grazie a Street View, ma diciamo che un’idea uno riesce a farsela.

Questo Viscerals si presenta come uno sturm un drang di meno di quaranta minuti di durata ed otto canzoni, sette se consideriamo l’intermezzo pseudo industrial di Blood and Butter (che il “todays menu” presentato dallo chef sia un rimando alla copertina splatter?), che dall’iniziale e travolgente Reducer alla conclusiva Hell’s Teeth viaggia su ritmi che variano tra l’inarrestabile, l’impetuoso, l’incessante e il vorticoso.

Ci potrete sentire (o quanto meno è così per me) sicuramente i Dead Meadow (per esempio in Rubbernecker), però in una versione nel quale l’accezione lisergico/psichedelica viene soppiantata, in toto, da quella incazzosa/viscerale. E da qui il nome del disco, quanto mai azzeccato. Oppure in New body, vera gemma dell’intero disco, un’orgia sonora di oltre sette minuti, lungo i quali echeggiano rimandi dei Jesus Lizard della trilogia Head/Goat/Liar, con il cantato/sguaiato/urlato di Matt Baty che abbraccia ora David Yow, ora il John Lydon P.I.L. era.

Finale 1: Se vogliamo trovare una pecca a questo Viscerals è probabilmente l’assenza di un’alternativa, la mancanza di altri registri, altri linguaggi, si parte premendo sull’acceleratore, chitarre, basso e batteria a saturare tutto il saturabile, ogni tanto si alza il piede, ma di utilizzare il freno non se ne parla. Dedicato agli amanti del genere.

Finale 2: Il punto di forza di questo Viscerals alla fine è proprio questa fedeltà e questa coerenza nel portare avanti un’idea, un concetto, e ad essere riusciti a crearsi un proprio stile ed un proprio linguaggio immediatamente riconoscibile e a seguirlo in maniera totale e devota. È un esercizio ed una prova di grande consapevolezza e forza, non un limite. E il risultato finale ne è viva dimostrazione.

Per dirla alla Quelo, “la seconda che hai detto”.

 

Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs

Viscerals

Rocket Recordings

 

Alberto Adustini

Stu Larsen “Marigold” (Nettwerk, 2020)

Avete presente quelle giornate che partono male, nelle quali vi infastidisce tutto, dalla sveglia (la mia è It’s a Wonderful Life d(egl)i Sparklehorse, da anni, quindi parto meglio di molti altri… dai, quell’inizio dolce, a mò di carillon, che meraviglia è!), al tragitto a lavoro, a qualche scocciatura di troppo, ma che pian piano che passa il tempo si raddrizza, un piacevole incontro fortuito, una notizia inaspettata, insomma quello che volete, ci rinfranca e arrivi a sera che dici “beh, viste le premesse è andata davvero bene!”.

Tutto sto preambolo per dire cosa? Che il nuovo disco di Stu Larsen mi ha provocato grosso modo le stesse reazioni. 

Doveroso inciso contestualizzante: Stu è nato quarant’anni fa a Dalby, una cittadina dell’entroterra australiano, a circa 200 chilometri dal mare (e da Brisbane), e diverso tempo fa ha preso la decisione di tagliare diversi ponti con la società civile; ad esempio non ha un indirizzo di residenza, vive un po’ ovunque, pubblica(va) la propria musica tramite autoproduzioni ed etichette indipendenti, si sposta senza una meta e senza una modalità prestabilita , dormendo ora da amici ora dove capita. Molto amico di Passenger, col quale ha girato spesso in tour, potremmo ascriverlo, per mero fine catalogativo (madonna che brutta parola…) nel macro insieme cantautori folk.

Ora il suo terzo disco, Marigold, si presenta con We Got Struck by Lightening, brano che potrebbe tranquillamente essere uscito dagli East Coast Studios durante le sessions di registrazione di Sigh No More,  prosegue con Hurricane, che mi ricorda nemmeno troppo vagamente i Dire Straits, e Whisky & Blankets e il suo ritornello che ti pare di aver sentito in altre cento canzoni a chiudere questo tris dal sapore appena appena (ironico) derivativo. Mi pare dicano così quelli bravi.

Quando sembra che oramai l’andazzo sia segnato e ti rassegni ad una giornata negativa, arriva il primo incontro fortuito, la notizia inaspettata, che ha le fattezze di Wired Crossed, che riporta l’ascoltatore in territori più personali, intimi, larseniani, meno esuberanti e (f)estivi. Wide Awake & Dreaming conferma l’inversione di rotta, col falsetto di Stu a cullare assieme al violino e si rallenta ancora, con il piano dolce di Where Have All the Leaves Gone.

Il disco mantiene livelli decisamente alti, senza cedimenti né incertezze, ci si concede qualche digressione in lingua d’oltralpe (Je Te Promets Demain), a rimarcare il suo status di cosmopolita (o apolide, meglio mi sa), mentre i titoli di coda vengono messi da Phone Call from My Lover, delicata ballata sospesa a declinare ancora una volta l’amore in uno dei suoi mille volti: 

“Darling I love you, but I think it’s time to let go,
darling I love you but I guess it’s time to let go,
darling I love you, but I know it’s time to…”

 

Stu Larsen

Marigold

Nettwerk

 

Alberto Adustini

Pearl Jam “Gigaton”: Di Come Un Disco Non Sia Solo Musica

Tier II

 

Il 20 giugno del 2014, il signor Edward Louis Severson III, davanti a 60.000 persone in estasi, pronuncia un breve discorso, dopo due ore e mezzo di musica. Guarda in alto, gli spalti di San Siro, sorride alla transenna. Sente un senso profondo di comunione, tira fuori il suo block notes e in inglese, tra qualche fuckin’ e un gran gesticolare ci fa capire che nonostante tutto, nonostante tutti, si deve perseguire la strada della pace, dell’amore, della collaborazione. 

“We can win, we will win.”
Accordi di chitarra. Alive.
Lo conosco a memoria, quel live è stato la colonna sonora delle mie corse per l’intero anno successivo. I Pearl Jam sono colonna sonora dal 1991. Sono, in realtà, intrecciati con le nostre storie personali e questo offusca sicuramente il giudizio su un nuovo lavoro, come può essere Gigaton.

Tuttavia qualcosa è successo, quasi subito, dopo pochi ascolti. Una qualcosa di simile mi accadde con Vitalogy, c’era un senso di fondo che chiamava a nuovi esami, nuovi ascolti. 

Li ho nelle orecchie da così tanto tempo che risentire quel formicolio è stato davvero esaltante. Il mio quinto senso e mezzo chiamava a gran voce e così mi sono tuffato in uno studio matto e disperatissimo del loro ultimo lavoro. Ero alla ricerca del perché mi fosse piaciuto subito. Evento raro, quasi da sentirsi in colpa. 

Sia chiaro, l’opinione altrui, in questi casi, soprattutto se social, per me è inesistente. Il rapporto con un album è mediato solo dalle cuffie, tutto il resto è distrazione non necessaria. Ascolto e posso trovare interessanti punti di vista diversi, ma innanzitutto ho bisogno di strutturare un’opinione. In questo caso poi, devo razionalizzare una sensazione ombelicale, sfida affascinante ma ardua. 

Kandinsky sosteneva che l’azione nel quadro non deve aver luogo sulla superficie della tela materiale, ma in “qualche punto” dello spazio illusorio. È una dinamica virtuale, la stessa che cerco di mettere a fuoco.
Frank Zappa (attribuzione incerta, avviso) ha sostenuto che parlare di musica sia come “ballare sull’architettura”. 

Ecco, per cerchi concentrici mi avvicino. Eddie Vedder vive di ossimori e sinestesie. Canta di cose tremende, di vissuti pesanti, con melodie meravigliose e lo fa mandando in corto circuito musica e testi. È frizione continua, soprattutto nei primi dischi, con Vitalogy in testa. 

Per la prima volta, invece, in Gigaton sento venire meno questo gioco di costruzioni, mi sembra di vederci quasi un ragionamento che si muove dalla prima traccia per terminare con River Cross. Non mi spingo a parlare di concept album, ma qualcosa di simile serpeggia tra i solchi del disco. È un rinnovato umanesimo nei testi, che si concentrano sull’essere propositivi, perdendo quel furor giovanile.
Sembra un’Alive, trent’anni dopo: “Oh, and do I deserve to be?”
Beh, certo che lo meriti, e sei ancora vivo perché hai trovato una strada, l’hai, a dirla tutta, cantata attraverso undici dischi, dieci dei quali piuttosto adirato. 

Cito, sparse:

“All the answers will be found
In the mistakes that we have made”
Who Ever Said

“Right now I feel a lack of innocence
Searching for reveal, hypnotonic resonance
[…]
don’t know anything, I question everything”
Superblood Wolfmoon

“Freedom is as freedom does and freedom is a verb
They giveth and they taketh and you fight to keep that what you’ve earned
We saw the destination
Got so close before it turned
Swim sideways from this undertow and do not be deterred”
Seven O’Clock

Seven O’Clock ci ricorda la sesta legge del surf: mai nuotare controcorrente. La corrente va attraversata per raggiungere l’obbiettivo.
Vedder nel ‘91, seppur surfista, non riusciva a far uscire le leggi dell’Oceano fuori dall’acqua.
Quick Escape è una fuga nello spazio, verso Marte (crediti a Bowie, ovvio), perché più alto è il nuovo punto di vista, migliore e più precisa sarà la percezione. È una ritirata programmatica, robe da Sun Tzu, per raccogliere le forze e iniziare a rimboccarsi le maniche, come spiega magistralmente in Seven O’Clock con quel “Freedom is a verb”, che ci ricorda che spesso le parole hanno richiesto sangue e tanta vita, prima di godere di un significato.
Qui si parla della potenza del linguaggio, della parola. La poesia, anche nelle canzoni, scopre il mondo come se fosse nuovo, è uno sguardo magico che riesce a intravedere nuove corrispondenze (crediti a Baudelaire, ri-ovvio).

È un viaggio a rotta di collo nel Vedder-pensiero, che forse, a vederla bene, unisce la band molto più delle derive musicali dei cinque, sempre più distanti per gusti, ma capaci, nella dinamica interna del disco, di usare questa diversità come un punto di forza, per cambiare registro, punto di vista, ritmo, per regalarci, a conti fatti, un’esperienza molto più ricca e ampia. 

Nelle prime tracce c’è l’analisi, c’è l’indulgenza per i limiti del nostro essere, c’è la presa di coscienza.
Poi l’album, il Pensiero di Gigaton, fattosi forte e diventato adulto, affronta il lutto, superandolo in Comes Then Goes, si prende la scena intera in Retrograde quando i nostri ci avvisano che il messaggio è arrivato a destinazione, le coscienze sono deste e hanno rumore di tuono.
In River Cross si ripete “Can’t hold me down” che in breve diventa un “Can’t hold us down”. Il compito è portato a termine, il testimone è stato passato. 
Share the light”.
Che apre un menù a tendina di collegamenti possibili a partire da Prometeo che, prometto, vi evito.
Ode ai Pearl Jam, che hanno mandato in soffitta la resilienza, riesumando la resistenza, usando le parole, la poesia. Gigaton ha dei testi decisamente alti, a mio parere. Del resto un loro concittadino, vissuto qualche anno prima e dipartito a ventisette, sosteneva che “Bisogna cercare dentro ai dischi se volete trovare la poesia contemporanea”. Ben detto, Jimi. 

A volte capita che un album venga accolto a braccia aperte anche solo per il contesto in cui capita.
Altre volte accade che un album ha un messaggio così universale che è impossibile non cogliere il significato profondo e ideale.
Infine ci sono casi come Gigaton, che non è un album perfetto, per carità, ma ha una tale densità che risulta avere, per me, l’unica caratteristica che conta: il desiderio di riascoltarlo. Esplorarlo. Conoscerlo e inserirlo nella storia della mia relazione con i Pearl Jam, una storia fatta di specchi, di cambiamenti, di tradimenti, anche di separazione, ma che continua, incredibilmente, a lasciarmi folgorato, su un prato, quando parte una Corduroy o una Porch, a lasciarmi un sorriso quando, nelle cuffie, passa una frase di vent’anni prima perfetta, calzante, per quel momento lì.

 

Andrea Riscossa

Bartolini e l’importanza di non allontanarsi mai davvero

La settimana scorsa abbiamo avuto il piacere e la fortuna di occupare il tempo ascoltando in anteprima il primo album di Bartolini, Penisola, in uscita il 3 Aprile. In parte delicato, in parte sfrontato, sempre sincero: ogni pezzo sembra una lettera, prima scritta e poi cantata, e tutte insieme creano una corrispondenza carica di intuizioni, prese di coscienza e confessioni per undici persone collegate dal bisogno di sentirle vicine, mai distanti, mai isole. 

Abbiamo chiesto un po’ di cose a Giuseppe riguardo l’album e più in generale riguardo la sua carriera e le sue scelte, ecco cosa ci ha raccontato.

 

Ciao Giuseppe! Nessuna presentazione nelle info di Spotify, né su Facebook, allora perché non farla qui: chi è Bartolini e qual è la sua storia?

“Sono un ragazzo di 25 anni, nato in Calabria e vivo a Roma da svariati anni. Ho iniziato a suonare all’età di dieci anni la chitarra, sia per passione sia per evadere dalle situazioni che ho vissuto durante la mia adolescenza. Nell’ambiente dove sono cresciuto mi sono trovato spesso da solo e non del tutto accettato a causa degli interessi che avevo e per questo motivo ho avuto sempre difficoltà a trovare persone come me, motivo per cui non ho mai avuto una band e non sono mai riuscito a tirare fuori del tutto quello che avevo dentro, neanche con la musica. L’esperienza musicale era un pianeta molto lontano per me a quei tempi. Ho avuto la fortuna di avere due figure fondamentali che mi hanno cresciuto musicalmente facendomi scoprire i dischi che hanno accompagnato la mia “evasione”, cioè mio padre e mio zio materno. Grazie a loro mi sono appassionato alla musica new wave, punk, post-punk e indie rock. Dopodiché ho smesso di suonare per tre anni e di ascoltare musica, perché ero nauseato da me stesso e volevo essere un’altra persona. Volevo cercare di diventare quello che gli altri intendevano per “persona normale”.
Ho ricominciato a suonare a Roma dove mi sono liberato della mia nuvola di timidezza ed ho iniziato a sperimentare il canto, iniziando a scrivere prima in inglese e poi in italiano.
Nel 2016 ho vissuto a Manchester per un anno, città a cui mi sono sentito sempre legato da un punto di vista spirituale e musicale e in cui ho capito che volevo essere un artista. Qui ho iniziato a suonare le mie primissime canzoni in italiano e a scrivere. Tornato in Italia ho preso parte al collettivo Talenti Digital con cui ho fatto uscire le prime canzoni e sono cresciuto artisticamente. L’anno scorso è uscito il mio primo EP BRT Vol.1 e sono stato in tour per tutta l’estate. Nel frattempo, ho scritto tutto il nuovo album che uscirà con distribuzione Carosello Records.” 

 

Da Penisola non traspare solo una tua crescita musicale ma anche un cambiamento personale. “Cercare di non chiudermi nel mio guscio, di non essere un’isola” è uno dei tuoi propositi per questo nuovo inizio, se possiamo chiamarlo così. Ci sono stati però finora dei momenti in cui hai avuto bisogno di rimanere solo e lontano dal resto? Per esempio, per concentrarti su di te e tirar fuori quello che avevi dentro?

“Si, ci sono stati molti momenti in cui ho avuto bisogno di isolarmi da tutto, anzi è una condizione necessaria quando scrivo o registro. Non riesco, purtroppo, a lavorare o a scrivere se qualcun altro è nella mia stanza, mi inibisco. Sono sempre in quarantena quando scrivo. Il mio proposito fa riferimento al fatto che negli anni passati contenevo dentro di me strascichi di una rabbia post-adolescenziale e questo mi portava ad allontanarmi anche dalle persone care mentre adesso vorrei essere una penisola, vorrei stare più vicino quotidianamente a chi è presente per me.”

 

L’album infatti è caratterizzato da testi che ricordano quanto siano importanti le relazioni e i contatti e in questo momento più che mai capiamo quanto siano necessari i rapporti umani. Che influenza hanno gli altri (le relazioni, le sensazioni, le esperienze condivise) sulla musica che scrivi?

“L’influenza degli altri è fondamentale nella scrittura delle mie canzoni.”

 

Appena uscita, Lunapark ha ricevuto un bel po’ di commenti positivi e tanti ascolti su Spotify. La traccia è davvero bella, ma non ha nulla da invidiare alle altre dell’album, ognuna speciale a modo suo. Ero curiosa di sapere, perciò, qual è il processo che ti ha portato a scegliere di pubblicare dei pezzi tipo Lunapark e Non dirmi mai, piuttosto che altri.

“Ti ringrazio molto per aver apprezzato le altre canzoni del disco. Abbiamo deciso di fare uscire la canzone che fosse più vicina allo stile dell’EP (quindi Non dirmi mai) e che rappresentasse, però, una sorta di evoluzione di quel suono. Lunapark è il suo opposto per certi versi e rappresenta, forse, il pezzo più maturo dell’album.”

 

Quali sono gli artisti italiani o stranieri che hai ascoltato di più nel periodo in cui hai scritto questo album?

“Considerando che quest’album è stato scritto durante tutto il 2019 ho ascoltato diversi artisti italiani tra cui Battisti e Dalla e molti internazionali della nuova scena inglese come per esempio i Fontaines D.C., Idles e Shame. Poi Toro y moi, Foxwarren, Wild Nothing, Foxygen, Ross From Friends per citarne alcuni.”

 

Volendola allontanare dalla situazione particolare che descrive, Iceberg potrebbe essere la canzone che fotografa perfettamente questo periodo: “a quanto pare non posso più restare da te/ sono solo stanotte/ mi butto in un canale della televisione/ […] quando finisce il vento andiamo a festeggiare o no”. Tu come lo stai vivendo e cosa farai appena sarà finito questo periodo?

“Hai ragione, ed è assurdo perché questa canzone è stata scritta un anno fa per parlare di una situazione di solitudine estrema. A me piace molto stare a casa e come ti ho detto prima sto spesso in quarantena per scrivere e suonare. Adesso, però, sto iniziando ad accusare questa situazione. Avere la mia famiglia lontana e non poter vedere i miei amici è frustrante e, purtroppo, è un periodo in cui non riesco a scrivere né ad essere produttivo come vorrei.” 

 

Qual è, se c’è, la canzone di Penisola alla quale sei più legato?

“Dipende dal periodo, ultimamente mi sento molto legato a Sanguisuga forse perché è stata l’ultima canzone che ho scritto per l’album. Non so darti una risposta precisa perché le canzoni sono come i figli.”

 

C’è una persona alla quale fai ascoltare tutto in anteprima per avere dei consigli, dei giudizi o semplicemente per la curiosità di sapere cosa ne pensa riguardo i pezzi che scrivi?

“Si, alle persone che lavorano con me, alcuni amici e mio cugino.” 

 

Chiedere cosa ti aspetti da quest’anno è un po’ azzardato, quindi formuliamola così: qual è l’augurio che oggi Bartolini fa a sé stesso e alla sua musica?

“Mi auguro che questo disco possa arrivare in qualche modo alle persone e che queste si rivedano a modo loro nelle mie storie. Spero di essere un esempio per chi viene da una situazione simile alla mia, per trovare la forza di far uscire fuori le proprie passioni e di cercare quelle persone con cui condividerle.”

 

Marika Falcone

Claver Gold & Murubutu “Infernvm” (Glory Hole Records, 2020)

Ho recuperato un articolo che avevo letto da qualche parte anni fa di Umberto Galimberti, nel quale viene raccontato di quando il linguista Tullio De Mauro aveva svolto nel 1976 una ricerca per vedere quante parole, conoscesse al tempo un ginnasiale: 1600 circa. Ripeté il sondaggio vent’anni dopo e il risultato fu tra i 600 e i 700. Prosegue Galimberti dicendo che a parer suo al giorno d’oggi il numero potrebbe essere circa 300, se non meno. 

Sull’origine e sulla veridicità di questo studio vi sono pareri contrastanti, per cui non mi va di farne una sorta di assioma, ma di gran lunga più interessante è come prosegue Galimberti nell’articolo, ovvero “come ha evidenziato Heidegger, riusciamo a pensare limitatamente alle parole di cui disponiamo, perché non riusciamo ad avere pensieri a cui non corrisponde una parola. Le parole non sono strumenti per esprimere il pensiero, al contrario sono condizioni per poter pensare”.

Ora: il rap, per sua stessa natura, per definizione, non può esistere senza la parola. Magari senza musica, ma senza parole proprio no. E solitamente nei dischi rap di parole ce ne sono molte, i testi tendenzialmente lunghi, i risultati a volte opinabili, a volte no.

Non voglio attirarmi nemici (ok, anche io a volte non resisto dal buttarmi nella caciara), ma oggi è possibile imbattersi in “Giuro l’altra notte è stato bello / Non esci più dal mio cervello / Non basterebbe un solo anello / Tu vali più di ogni gioiello”, il cui autore non renderò noto, oppure in “E lui che avrebbe superato ed aspettato / Per millenni per poterla rivedere pure solo un giorno / E si sarebbe, da abbracciati, addormentato fra i capelli / Per potersene portare il suo profumo in sogno”.

È un discorso un po’ antipatico, lo ammetto, ed anche leggermente estemporaneo; voglio dire, esiste Messi ed esiste Candreva, ed entrambi appartengono alla stessa categoria lavorativa, ma un paragone così forte e smaccato mi aiuta nel trasmettere quanto sia maestosa e mirabile l’opera (che di questo si tratta) messa in scena da Claver Gold e Murubutu. Scrivo con la pressione di trovarmi di fronte a qualcosa di così vasto da essere incapace di abbracciarlo tutto, di non riuscire a darne giusto merito e rilievo, ma ormai siamo qui e da qualche parte bisogna pur cominciare. Dunque Daycol Orsini, Claver, e Alessio Mariani, Muru, dopo essersi già incontrati in maniera più o meno episodica in passato, hanno deciso di unire le forze per cimentarsi in una rilettura della prima cantica dell’immortale lascito di Dante Alighieri, la Commedia. 

Infernvm, così s’intitola, si sviluppa lungo undici tracce, dalla minacciosa Selva Oscura (con un ispiratissimo Vincenzo di Bonaventura) al Chiaro Mondo, costituita da soli sample a tema infernale riassemblati da Il Tenente.

È una discesa agli inferi che parte dall’Antinferno (con il contributo di Davide Shorty, che ricorderete in un X-Factor di qualche anno fa) e prosegue grazie all’anziano traghettatore delle anime “Spinge fiero il vecchio legno nell’oscurità”, Caronte. Qui Murubutu, da professore quale è nella realtà, mi costringe a riprendere il dizionario perché le mie reminiscenze liceale naufragano (sic) di fronte a “Ogni devoto qua ha il suo psicopompo / divinità ctonia della verità”.

È poi la volta di Minosse, col suo beat spiccatamente anni ’90 ed un utilizzo squisito dell’italiano che non può lasciare indifferenti. E d’altronde meglio non correre il rischio di risultare irrispettoso nel trattare temi così alti usando un linguaggio non altrettanto elevato. 

E quale argomento migliore se non l’amore, qui affidato a Paolo e Francesca, forse, insieme alla successiva Pier l’empireo del disco, per non cambiare campo semantico. Giuliano Palma fornisce il suo apporto nel ritornello, mentre i due battagliano a chi è più ispirato, Paolo piange mentre Francesca racconta “io che mi esprimerò solo piangendo / e tu parlerai di te come Ginevra”.

Pier ci sbatte in faccia la triste e dura realtà dei suicidi ed in Malebranche troviamo Murubutu a velocità siderale nella sua strofa a presentarci i barattieri; e poi Ulisse, con uno splendido arpeggio di chitarra e la narrazione tra Penelope che aspetta il marito che non farà ritorno: “Cantami o musa dell’Eroe di Grecia e le sue gesta / … / Che sfidò il fato fino all’ultima triste tempesta”.

La dolcezza con la quale una figura come Taide viene calata ai giorni nostri per parlare di prostituzione è commovente, difficile non empatizzare e non calarsi nei panni della protagonista, avvertirne la fatica.

I titoli di coda giungono con Lucifero, in un brano dalle tinte quasi dub, spruzzate di reggae qua e là, che mi portano all’uscita di questo disco con un mix di sensazioni contrastanti, difficili da elaborare: più avanzavo nell’ascolto, più mi addentravo nelle viscere dell’inferno, più provavo sincero stupore e ammirazione verso questi due eroi della parola, per la loro mirabile impresa. Al contempo mi maledicevo per aver sprecato troppo tempo al liceo e non aver seguito le lezioni ed essermene sempre bellamente fregato di mitologia, Dante, figure retoriche, per cui ora devo fare il doppio della fatica per mantenere il passo di Claver Gold e Murubutu. 

In effetti l’alternativa per non sentirmi inferiore c’era… come faceva quella dell’anello / gioiello?

P.S. Piccolo inciso (non del tutto) privo di polemica: anche in Caronte i suoni vanno da una parte all’altra, se la ascoltate con le cuffie… voi e il vostro 8D…)

 

Claver Gold & Murubutu

Infernvm

Glory Hole Records

 

 

Alberto Adustini

Waxahatchee “Saint Cloud” (Merge Records, 2020)

Waxahatchee, che è l’ultimo progetto in ordine cronologico di Katie Crutchfield, deve il suo nome a Waxahatchee Creek, situata negli Stati Uniti, precisamente in Alabama. Se cercate informazioni su questo Waxahatchee Creek, ad esempio su wikipedia per comodità, oltre alle tre righe di contestualizzazione, troverete poco altro, ma che è più o meno (più meno che più) noto per essere zona nella quale vive la Leptoxis Ampla, una specie di lumaca d’acqua dolce, a rischio estinzione, e che ha trovato il suo habitat ideale principalmente appunto in Alabama.

Sulla Leptoxis Ampla potrei star qui a parlare profusamente ma non mi pare né il luogo né il momento adatto, per cui tenderei a concentrarmi su Saint Cloud, ultima uscita sulla lunga distanza (madonna come mi piace sta espressione) di Waxahatchee, sempre per la Merge Records e che segue a distanza di tre anni Out in the Storm. E anticipazione, probabilmente è il mio disco dell’anno, al 27 marzo 2020. Quindi giudizio parziale ma non mi esponevo in maniera così decisa da anni, forse dal 2015 con At Least For Now.

Anziché fuori in mezzo al temporale, riprendendo il titolo dell’ultimo disco, con questo Saint Cloud Katie Crutchfield sembra essere uscita dal temporale, a sentire come suona (bene) già dall’iniziale Oxbow; messe forse temporaneamente da parte le distorsioni e gli echi pseudo punk simil grunge del passato ci troviamo immersi in sonorità quasi soul, dalle parti della Macy Gray di The Id, quando non più spiccatamente in territori americana, quel country che fanno principalmente loro, gli americani. Waxahatchee ci mette sopra una freschezza ed un’irresistibile necessità di usare la voce, giocarci, passare dal falsetto (Can’t Do Much ha degli splendidi echi della Abigail Washburn di City Of Refugee) ad una sorta di indietronica che quasi ti pare di sentirci i Postal Service (Fire).

Lo stato di grazia compositiva della Crutchfield non conosce soste né tentennamenti, è un continuo sorprendersi per una partenza dylaniana (Lilacs) o per la dolcezza di una The Eye che risulta tanto semplice quanto efficace. E siamo solo a metà disco.

L’enigmatica Hell, col suo testo in bilico tra amore e inferno ci porta a Witches, nella quale Katie ci parla delle sue tre migliori amiche, nominandole lungo il brano: la ballerina Marlee Grace, Lindsey Jordam (a.k.a. Snail Mail) e la sorella, Allison Crutchfield, con lei nei P.S. Eliot. E lo fa in maniera tutt’altro che convenzionale, ma al termine di un vero e proprio labor limae, soppesando le parole e scegliendole con cura, creando immagini, per colorare, dipingere sfumature, ritrarre con una vivida naturalezza.

In Arkadelphia c’è spazio per scavare nella memoria, tra ricordi che tornano a galla e coi quali non si è mai fatto pace, poggiati su di una malinconica, struggente melodia, Ruby Falls scorre via, con la sua cadenza fatta di Hammond e batteria, per portarci in fondo, a quella che è la vetta del disco, e forse di tutto quanto la mente di Katie Crutchfield abbia partorito fino ad ora.

St. Cloud si muove tra sparuti accordi di chitarra, poco altro, è la voce a prendersi tutta la scena, torna l’immagine del vestito bianco, “And I Might Show Up In A Wight Dress”, come nell’iniziale Oxbow, un potentissimo “If the dead just go on living / Well there’s nothing left to fear”, ci si sposta tra ombre e luci che scandiscono un ritorno, forse uno svanire. Finisce il brano e in automatico lo faccio ripartire, come un automa, voglio perdermi anche io tornando a casa a Saint Cloud, voglio bruciare lentamente anche io, voglio sentire all’infinito quel “when I go, oh when I go”, voglio provare questa alienante, curiosa, spiazzante, meravigliosa sensazione di perdizione e fine, confortato dai toni caldi e rassicuranti di una voce divina. E se serve, versare qualche lacrima.

 

Waxahatchee

Saint Cloud

Merge Records

 

Alberto Adustini

Pearl Jam “Gigaton” (Monkeywrench Records, 2020)

So save your predictions
And burn your assumptions

 

Tier I

 

Alla fine ho dovuto passare alle maniere forti.

Mi sono regalato la mia naturale miopia, levandomi gli occhiali. Anzi, ho proprio chiuso gli occhi.

Le cuffie a un volume illegale, perché di volumi illegali (e parlo di sonorità dispiegate e di peso dei testi) questo Gigaton ne è pieno. Sarà l’una di notte, ma poco importa, mi sono autodiagnosticato un cabin fever da quarantena e autoinflitto un jet lag da recensione. Non ho mai scritto cinque pagine fitte di appunti per nessuna recensione prima. Il problema è che sono di parte, molto di parte, in questa vicenda e ho un timore profondo ogni volta che un mio dito si abbassa verso la tastiera. Forse per la prima volta avverto un vago senso di responsabilità, innanzitutto verso me stesso, perché sono chiamato a esprimere un giudizio (anche se non vorrei, ma è inevitabile) su un qualcosa che, dopo sette anni di attesa, ha quasi l’aria di essere un oracolo, più che un disco.

E in seconda battuta mi sento responsabile perché, tra isolamento e tempesta emotiva calcolabile in gigatoni, sto tecnicamente sperimentando la menopausa. Sbalzi emotivi di questa portata li ho visti solo in alcune signore quand’ero fanciullo. Da oggi avete tutta la mia più sincera solidarietà. Questo, inevitabilmente, offusca la mia percezione. Anche se, a dirla tutta, credo l’abbia semplicemente accelerata. Perché è dai tempi di Vitalogy che per esprimere un giudizio su un lavoro dei Pearl Jam, di solito, impiego mesi.

La compressione ha aiutato, qualcosa si è smosso con largo anticipo.

La verità è che a smuovere qualcosa ci aveva già pensato Dance of the Clairvoyants, primo singolo uscito il 21 gennaio, che ha portato alla luce un sound inedito e innovativo, un potenziale cambio di rotta da parte dei cinque, o semplicemente un avviso ai naviganti: destatevi, ma soprattutto “mettete in salvo le vostre previsioni e bruciate le vostre supposizioni”.

 

 

Un cambio, fisico, è avvenuto: a produrre l’album c’è Josh Evans, colui che negli ultimi anni ha seguito il gruppo come tecnico del suono. Ha creato una sorta di studio casalingo dietro casa, per permettere a Vedder e soci di lavorare in tranquillità e soprattutto rispettando tempi dilatati e assenze frequenti, tra tour solisti e progetti paralleli è stato raro vedere i Pearl Jam riuniti in sala di registrazione a improvvisare. È stato più un lavoro di stratificazione, di innesti, di montaggio artigianale. Nel 2017 si è iniziato a registrare, ma la scomparsa di Chris Cornell ha bloccato la genesi dell’album. Probabilmente, ha anche permesso che avvenisse un piccolo miracolo.

È come una fotografia a lunga esposizione. Un diaframma era stato aperto e poi è stato lasciato aperto. Sulla pellicola, alla fine dell’esposizione, sono rimasti tutti i dettagli di quasi tre anni. C’è una montagna di tempo in questo disco, come se fosse invecchiato (e bene), in attesa di uscire dalla botte.
Che metafore così, al Vedder visto a Barolo, sicuro piacciono.

Il disco apre con Who Ever Said, ed inizia come un concerto live: musica in dissolvenza, pausa, poi entrano loro. Intro, chitarre, batteria, riffone goloso, Eddie.
Qui troviamo la presentazione, il programma dell’opera: un socratico sapere di non sapere, una stoica sospensione del giudizio. Lo dico qui, in partenza: questo è l’album più “filosofico” dei Pearl Jam, in cui la benevolenza di fondo verso i temi trattati è programmatica, è voluta. È lo spirito della scoperta, dell’analisi, che per la prima volta soffoca la rabbia.

Sarà la terza traccia che vi ritroverete a canticchiare al semaforo (o forse più facilmente in cucina, di questi tempi), la prima del nuovo album. Legata alla successiva Superblood Wolfmoon abbiamo un binomio che in un qualunque concerto avrebbe già fatto ballare mezzo stadio. Qui passiamo a un garage rock senza impegno, con tanto di ombrellino e olivina, mentre le parole, come sempre, producono frizione e attrito: qui c’è l’umana condizione, addirittura un platonico mito della caverna, fino alla citazione letterale del “I don’t know anything”. Insomma, tutto pronto per Dance of the Clairvoyants, terza traccia e testo scritto direttamente dalla Sibilla Cumana, solita scrivere i vaticini su foglie di palma lasciate al vento, con conseguente caos eolico-semantico, ma di sicuro effetto scenico. È canzone simbolo di quest’album, perché è sia chiave di lettura sia chiave di volta. Ma è anche canzone doppia, che ha una cicatrice tra prima e seconda parte, platonica, di nuovo, soprattutto nella coda, laddove solo nell’unione tra volontà femminile e maschile si compie la perfezione.

 

 

Dopo un volo così iniziatico e criptico ci pensa Mike McCready a riportarci su lidi conosciuti, con un assolo che vale l’intera Quick Escape, prima canzone veramente politica di Gigaton, in cui Trump viene evocato come icona del male incarnato, tangibile. Forse è l’unica traccia un cui il gruppo si permette della rabbia autentica.
Alright è la calma seguente. È onirica ed elettronica, ma anche famigliare, ha echi lontani di sonorità già usate dalla band.
Seven O’Clock è un sogno di un mondo migliore. Una chiamata alle nostre coscienze perché si dèstino, c’è “much to be done”, ci dicono. È per ritmo, tonalità e tema un pezzo springsteeniano, tanto vicino a quella poetica che non mi risulterebbe strano sentire questa canzone eseguita in un fienile, con gli archi e con un tempo ancora più dilatato. Del resto in questi ultimi tre anni Eddie è andato a Broadway ad ammirare zio Bruce e ai nostri non sarà sfuggito il concerto a casa Springsteen.
Never Destination e Take the Long Way sono due umanissime distrazioni, dopo il peso dei primi brani, una meravigliosa doppietta, che fa da eco al primo binomio posto a inizio album.

Buckle Up è la quota Gossard di Gigaton. C’è sempre il suo momento, solo suo, in cui il gruppo lascia la lavagna vuota e il gesso in mano al nostro. Se sei un genitore, questo pezzo ti lascerà sul viso un sorriso da ebete e in testa la consapevolezza che l’amore è un circolo. Almeno in famiglia. È una carezza, indulgente, materna, è un lenzuolo rimboccato e profumo di casa. E’ una canzone sul ricordo, sul valore del ricordo e sulla memoria dell’amore.

Se la pausa del vecchio Stone non vi avesse ancora stupito a sufficienza, ci pensa Vedder nella traccia successiva, Comes Then Goes, in cui la potenza sonora cede il passo a voce e chitarra acustica. Premessa: ringrazio sentitamente i Pearl Jam per non aver ceduto alla tentazione di abusare di steel guitar. Questo brano la chiama a gran voce e so che a casa sua un benharper di periferia ha già rotto una Budweiser per provarci.

Pezzo dedicato a Cornell. Solita frizione tra melodia e testo che risulta essere, strofa dopo strofa, una esplorazione quasi empirica del sentimento del dolore. È una sequenza di immagini che hanno il lutto come tema centrale, ma termina privo di giudizio, è una declinazione, o semplicemente lo esorcizza cantandolo. Che per una band di Seattle, nata negli anni novanta, è un signor passo avanti, fidatevi.

Ma i ragazzi si stanno perdendo. C’era un filo all’inizio, un’intenzione, un messaggio. Lo ritroviamo in Retrograde. Fatte le nostre considerazioni, esplorato il mondo e osservata la situazione è il momento di agire. È un climax, che termina con un’immagine quasi biblica: la folla, destata, ha il rumore del tuono. Gli strumenti in coda diventano un’onda, il pezzo di gonfia, diventa monumentale, quasi orchestrale.

E poi arriva lei.

Mi aveva lasciato stordito a Firenze nel 2019. La aspettavo in Gigaton per tenerla con me e poterla consumare. Ma qui, come capita nei grandi dischi, la grande canzone diventa qualcosa di ancora più grande se arriva dopo undici brani. L’ultima canzone, dopo undici album. E poi saranno ascolti infiniti. E poi sarà attesa per i live.
Questo ultimo pezzo, fatto di organo a pompa, voce, un contrappunto, un Cameron ispirato e assenza di chitarre, sembra ancora di più una preghiera laica. Un’invocazione che chiude le tematiche del disco: il futuro, individuale e collettivo, i cambiamenti climatici, il risveglio delle coscienze, l’essere umano nella sua consapevole imperfezione.

Chiude l’album più lungo della storia della band.

Ascoltarlo durante una pandemia globale, è detonante.

Ha catturato lo spirito del tempo, come se il disco fosse un manuale di istruzioni per momenti bui, che, dicono i chiaroveggenti, sono inevitabili.

E allora “save your predictions and burn your assumptions”. Tabula rasa, spazio all’umanesimo dei Pearl Jam. 

 

Pearl Jam

Gigaton

Monkeywrench Records

 

Andrea Riscossa

AVEC “Homesick” (Earcandy Recordings, 2020)

AVEC è una cantante pop-folk austriaca. Giovanissima quanto talentosa, a 22 anni ha già calcato i palchi più importanti d’Europa, affiancando artisti come Sting, Zucchero e The Tallest Man on Earth. All’attivo ha due album, What if we never forget e Heaven/Hell ed è prevista a breve l’uscita del terzo.

Homesick, ovvero nostalgica/o di casa, è il titolo. A pensarci fa quasi sorridere, in un momento storico in cui la maggior parte della popolazione italiana si trova in quarantena.

Dodici tracce “scritte col cuore e senza pretese” come afferma l’artista, dallo stile pop-folk, mischiato ad elementi ambient coerenti fra loro che creano un paesaggio sonoro malinconico e rassicurante.

“Do you wanna know what’s wrong with me? It’s you that don’t give a shit about me now” 

La voce rotta di AVEC accompagna in sottofondo le prime note dell’intro di Runaway, il nuovo singolo appena uscito. L’artista si mette a nudo, instaurando fin dalla prima battuta una forte empatia con l’ascoltatore che, rapito dalla curiosità, non può fare a meno di entrare a piedi scalzi all’interno del brano.

Il ritornello: “I don’t mind staying up all night, runaway”entra subito in testa. È un abbraccio a distanza. A parer mio, Runaway è il brano più bello dell’intero album.

I’ll come back, Dance Solo e Way Out sono brani complementari e peculiari sia nel mood che nei contenuti. Si parla di una relazione finita e delle conseguenti ripercussioni: “Even if we’re worlds apart. You know it breaks my heart” canta AVEC in I’ll come back. 

Il singolo che ha anticipato l’uscita dell’album è Home, il brano più completo e variegato dal punto di vista strutturale. Il tema ,ripreso anche nel brano Homesick for a day, è quello della nostalgia di casa. O di qualcuno che la rappresenta. AVEC esibisce una magistrale consapevolezza nel creare ritornelli dalle melodie facilmente riconoscibili e persuasive.

Fire e Mona sarebbero la colonna sonora perfetta per una fuga in mezzo alla natura. Riesci a vedere un falò e sentire l’odore di marshmallows sul fuoco. 

Rispetto ad Heaven/Hell, l’album precedente, si avverte un cambiamento nella scelta delle sonorità, in quest’ultimo caso più calde ed organiche. Non sorprende, quindi, che l’album sia stato registrato in una vecchia casa nel mezzo della campagna austriaca in collaborazione con un amico di lunga data. Tutto di quest’album richiama l’atmosfera intima di un luogo ameno.

In Heavy on my mind, l’artista si rivolge a noi paranoici, agli iper-sensibili che sanno esternare le proprie fragilità ed insicurezze, perché in fondo “chi è davvero normale?”

È da ammirare la capacità di AVEC nel comunicare le sue debolezze più recondite, offrendo al contempo un rifugio dove ripararsi agli ascoltatori.

Il brano, inoltre, spezza un cortocircuito di tracce troppo simili, tanto da risultare quasi ridondanti. Personalmente, le sessioni in studio di Home e Under Water, brano appartenente all’album precedente, risultano nel complesso superflue.

In conclusione, Homesick si configura come un album accogliente e rassicurante. A tratti potrebbe risultare ridondante per la sua estrema coerenza e limitata versatilità. Lo stile resta credibile ed organico, dalla prima all’ultima traccia, restituendo accattivanti successioni ritmiche.

AVEC riesce a trasmettere calore e tenerezza, mantenendo un sound incalzante tale da non esaurirsi in una mera cantilena romantica. Nel complesso, l’album restituisce un racconto introspettivo e totalizzante per chi ha il coraggio di percepire la vita attraverso il filtro della sensibilità.

 

AVEC

Homesick

Earcandy Recordings

 

Giulia Illari

Tommaso Mantelli “9 Useless Tunes” (Shyrec/Lesder, 2020)

La settimana scorsa, credo fosse lunedì, ho rivisto Sound City, un documentario diretto da Dave Grohl incentrato su di uno studio di registrazione, per appunto il Sound City Studios di Los Angeles, dove Grohl con altri due musicisti dell’epoca, un certo Krist Novoselic e tale Kurt Cobain, nel 1991 registrò un album intitolato Nevermind. 

Insomma nell’ora e mezza abbondante di durata viene raccontata la storia di questo celeberrimo studio di registrazione, dalla fine degli anni sessanta fino praticamente ai giorni nostri, attraverso immagini e reperti d’epoca e testimonianze dirette di diversi mostri sacri della storia del rock, che non ho intenzioni di citare nella maniera più assoluta perché sono davvero molti. E perché magari così vi vien voglia di vederlo (Dave, avanzo da bere per la marchetta).

L’aspetto più interessante tra i molti è a mio avviso il passaggio che lo studio, ed in particolare il vero protagonista del film, il Neve 8028 (un mixer rigorosamente analogico, prodotto in Germania e fiore all’occhiello degli studi di registrazione – quelli che se lo potevano permettere – del tempo), hanno vissuto nella nascita, sviluppo e diffusione del digitale e la contestuale soppressione, o quantomeno ridimensionamento, dell’analogico.

Un discorso così impostato parrebbe sottendere ovviamente la tesi secondo la quale analogico è bello e digitale è brutto, ma invece non è così, la questione è più affettiva quasi, più di cuore, in realtà quasi nessuno dei musicisti che compaiono rinnegano con forza l’avvento dei PC e della tecnologia, anzi, quasi tutti ne hanno fruito consapevolmente, ma in tutti c’è sempre forte questa necessità quasi ancestrale, primitiva, di tornare al centro, al nucleo, rimuovendo tutto ciò che potrebbe risultare posticcio.

Ora, quando qualche giorno fa ho iniziato ad ascoltare 9 Useless Tunes, la mente non ha potuto non finire lì, a Sound City, non ho potuto non fare questo parallelismo, davvero, troppi punti in comune, troppe fortuite (o meno) coincidenze.

L’autore del disco in questione, Tommaso Mantelli, gestisce per l’appunto uno studio (il Lesder nda), è produttore e ovviamente musicista e, per l’occasione, ha deciso di liberarsi di qualsivoglia orpello e diavoleria, e rinchiudersi nel suo studio da solo, con un microfono ed una chitarra. Come un moderno Thoreau.

È curioso che un’idea, un progetto come questo esca proprio in questi giorni di isolamento e per molti anche di solitudine, ma ciò che ne scaturisce è un disco che trasuda passione e amore per la musica e per la chitarra, dove trova spazio un’ovvia ricerca interiore ed un grado di intimità dove tutti possiamo ritrovarci.

Gli spazi in cui si muove Mantelli sono quelli del cantautorato rock in chiave acustica (ci si sentono echi di Jeff Buckley, anche se di primo acchito la mente è corsa all’Unplugged degli Archive e alla voce di Craig Walker), come nel blues d’apertura Just Around the Bend, o nella fatalmente attuale Bitter Sweet Doomsday.

I Will Learn è un’intima e sussurrata carezza, in questi tempi incerti, mentre Which Game è continuo rincorrersi tra chitarra e voce, in un serrato saliscendi.

È un disco senza trucchi e senza effetti speciali, e nonostante ciò non annoia e non risulta ripetitivo, anzi, il finale di It Can’t Be That Bad è un tocco di magia pura e autentica, che ci porta alla conclusiva I Smile, nella quale si tirano idealmente le fila del discorso, con quel “I’m proud to say I’m happy for what I’ve done, I smile because I’m not afraid anymore, I smile for all the time I’ve spent on this world”.

Nove brani che risultano tutt’altro che inutili, per riprendere il titolo del disco, ma che ci riportano ad una dimensione musicale della quale siamo sempre meno abituati e alla quale fa bene, alle orecchie e allo spirito, di tanto in tanto tornare.

 

Tommaso Mantelli

9 Useless Tunes

Shyrec | Lesder

 

Alberto Adustini

DUA LIPA: la data italiana è riprogrammata il 10 febbraio 2021 al Mediolanum Forum di Milano. Il nuovo album “Future Nostalgia” esce questo venerdì

DUA LIPA 
‘FUTURE NOSTALGIA’
IL NUOVO ALBUM ESCE
VENERDÌ 27 MARZO 2020

IL TOUR È SPOSTATO ALL’ANNO PROSSIMO
LA DATA IN ITALIA È RIPROGRAMMATA
IL 10 FEBBRAIO 2021
A MILANO (MEDIOLANUM FORUM)

 

L’attesissimo nuovo album di Dua Lipa, Future Nostalgia, ha ora una nuova data di uscita: venerdì 27 marzo. L’album contiene la hit in testa alle classifiche di tutto il mondo “Don’t Start Now” ed il nuovo singolo “Physical”. Il disco sarà disponibile per il download su tutte le piattaforme digitali e in diversi formati fisici: vinile pink neon, CD, picture disc, gold cassette e deluxe box set.  Tutti acquistabili qui: https://dualipa.co/official

Ho alcune buone notizie per voi – Ho deciso di pubblicare questo venerdì 27 marzo il mio nuovo disco e non vedo l’ora di condividerlo con voi” – ha rivelato Dua. “Ora sono molto più sicura di me stessa rispetto al passato, non ho più paura di buttarmi, sperimentare e provare nuove cose” – ha raccontato la popstar.
L’artista ha anche ricordato il preciso momento in cui ha deciso di intraprendere questa nuova direzione musicale: “ero appena stata ospite ad un programma radiofonico a Las Vegas e mentre camminavo, schiarendomi le idee, ascoltavo la musica degli OutKast e No Doubt e ho pensato al motivo per cui continuavo ad amare questi brani, che non sembravano invecchiare affatto. Volevo incorporare questi sentimenti e suoni nostalgici che hanno caratterizzato la mia infanzia e il mio background musicale in un suono nuovo e moderno.”

Inoltre, il concerto italiano del 30 aprile 2020 è ora riprogrammato il 10 febbraio 2021 al Mediolanum Forum di Milano.
I biglietti precedentemente acquistati resteranno validi per la nuova data.

Dua ha raccontato che posticiperà il suo nuovo tour mondiale: “Sfortunatamente vista la situazione attuale nel mondo, la priorità è tutelare la salute di ciascuno e abbiamo dovuto posticipare le date inglesi ed europee del mio Future Nostalgia Tour. I biglietti precedentemente acquistati rimarranno validi per le nuove date. Annuncerò presto anche nuovi show in tutto il mondo. Voglio esibirmi in tantissimi Paesi!”.

Tracklist:

1. Future Nostalgia
2. Don’t Start Now
3. Cool
4. Physical
5. Levitating
6. Pretty Please
7. Hallucinate
8. Love Again
9. Break My Heart
10. Good In Bed
11. Boys Will Be Boys

Scarica le foto ad uso stampa qui: https://bit.ly/2JbuUT3

La fine del 2019 ha visto Dua esibirsi sulle note di “Don’t Start Now” agli MTV EMA, ARIAs, AMA’s e all’ultimo Festival di Sanremo. “Don’t Start Now” è stato certificato disco Platino in Italia.
Dua Lipa ha venduto 4 milioni di copie con il suo album di debutto nel 2015 e oltre 60 milioni di dischi con i suoi singoli (inclusi i 500 milioni di stream di “Don’t Start Now”). Il suo album di debutto è stato l’album più ascoltato su Spotify per un’artista femminile solista. Dua è stata inoltre l’artista femminile solista più giovane ad accumulare oltre 1 miliardo di visualizzazioni su YouTube.

VIOLENT SOHO • Nuovo singolo + video “PICK IT UP AGAIN”

IL NUOVO ALBUM EVERYTHING IS A-OK FUORI IL 3 APRILE 2020 VIA PURE NOISE RECORDS

 

 

La rock band australiana, Violent Soho, è in anteprima esclusiva con il loro nuovo singolo e video, Pick It Up Again, tramite Brooklyn Vegan. Guarda qui.

Nel video, il cantante / chitarrista Luke Boerdam condivide “Abbiamo avuto l’idea di scherzare e ogni membro della band ha davvero ” bussato alle porte “, quindi abbiamo pensato che sarebbe stato divertente portare il nostro disco porta a porta. Sembra che ci sia una grande disconnessione con il modo in cui interagiamo con la musica in questi giorni, quindi è stato abbastanza bello suonare nelle case di alcune persone. Sono stato sorpreso di non avere più porte sbattute in faccia! Probabilmente il video più divertente che abbiamo mai realizzato. ”

Questo segue le uscite dei singoli A-OK, Vacation Forever e Lying On The Floor, tutti e quattro i quali escono dal prossimo quinto album in studio della band, Everything Is A-OK, in uscita il 3 aprile 2020 tramite la loro nuova etichetta, Pure Noise Records. L’album è disponibile per il preordine fisico qui.

 

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I Violent Soho sono Luke Boerdam (voce / chitarra), James Tidswell (chitarra), Luke Henery (basso) e Michael Richards (batteria).

Dopo i primi due dischi (We Don’t Belong Here del 2008; omonimo del 2010), i Violent Soho sono tornati con Hungry Ghost del 2013 in una grandinata di riff e “HELL F * CK YEAH” scarabocchiato su braccia, scrivanie e pareti del bagno in tutto il mondo. Il WACO del 2016, nel frattempo – nonostante un debutto in classifica al n. 1, premi ARIA, headliner dei festival e tour sold-out per le più grandi folle della loro carriera – è arrivato in mezzo a sconvolgimenti personali per il batterista Michael Richards, il bassista Luke Henery e il chitarrista James Tidswell.

Ma con Everything Is A-OK, i figli preferiti di Mansfield hanno tracciato una linea metaforica nella sabbia: cinque album nella loro carriera non volevano seguire un libro di regole scritto da altre persone. Questo è tutto ciò che è A-OK: una dichiarazione che QUESTO è chi sono i Violent Soho come band. Come musicisti. Come compagni.

“È onesto”, spiega Boerdam. “Non pretende di essere qualcosa che non è: è apolitico, più lento, cinico e cerca di connettersi con le persone attraverso un’esperienza condivisa nel sottolineare i fallimenti della società e la merda personale che ne consegue.”

A-OK si riflette con una dura riflessione sul modo in cui il mondo è diventato ossessionato dalla creazione di simulacri sui social media in cui ognuno sta ripetendo il proprio “marchio” e in che modo la connessione è fugace e superficiale. Riflette sulle idee di agenzia, emozione e su come vengono vendute per pubblicizzare chi vogliamo che la gente pensi che siamo, non chi siamo realmente. Il produttore Greg Wales (You Am I, Sandpit, tripla J’s Like A Version) ha catturato l’essenza di questo nello studio del New South Wales, The Grove Studios.

Tutto è A-OK uscirà il 3 aprile 2020 tramite Pure Noise Records. Per ulteriori informazioni, visitare: http://www.violentsoho.com/.

 

Everything Is A-OK Tracklisting:

01. Sleep Year
02. Vacation Forever
03. Pick It Up Again
04. Canada
05. Shelf Life
06. Slow Down Sonic
07. Lying On The Floor
08. Easy
09. Pity Jar
10. A-OK