“Her powerful, operatic voice… steals the show”
(Vogue)
“Ms. Naïm has gone on to a prestigious artistic career”
(New York Times )
“Anchored in the personal… The songs are sharp, but still playful and poppy”
(ELLE Magazine)
“Yael Naïm is pretty much the textbook definition of a world citizen”
(Consequence of Sound)
La cantautrice, polistrumentista e produttrice franco-israeliana Yael Naïm pubblica oggi, 20 marzo, il nuovo album NightSongs, via Tôt ou tard e distribuito da Believe.
NightSongs, un album estremamente intimo, libero, quasi etereo, include i singoli ‘How Will I Know’, ‘Shine‘ e ‘She’, a cui si aggiunge oggi il video della live performance di ‘Daddy‘, visibile a questo link.
“A lot of the songs are structured so that they start so we are close to the ear of the listener, almost as if we are whispering things in the dark. Then, suddenly there’s an explosion of music,” spiega Yael. “It’s like moving from pure emotions into the unconscious or a dream-like state where you can fly away somewhere.”.
La perdita del padre Daniel e la nascita del secondo genito sono i temi principali dell’album NightSongs.
Questi due importanti cambiamenti nella sua vita l’hanno condotta verso un nuovo percorso allla scoperta di sè stessa, che ha profondamente modificato il modo di scrivere della cantautrice. I brani, certamente più oscuri e profondi rispetto ai suoi esordi, sono stati interamente scritti, arrangiati e prodotti da Yael. Il risultato è l’album più sorprendente, indifeso e coinvolgente della sua intera carriera.
Dopo il grandissimo successo di “New Soul“, volatoin cima alle classifiche di Billboard dopo che Steve Jobs lo ha scelto per il lancio del MacBook Air, facendola diventare la prima artista israeliana ad arrivare nella Top Ten americana, e dopo aver vinto diversi premi e riconoscimenti (tra cui Best Female Pop Singer nel 2016) ai Victoires De La Musique – il corrispettivo francese dei Grammy Awards – Yael ha iniziato a scrivere questo album che ha rappresentato un viaggio alla scoperta di sè.
“Writing at night, when no one sees you, you can do things that aren’t allowed. I had what I called ‘night feelings’ and songs that I eventually called NightSongs” ha detto spiegando la genesi del disco. “The new album is certainly darker too. But then, I love darkness. Some light can only be heard in the darkness. Some music can only be heard in silence.”
TRACKLIST
1) Daddy – 2)She – 3) How Will I Know – 4) The Sun – 5) Shine – 6) Miettes – 7) Back – 8) My Sweetheart – 9) Familiar – 10) Des trous – 11) Watching You – 12) A Bit Of
In ottemperanza ai provvedimenti emanati su scala mondiale per contrastare la diffusione del COVID-19, l’Echo Echo Tour di IAMX si sposta all’autunno 2020. Per annunciarlo, IAMX ha voluto dedicare ai suoi fan un accorato messaggio:
Hello lovers,
Obviously it is with a heavy heart that the IAMX acoustic European tour has been rescheduled due to the world as we know it collapsing.
But I’m delighted to announce our management and promoters have worked absolute magic to change all the dates to September – November. It’s done.
This means once the chaos blows over I get a chance to see your beautiful faces and hear your beautiful screams once again.
It’s medicine to me and I will miss it over the next months.
In the in-between please stay safe be vigilant but be calm and I can’t wait to be there with you all on the other side.
– CCX
L’unica data italiana non si terrà più giovedì 23 aprile alla Santeria Toscana 31, ma giovedì 22 ottobre allo Spazio Teatro 89, sempre a Milano.
I biglietti già emessi sono validi per accedere al concerto; quelli nuovi sono già disponibili sui circuiti di vendita autorizzati Ticketone e Vivaticket.
I BUSH, la rock band inglese multi-platino, svela oggi il video della traccia “Flowers on a grave“, contenuta nell’album THE KINGDOM, in uscita quest’estate viaBMG.
Il video, diretto da Jesse Davey, è un elettrizzante piano sequenza, visibile a questo link.
Il singolo, co-prodotto da Erik Ron e lo stesso Rossdale, è stato preceduto dall’inedito “Bullet Holes”, rilasciato a maggio del 2019, singolo contenuto nella colonna sonora del film John Wick 3 – Parabellum, il terzo capitolo della saga action con Keanu Reeves. Il brano, prodotto da Tyler Bates (John Wick 1 &2, Guardians of the Galaxy, Deadpool 2) è stato accompagnato dalla pubblicazione del video, diretto da Jesse Davey, visibile a questo link: https://youtu.be/O33FbbArWjU
La band sarà in tour in Italia con RADAR CONCERTI per presentare il nuovo disco dal vivo per due appuntamenti da non perdere: il 20 giugno ai Magazzini Generali di Milano e il21 giugno all’Hall di Padova.
Le prevendite sono disponibili solo ed esclusivamente su DICE a questo link: Milano: https://link.dice.fm/iy0gZg1Mw4
Padova: https://link.dice.fm/0PqK8KnPw4
Pubblicato nel 1994 e contenente i successi “Glycerine,” “Comedown” and “Machinehead,” l’album dei BUSHSixteen Stone è stato 6 volte disco di platino ed è stato inserito da Rolling Stone nella lista “1994: The 40 Best Records From Mainstream Alternative’s Greatest Year”.
ABOUT BUSH
With a discography that includes such monumental rock albums as 1994’s 6x platinum-selling SIXTEEN STONE, ’96’s triple-platinum-selling RAZORBLADE SUITCASE and ’99’s platinum-selling THE SCIENCE OF THINGS, BUSH has sold close to 20 million records in the U.S. and Canada alone. They’ve also compiled an amazing string of 18 consecutive Top 40 hit singles on the Modern Rock and Mainstream Rock charts. Eleven of those hit the Top 5, six of which shot to No. 1: “Comedown,” “Glycerine,” “Machinehead,” “Swallowed,” “The Chemicals Between Us” and “The Sound of Winter.” The latter made rock radio history as the first self-released song ever to hit No. 1 at Alternative Radio, where it spent 6 weeks perched atop the chart’s top spot. The song appeared on 2011’s “comeback album,” THE SEA OF MEMORIES, which was BUSH’s first studio album in ten years. That year Billboard ran a story about the band under the headline, “Like They Never Left” – a fitting title as the multi-platinum quartet (vocalist/songwriter/guitarist Gavin Rossdale, guitarist Chris Traynor, drummer Robin Goodridge and bassist Corey Britz) promptly picked up where they left off. They’ve continued to dominate rock radio and play sold-out shows to audiences around the world ever since. The band is currently working on the follow-up to 2017’s Black And White Rainbows, which People magazine hailed as “a triumphant return.”
I concept album sono diventati sempre più rari negli ultimi anni. Un disco con una trama continua è già di suo un’affermazione. Non è solo una serie di hit, c’è qualcosa in più su cui discutere, e Mavi Phoenix ha tanto da dire.
“Mavi remains Mavi because Mavi has always been Mavi” afferma un commento su YouTube comparso sotto il video di “Bullet In My Heart” dello scorso luglio, nel quale l’artista austriaco ha parlato della sua disforia di genere per la prima volta. È stato il primo singolo ad anticipare un debut album basato sul concept artistico della ricerca di sè stesso da parte di Mavi Phoenix.
“I’m a trans guy. I go by he/him now. I’m not on testosteron (yet). My artist name stays Mavi Phoenix, as Mavi is both a girls and boys name (which was important to me when i chose it years ago). I lost over 500 followers after coming out as trans and I couldn’t care less. it’s 2020 and it’s all about that new energy I got a fucking album coming out 😊😊😊“ Mavi Phoenix
Boys Toys non è solo il titolo dell’album e del secondo singolo a essere pubblicato, è anche il nome di una persona fanciullesca che accompagna Mavi attraverso le dodici canzoni. Boys Toys è un personaggio creato spontaneamente in studio con una voce alienata, che ci rivela i suoi “Scary Thoughts” e che aspetta con ansia il “Weekend”, o che si sente meglio con l’esperienza di solidarietà che sente intonando insieme un inno (“Who I Am”).
Queste sono le parole di chi cerca una logica nell’opera dell’artista contemporaneo, e anche di chi rimanendone spiazzato rimpiange i bei tempi dell’arte contemplativa, quella “vera”.
Perché qua si tratta solo di una banana decontestualizzata e c’è sempre qualcuno che ripete con sdegno “lo so fare anch’io”.
Un attimo, ma di quale banana sto parlando esattamente?
Beh, liberi di scegliere il soggetto, visto che nonostante siano passati più di 50 anni il dibattito si ripropone sempre uguale a se stesso.
Lo scorso dicembre Maurizio Cattelan ha esposto Comedian su una parete dello stand di Emmanuel Perrotin ad Art Basel Miami Beach, ovvero un’installazione costituita da una banana incollata alla parete con del nastro adesivo.
Nel marzo del 1967 TheVelvet Underground debuttarono con The Velvet Underground & Nico che sarà ricordato come il “banana album” proprio per la sua iconica cover realizzata da Andy Warhol.
L’album non fu un gran successo al momento dell’uscita, ma si guadagnò un posto nella storia col tempo, e i Velvet Underground furono d’ispirazione per la nascita di generi come il punk, l’alternative rock, la new wave, il noise rock, e molti altri ancora.
Testi irriverenti, tematiche scandalose per l’epoca e le sonorità ben lontane da ciò che si trovava in cima alle classifiche: uno spirito provocatorio che ben si concilia con la cover creata da Warhol, che nelle prime copie in edizione limitata presentava una banana adesiva che poteva essere sbucciata veramente, come invita a fare la scritta “peel slowly and see”, rivelando una banana rosa poco equivocabile.
Purtroppo come spesso succede nei progetti più ambiziosi i costi erano eccessivi, per cui solo i più fortunati possono vantarsi di poter veramente interagire con l’artwork.
È curioso come il re della Pop Art abbia prodotto una band underground, e proprio come con qualsiasi altra sua opera d’arte si sia limitato a metterci una firma sopra, intervenendo il mimino indispensabile: è proprio grazie a questa libertà che il gruppo poté esprimersi appieno, e godere della visibilità data dal proprio mecenate.
Dunque abbiamo un frutto che viaggia nella storia dell’arte, diventa un pezzo d’immaginario collettivo, icona pop, rimando palese ad un tabù e quindi trait d’union fra cultura bassa e alta: un significante estremamente ricco di significati insomma, rivisitato nel corso della storia dell’arte da Botero e De Chirico, per citarne alcuni, e come abbiamo visto il mese scorso particolare folle aggiunto all’illustrazione di Grandville nella copertina di Innuendo dei Queen.
Warhol e Cattelan hanno in comune alcune caratteristiche: entrambi giocano con gli strumenti forniti dai mass media, e sono perfettamente consapevoli della percezione che ne hanno le persone.
Entrambi icone pop che in quanto tali mettono in crisi i concetti stereotipati di arte e artista, proponendo al mercato dell’arte opere che chiunque può trovare al supermercato, e fondendo insieme l’idea di merce con quella di opera.
Entrambi considerati da molti quanto di più lontano e superficiale ci possa essere nel mondo dell’arte, ma entrambi specchio della contemporaneità ed esponenti di un nichilismo totalizzante.
Opere d’arte, esseri viventi, oggetti d’uso comune, animali in tassidermia: tutti simulacri senza referente, tutti allo stesso livello, tutti sospesi nel tempo grazie all’Arte.
È difficile guardarsi allo specchio ed essere sinceri con se stessi, ed è proprio questo che fa la Pop Art: ci descrive senza mezzi termini o censure.
Ma, chi più chi meno, cerchiamo di proteggerci da questo ritratto troppo schietto da digerire, troppo vuoto e senza un fine ultimo. La dismorfofobia è una brutta bestia.
Molto più semplice crearci sopra dei meme, ironizzare sull’assurdità dell’intera vicenda, fuggire dal disagio latente che ci provoca per poi accendere la TV o qualsiasi social, e farci tutti insieme una bella risata: qualcuno su cui ridere si trova sempre, ci fa sentire migliori di quanto sappiamo di non essere realmente.
O come ha fatto l’artista David Datuna, diventato un “meme nel meme”, che ha dato sfogo al desiderio di molti nel mangiare la banana da 120.000 dollari di Cattelan in quella che ha definito una performance artistica, Hungry Artist.
D’altronde si riduce sempre ad una dimostrazione di potere, no?
LA RACCOLTA FONDI “CORONAVIRUS: LA MUSICA DIFENDE LO SPALLANZANI”
LANCIATA A FAVORE DELL’ISTITUTO NAZIONALE MALATTIE INFETTIVE LAZZARO SPALLANZANI DI ROMA, IN SUPPORTO ALLA SUA BATTAGLIA CONTRO IL COVID-19
In questo periodo di profonda angoscia ed incertezza, l’umanità è la cosa più importante che abbiamo. Per questo Hellfire Booking Agency si schiera a sostegno dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive «Lazzaro Spallanzani», dei suoi collaboratori, tecnici, medici, infermieri, che stanno lavorando ininterrottamente, sacrificio dopo sacrificio, per proteggere e curare noi e i nostri cari, scrivendo in prima persona il futuro dell’intera nazione.
Rocker, metallari, punk, rapper: sosteniamo uno degli istituti per malattie infettive più importanti del Paese nella sua battaglia contro il virus.
Con ogni nostra donazione, aiuteremo lo Spallanzani ad acquistare apparecchiature cliniche diagnostiche necessarie per agevolare le cure dei pazienti e strumenti essenziali per gli operatori, facilitando il loro lavoro e migliorando la qualità di vita d’innumerevoli malati, così come aiuteremo a disinfettare gli ambienti e prevenire i contagi, facilitare trasporti e smaltimenti e, ancora più chiave, riqualificare strutture e protocolli per aiutare quanti più pazienti possibile.
Spettatori, musicisti, fotografi, promoter, tecnici, distributori, rider, agenti: è un momento difficile per tutti noi, ma non perdiamoci d’animo.
Gulliver è il nome che rappresenta il nuovo percorso artistico di un nome già noto ai più: Giò Sada. L’artista ha deciso di presentarsi con una inedita veste sonora, dall’immaginario preciso e ampio, convogliando il tutto nel suo nuovo album Terranova, pubblicato il 28 febbraio scorso.
Gulliver ha deciso di ripartire da zero, con coraggio e determinazione, facendo scelte estremamente personali e libere da condizionamenti del mercato discografico attuale. Questo lavoro rappresenta un nuovo inizio per il cantautore pugliese che vuole riportare la musica all’esperienza dell’ascolto svincolandola dal legame con l’immagine, l’esteriorità, dal rapporto col pubblico attraverso il “personaggio” e non il contenuto. L’obiettivo è ritornare a una dimensione più autentica, come esperienza di condivisione.
È effettivamente un cambio di rotta, quello fatto da Giò Sada, l’anima rock a cui eravamo stati abituati, infatti, ha lasciato spazio a toni più pacati, dolci, il cui filo comune è la volontà di trovare e dare pace.
Per l’uscita del suo nuovo lavoro non abbiamo potuto esimerci dal fargli qualche domanda, dal chiedere di raccontarci che percorso lo abbia portato a questi nuovi porti.
Ecco cosa ci ha raccontato.
Raccontaci il tuo nuovo album Terranova, focalizzandoti su quelle che secondo te sono le sue “pietre angolari”.
Avevo in mente come sottotitolo per l’album Elogio al naufragio, perché attraverso un naufragio, spesso conseguenza di una scelta azzardata hai la possibilità (se non prevale il solito piangersi addosso) di spingerti oltre quello che la tua immaginazione può concepire e di avventurarti inevitabilmente verso ciò che non conosci e poi il rifiuto di naufragare va a braccetto con il rifiuto di mettersi in gioco che è tutto il contrario di quello che si dovrebbe fare per poter poi raccontare una storia. La seconda pietra è il ritrovarsi, ossia ritrovare la motivazione alla base del viaggio intrapreso, il naufragio passeggero si sgretola e diventa materiale per costruire la propria strada. La terza è continuare a credere ciecamente alla possibilità di poterci immaginare un avvenire migliore della prospettiva decadente che non riusciamo ad abbandonare.
Come è cambiato il tuo percorso artistico in questi ultimi anni?
Sono cambiate principalmente le domande che mi faccio, sono cambiati i miei interessi sonori, la ricerca si è spostata da un approccio musicale più istintivo ad uno più attento ai particolari, ho cominciato a dare fiducia alla fragilità e alla delicatezza che fanno parte di me come la capacità di gridare. Avevo ed ho ancora bisogno di sentire e dare pace.
Parlando di nomi, come mai la scelta di Gulliver come pseudonimo?
Gulliver è stato scelto perché in me genera dei ricordi esotici, legati alle immagini che accompagnavano i racconti che ho letto da bambino, allegoricamente avendo attraversato mondi sonori molto distanti tra di loro sia musicalmente che a livello organizzativo mi sono sentito come lui quando passo dopo passo si addentra in terre sconosciute e ci resta fino a quando non sente il bisogno di ripartire.
Se dovessi trovare 3 canzoni, italiane e non, per descriverti, quali sarebbero?
Dunque, direi: Bandiera Bianca di Franco Battiato; Conquest of Paradise di Vangelis; E se ci diranno di Luigi Tenco.
Ci sono stati degli ascolti che ti hanno particolarmente influenzato nella scrittura del disco?
Dato che non sono solo in questo progetto ma c’è anche Marco, che è colui che ha curato tutta la produzione del disco, diciamo che c’è stato un incrocio di gusti abbiamo cercato una chiave tra i nostri ascolti e continueremo a farlo. Ci ha influenzato il mondo delle colonne sonore, del nuovo e del vecchio utilizzo dell’elettronica e il buon cantautorato moderno e passato.
Quale è stato il processo creativo e di produzione che ti ha portato a questo album? Svelaci qualche aneddoto dallo studio!
Il processo creativo è partito nel 2017 in seguito all’arrivo di canzoni che, come ho detto all’inizio, sono volute venire allo scoperto attraverso di me a distanza anche di mesi l’una dall’altra, ognuna di queste in seguito a un evento specifico ed ho usato l’attesa e la fiducia per raccoglierle. Il lavoro in studio è stato invece costante e attento, a tratti estenuante. Abbiamo provato vari vestiti per ognuno dei brani ed è stato centrale in questo anche Pasquale Pezzillo, fondatore dei JoyCut, produttore nel disco dell’ultima traccia.
Mi ha colpito molto la copertina, l’artwork ha un significato particolare?
Volevo che la copertina fosse molto suggestiva, che spingesse ognuno a credere che quella sagoma in controluce potesse in qualche modo rappresentarli. Una figura umana che si eleva dalle macerie di un mondo in lontananza (inteso principalmente come mondo interiore) per andare verso “Terranova” ossia una nuova idea di se stesso. Più consapevole.
Dici che i tuoi testi parlano di “resilienza”, termine molto usato in questi anni, ci spiegheresti il suo significato nelle tue canzoni?
Forse il tema centrale è proprio questo, ogni canzone di questo disco affronta a modo suo la tematica del ritrovare lo slancio nel superare i propri limiti, spesso emotivi, perché se nella realtà abbiamo l’impressione di essere liberi, siamo poi internamente ancora troppo schiavi delle emozioni, che non sono sempre da preservare.
Sappiamo del tuo passato rock, come ti identifichi all’interno della scena musicale attuale e cosa ne pensi dei nuovi fenomeni itpop?
Non saprei come definirci come progetto, cantautorato influenzato da vari mondi sonori che ci piacciono, dall’acustico alle colonne sonore più orchestrali, all’elettronica da sintetizzatore modulare diciamo, cantautorato curioso.
Cosa dobbiamo aspettarci dal punto di vista live? Puoi anticiparci qualcosa?
Il 3 agosto del 1530, durante la battaglia di Gavinana, Fabrizio Maramaldo (da cui il termine di uso comune, nonché fonte di incontrollate risa tra i soldati romani di Life Of Brian dei Monty Phyton) venendo meno alle regole della cavalleria, ferì a sangue freddo e trucidò il corpo di Francesco Ferrucci, condottiero per la repubblica di Firenze, gravemente ferito durante il conflitto ed in punto di morte. In questo frangente Ferrucci pronunciò la celeberrima “Vile, tu uccidi un uomo morto!”.
Ebbene in questa fase della mia esistenza, già duramente provata da queste settimane di clausura, con le difese immunitarie (figurate, s’intende) in lieve difficoltà, una psiche che talvolta vacilla, mi pareva di essere in una situazione analoga. Ora lungi da me dare del vile ai quattro ragazzi dei quali a breve scriverò, sia mai, ma ecco, se ti metti ad ascoltare un disco come Human Impact, che è cosa buona e giusta, devi essere consapevole che stai per affrontare un viaggio tutt’altro che semplice e confortevole e che difficilmente ne uscirai totalmente incolume.
È una partenza abrasiva, quella di November, disturbante, affidata a basso, batteria e synth, con la chitarra di Spencer temporaneamente sullo sfondo. Il primo impatto ricorda decisamente più ciò che erano i Cop Shoot Cop rispetto alle altre forze in gioco, anche se il frontman degli Unsane provvede comunque a fornire il suo apporto con la voce, sporca e cattiva come abbiamo imparato ad amarla negli ultimi trent’anni.
I ritmi impazziti e le urla lancinanti nel finale di E605 sono un’eco nemmeno troppo lontana degli ultimi trascorsi degli Swans del periodo da The Seer in avanti, mentre con la successiva Protester, sincopata e serratissima, torniamo più in zona Spencer/Unsane.
È infatti da queste tre band immortali e imprescindibili, accomunate dalla provenienza (New York City) e dal non aver mai avuto grande pietà per i timpani dei propri fan, che provengono i quattro Human Impact. Tecnicamente credo sia impossibile non parlare di supergruppo in un caso come questo: come già detto Chris Spencer, col suo berretto, voce e chitarra, proveniente dagli Unsane; ai synth ed elettronica provvede Jim Coleman, ex Cop Shoot Cop; il basso è quello di Chris Pravdica, attualmente con gli Swans (ma che lo scorso anno avevo visto in tour assieme agli Xiu Xiu, e dove c’era anche Thor Harris esatto, anch’egli Swans); alla batteria Phil Puleo, fondatore con Coleman dei Cop Shoot Cop ed attualmente dietro alle pelli dei monolitici Swans.
Insomma non i quattro ceffi più raccomandabili sulla faccia della terra, e le cui esperienze, pregresse ed attuali, sommate tra di loro, fanno presagire ad un risultato ben poco rassicurante; vedasi in Portrait, con Spencer che quasi rende omaggio ai sermoni apocalittici di Michael Gira, ma dura poco, perchè le intenzioni collettive sono differenti, e ben più bellicose, qui si vogliono smuovere viscere e interiora, spazzare via ogni tipo di possibile ostacolo.
E a proposito di ostacoli, non mancano gli inciampi o mezzi passi falsi: Respirator sembra un pezzo alternative degli anni ’90 al quale è stato messo su un ritornello recuperato da vecchie registrazioni e che pare non centrare molto con l’insieme, e Cause pare continuare l’andazzo, salvo poi ristabilire l’ordine stabilito piazzando senza tanto pensarci su un finale travolgente, peccato duri troppo poco.
Consequences alza un po’ il tiro e i giri, anche se non riesco a non trovare continui riferimenti e parallelismi con quel power – electro – rock – metal anni ’90 in stile Static X, Powerman 5000. Non so se rendo l’idea.
Consci del fatto che probabilmente stavano un po’ troppo tirando la corda pronti con la travolgente Unstable, una bella cavalcata con basso in spinta continua e poi ecco This Dead Sea, con un’intro che evoca i Korn di Somebody Someone ed una batteria che ora sì ci smuove dall’interno. Sono schianti e tuoni e saette (cit.), Spencer a sparare fuori tutto dalla sua gola e martoriare le sei corde, i sintetizzatori a creare la tensione massima, per un finale di brano, e di disco, di travolgente e tumultuosa bellezza.
Una mia vicina di casa aveva un’adorabile dogue de bordeaux.
Era bella, intelligente, stranamente sana (la quadrupede, suvvia). Un bassotto di un amico, sfidando leggi di fisica e natura, riuscì a donarle il proprio patrimonio genetico. I due proprietari decisero di occuparsi dei cuccioli, speranzosi che l’incrocio dei due portasse a un nuovo standard di razza.
Bene.
Dall’alto dei miei studi umanistici posso affermare con assoluta certezza che la genetica segue solo una legge certa, quella di Murphy. Che, vi ricordo, come principio primo recita: “Se qualcosa può andar male, lo farà”.
Fatta questa doverosa premessa e fugato ogni dubbio che la metafora canina sia casuale e non alluda alla qualità delle band di cui parleremo a breve, dovrei e vorrei raccontarvi la storia di un progetto, nato nel 2016 e che oggi vede la luce.
Partiamo dal principio. All’angolo rosso abbiamo le Deap Vally, al secolo Lindsey Troy e Julie Edwards, powerduo femminile piuttosto ruvido che vive in uno stato di tour infinito (hanno fatto da spalla a Muse, Queens of the Stone Age, Red Hot Chili Peppers, passando da Glastonbury al Bonnaroo), mentre all’angolo blu troviamo i pluricampioni The Flaming Lips, vincitori di tre Grammy, con alle spalle qualche milione di dischi venduti in giro per il mondo, portatori sani di psichedelia d’antan, con un brutto problema alla capacità di sintesi quando si tratta di titoli e autori di live pirotecnici. Nel loro palmares spaziano da collaborazioni con Beck, Nick Cave e Miley Cyrus fino all’OST di SpongeBob, il film.
I gruppi si conoscono nel 2016 ed inizia un lungo corteggiamento fatto di sessioni live in Oklahoma, casa dei Flaming, e di parti registrate a distanza, dato che le due ragazze sono di Los Angeles. Le tracce da tre diventano sei, nasce la voglia di realizzare un disco e così, nel marzo 2020 vede la luce Deap Lips, album di esordio omonimo nato dall’unione dei due gruppi di cui sopra.
Ora, tralasciando per un attimo il fatto del nome (immagino il brain storm che l’ha generata, ma neanche i Monthy Python), questa nuova fusione, questo scambio musical-genetico ha portato a un salto di qualità nella tecnica di ibridazione tra gruppi?
Murphy direbbe no. Io dico che se vi piacciono i dogue de bordeaux alti venti centimetri e/o amate molto i cani state sereni, il prodotto finale vi piacerà. Se invece avete aspettative molto alte, purtroppo ci sono cattive nuove.
Fin dalla prima traccia, Home Thru Hell, si palesa il paradigma dell’album: entrambi i gruppi si snaturano in funzione dell’altro, ed è un peccato, perché le californiane sanno suonare davvero bene quando si tratta di farlo entro certi confini di genere, e gli altri, beh, gli altri sono dei giganti. I Flaming Lips, ad esclusione di Hope Hell High e Motherfuckers Got to Go, prendono in mano la scena, entrando e uscendo dalle trame sonore, ma restando, di fatto, il telaio che regge il tutto, se mi passate la metafora a tappeto. Anzi, il disco intero, col passare delle tracce, sembra scivolare sempre più verso una contaminazione psichedelica che prende il sopravvento sulla parte più garage e blues del duo losangelino.
Ripeto, è un peccato, perché le premesse parevano ottime. All’atto pratico l’ascolto risulta ripetitivo, a tratti forzato, soprattutto nel continuo inserimento di parti e suoni tipicamente “flamingosi”, che inquinano o spezzano onesti riff di chitarra e tentativi di costruire tracce più classiche e meno barocche.
Rimandati, quindi.
Gli ibridi, del resto, non sempre riescono bene al primo tentativo.
Era il ’92 quando il mondo conosceva Nurse, il primo disco major dei Therapy?, trio nordirlandese che festeggia nel 2020 i trent’anni di vita.
Da sempre di difficile catalogazione, caratteristica che al giorno d’oggi suona più come un vanto ed una stella al merito, questo Greatest Hits(The Abbey Road Session) intende raccogliere, a mò di Bignami, i dodici brani che Andy Cairns e soci hanno piazzato nella top 40 britannica, decidendo però di risuonarli ad Abbey Road, in una sorta di ritorno al presente, per brani, come appunto l’opening track, Teethgrinder, che faceva bella mostra di sé nel già citato Nurse.
Partenza schizofrenica, con Neil Cooper a mettere a dura prova il rullante, mentre Screamager ci riporta in territori più punk. I giri tornano a salire su Opal Mantra, con fendenti di chitarra taglienti e ficcanti e non puoi non sorprendenti di quanto fresca e attuale suoni una canzone come questa, che di anni ne ha più di venticinque.
Turn è il primo asso calato dai Therapy?, estratto da quel Troublegum, (probabilmente) il loro punto più alto, sicuramente dal punto di vista commerciale, anche se Nowhere non è da meno, anzi (cosa non fa Cooper in sto brano!), e non puoi non percuotere ogni cosa ti capiti a tiro e cantare “going nowheeere”.
Si salta convinti anche con Trigger Inside, durante il quale si apprezza più che altrove lo stato di salute eccellente (no pun intended) della band e l’ottima resa di questo pseudo live.
Die Laughing vede l’ingresso in scena dell’unica guest del disco, James Dean Bradfield, Mr. Manic Street Preachers, per passare poi ai poliritmi sfrenati di Stories, uno dei momenti più alti del disco.
Loose fa da antipasto per rendere omaggio ad uno dei gruppi a cui i Therapy? sono più legati (ed anche il sottoscritto), ovvero gli Hüsker Dü, con una Diane meno disperata ed arresa forse, ma non sfigura affatto.
Il giro mozzafiato di basso di Church of Noise per una tirata in apnea di tre minuti e la cavalcata punk di Lonely, Cryin’, Only suggellano quella che sulla carta ha i crismi di un’antologia (e che antologia!), ma che nella realtà dei fatti ci mostra i Therapy? che prendono la carta d’identità e ce la strappano davanti agli occhi.
Henrik Lindstrand di recente ha pubblicato il suo nuovo album Builder’s Journey,che abbiamo recensito qui. Incuriositi da questo album particolare, gli abbiamo chiesto com’è stato comporre per la prima volta la colonna sonora di un videogioco e dei suoi progetti futuri.
Da musicista rock e compositore di colonne sonore (di film), qual è stata la tua prima reazione quando LEGO Games ti ha contattato per ideare l’ambiente sonoro di un videogioco?
“L’ho presa come una nuova opportunità per addentrarmi in un’area creativa che non avevo mai esplorato prima. Inoltre, è stato incoraggiante sapere che avevano ascoltato il mio primo album da solista e che quindi erano interessati a lavorare con me come compositore per questo gioco. Come compositore di colonne sonore per il cinema, ho lavorato a generi molto diversi. Questo l’ho sentito come un progetto più personale fin dall’inizio.
Anche se il processo creativo era molto aperto, eravamo d’accordo sull’estetica generale della musica. È un sogno per un compositore quando ti viene chiesto di creare per qualcosa che è già parte della tua espressione.”
Quali sono, secondo te, le principali differenze fra il comporre musica per il cinema e per i videogiochi?
“La differenza principale è che il tempo non è limitato come nei film. Ogni giocatore trascorrerà un diverso quantitativo di tempo in ogni livello, il che richiede delle composizioni musicali che possano essere dilatate e che varino nel tempo. Builder’s Journey non contiene dialoghi e ha degli effetti sonori molto casuali. Quindi, la musica ha un’importante ruolo narrativo per aiutare a raccontare la storia e creare l’atmosfera insieme alla progettazione del gioco.”
Guardando a Builder’s Journey, viene naturale compararlo con Monument Valley: quali riferimenti hai usato per la colonna sonora per questo gioco?
“Non avevo particolari riferimenti nella fase compositiva. Ho scritto i temi per i personaggi e per alcuni dei livelli come Fireplace e Gameshow. Un metodo abbastanza simile a quello che utilizzo quando scrivo per i film. Mi sono focalizzato sulle melodie e sui temi inizialmente più che sull’atmosfera di sottofondo. Più avanti abbiamo guardato ai giochi come Florence e Inside per vedere come la musica i suoni sono stati implementati nelle transizioni tra livelli.”
La tracklist dell’album sembra suggerire una narrazione. Mi fa pensare alla mia infanzia quando giocavo sia all’aperto che in casa. Hai immaginato l’album come una storia o come una raccolta di diversi momenti?
“Penso che la musica abbia un aspetto narrativo nel gioco. Era anche importante che la musica potesse essere autonoma e piacevole da ascoltare al di fuori del gioco. Ogni titolo può essere visto come una parte di questo piccolo viaggio. Inoltre, crescendo io stesso con i LEGO, c’era un elemento nostalgico mentre componevo per i mattoncini.”
Il design del suono dell’album è denso ed intenso e dà un’atmosfera completa e notevole. Come hai prodotto i suoni dell’ambiente?
“Ho seguito lo stesso schema di regole come per i miei album da solista. Questo significa che ho utilizzato solo un pianoforte e un pianoforte a coda come fonti sonore.”
Quali suoni hai usato maggiormente per creare l’atmosfera di Builder’s Journey?
“Tutti gli strati della musica di sottofondo sono vengono da pianoforte e pianoforte a coda e sono poi stati processati e manipolati lungo il percorso. Credo che questo dia un suono organico in generale. Ho usato tape delays, granular synthesis e vari riverberi, delays ecc. per creare quegli ambienti sonori.”
Builder’s Journey sarà materiale per delle performance live?
“Ho già eseguito la title track in due concerti in Danimarca quest’anno e spero di utilizzare altro della colonna sonora per i miei concerti live in futuro.”
Cosa vedi nel tuo futuro dopo la pubblicazione di Builder’s Journey? Continuerai a focalizzarti sulla tua carriera da solista o dobbiamo aspettarci nuova musica dai Kashmir?
“Attualmente sto lavorando con LEGO a dei nuovi progetti. Sto anche per finire il mio terzo album da solista e sono in contrattazione per nuovo film più avanti quest’anno. È altamente improbabile che pubblicheremo nuova musica con i Kashmir a breve termine ma vedremo cosa ci porterà il futuro. Non vedo davvero l’ora di riunirmi questa primavera per la prima volta dopo sei anni sul palco con i ragazzi.”
Grazie mille e ci vediamo in giugno a NorthSide e Tinderbox!
“Prego, grazie per il vostro interesse – a presto!”
Ma perché, mi chiedo io, perché? Hai fatto un disco pazzesco, uno dei miei preferiti del 2018, e decidi di riprenderlo in mano, riarrangiarlo, e pubblicarlo e nemmeno due anni di distanza…
Perché?
Vediamo, forse perché se ti chiami Anna Calvi ne verrà comunque fuori un gran disco. E se decidi di avere anche compagnia, beh, ancora meglio.
Scrivere di questo Hunted, avendo nei mesi scorsi consumato il fratello maggiore Hunter mi fa strano, lo ammetto, e partivo un po’ prevenuto. Come spesso mi accade per le ristampe, edizioni deluxe, remasterd, unplugged e via discorrendo. Sono snob. O qualcosa di simile, lo so.
Poi però i fatti amano sorprenderti, anzi, sbatterti in faccia la realtà e dimostrarti una volta di più che certi preconcetti, certi giudizi avventati e aprioristici sarebbe la volta buona di lasciarseli alle spalle e pensare che non sono solo operazioni commerciali, o riempitivi, tappabuchi, uscite senza pretese in periodi di magra ispirazionale (non sono sicuro dell’esistenza di questo termine, avviso).
Prendiamo proprio Swimming Pool, la prima di queste sette rivisitazioni, che si presenta qui in versione scarnita, spoglia degli archi e degli altri orpelli rispetto alla versione originale, con un semplice arpeggio di chitarra che trova sostegno nel controcanto celestiale di Julia Holter, ora solo coro, ora intermezzo, ora seconda voce. Sono già brividi.
Lo aveva annunciato la Calvi stessa che uno dei motivi principali di questo Hunted era, nelle sue intenzioni, quello di riportare questi brani alla loro forma archetipale, un ritorno all’essenza per così dire.
Per una Swimming Pool resa celestiale dal duetto con la Holter, una Hunter nella quale Anna torna ad arrangiarsi, regalandoci una versione più disturbante e notturna ed una successiva Eden che, devo ammetterlo, preferisco qui che su Hunter; saranno i bisbigli di Charlotte Gainsbourg, sarà l’ipnotico finale, non lo so, ma questa è poesia. Alta. Punto.
Away è così ridotta all’essenziale che per lunghi tratti sembra quasi a cappella, con la voce riverberata, una chitarra acustica che compare, si allontana, torna a far capolino, per accompagnarci dolcemente, con garbo, lontano.
Se mi avessero chiesto prima “Abbiamo qui Courtney Barnett, che dici? Quale canzone potremmo farle fare in duetto con Anna?” avrei risposto senza indugio Don’t Beat The Girl Out Of My Boy. Ed infatti. Una chitarra, elettrica il giusto, per una versione che sarebbe stata bene addosso alla PJ Harvey del periodo Dry/To Bring You My Love, un po’ acida, un po’ sporca, un po’ cattiva. Brutta no.
Wish era invece quella che aveva attirato più della altre la mia curiosità, non foss’altro per la presenza, ingombrante, inutile negarlo, di Joe Talbot, voce degli Idles (per i quali confesso avere una grande simpatia. E profondo rispetto. Mi piacciono in parole povere). E nemmeno sta volta riesco a rimanere neppure un pizzico deluso. O indifferente. No. Parte quasi bofonchiando, Joe, ma neanche trenta secondi e ci pare di essere quasi in piena no wave newyorkese, con echi nemmeno troppo lontani di Alan Vega e dei suoi sbalzi umorali improvvisi, infatti d’un tratto ecco il dolce duetto, quasi sognante, ma dura poco, poi è di nuovo ossessivo il riff principale, dal quale emergono fendenti di chitarra che dai Suicide portano dritti ai VelvetUnderground, giusto per non cambiare città. Poi torna la quiete, ci pensa Anna, a riportare la calma, a condurci dolcemente in fondo.
Il finale, gran finale, con Indies or Paradise, mi ha portato a fare un parallelismo istantaneo con un video che ho visto qualche tempo fa, con protagonista un’altra guitar hero, ovvero St. Vincent. In questo video parla dei suoi riff preferiti, quelli che avrebbe voluto scrivere, e via discorrendo. Ad un certo punto, verso la fine, inizia a suonare, chitarra e voce, Fort Six & 2 dei Tool. Recuperatelo e poi ascoltate appunto Indies or Paradise e ditemi se non parlano la stessa lingua. A ste latitudini i 4/4 non si sono mai visti, Anna ci propina un campionario di altissimo livello, sembra andare a braccio, ora canta, ora sussurra, poi bisbiglia, esplode, s’inarca e si accartoccia, fa un po’ quello che le pare. Ed è magnifico.