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Nei giorni 7 e 8 giugno nel parco della storica Villa Bottini di Lucca
WØM FEST 2019 – Il tuo genere preferito
Saranno La Rappresentante di Lista e i Fast Animals and Slow Kids gli headliner del WØM FEST 2019, nei giorni 7 e 8 Giugno nel parco della storica Villa Bottini di Lucca.
In questa edizione il festival di primavera, organizzato dall’associazione culturale WOM, vuole puntare l’attenzione sulla parità tra uomo e donna, dedicando la prima giornata a concerti di voci femminili e la seconda a voci maschili.
Saranno infatti Emma Morton and the Graces e la giovanissima Boyrebecca ad accompagnare La Rappresentate di Lista il primo giorno, mentre gli esterina e i Metropol saliranno sul palco con i FASK il secondo.
Oltre all’attenzione verso la proposta musicale, il WØM FEST ha voluto sottolineare la cura particolare verso quegli aspetti che potranno rendere migliore possibile l’esperienza del festival per il proprio pubblico.
Scegliere la splendida e accogliente cornice di Villa Bottini, in continuità con le precedenti edizioni, evidenzia l’obiettivo di proporre una location suggestiva, ma anche piacevole e rilassante. Oltre alla Zona Food, con una proposta culinaria variegata e comprendente anche street food di qualità, ci sarà una zona Expo con uno spazio dedicato al vinile e a diverse produzioni artistiche, ad opera di giovani artisti trasversali, tra dipinti e fumetti, stampe e disegni.
L’intenzione del WØM è quella di rendere l’area del festival un luogo ospitale che potrà accogliere il pubblico già dalle ore 18.00, per poter degustare un aperitivo di qualità con la musica selezionata da diversi DJ.
Vi aspettiamo tutti al WØM FEST, da venerdì 7 a Sabato 8 Giugno a Lucca!
DAY 1 Venerdì 7 Giugno 2019 @ Villa Bottini di Lucca
La Rappresentante di Lista ore 22,00
La Rappresentante di Lista è una band che nasce nel 2011 dall’incontro tra la cantante Veronica Lucchesi e il chitarrista Dario Mangiaracina. Il 14 dicembre 2018 è uscito “GO GO DIVA”, terzo lavoro in studio della band pubblicato da Woodworm Label. Progetto che fonde scrittura, teatro e forma canzone, La Rappresentante di Lista prosegue la ricerca avviata con i precedenti lavori “(Per la) Via di Casa” e “Bu Bu Sad”. La band, forte negli anni anche di una costante e urgente attività live, è a oggi tra le nuove realtà più trasversali e interessanti del panorama musicale contemporaneo. https://www.facebook.com/larappresentantedilistaufficiale/
Emma Morton and the Graces ore 21,00 Emma Morton ha conquistato il grande pubblico durante la sua esplosiva partecipazione all’ottava edizione di X Factor, arrivando in semifinale dove ha presentato il suo inedito “Daddy Blues” pubblicato da Sony Music e conquistando il 2° posto delle classifiche iTunes con oltre 240mila ascolti su Spotify. Da allora la musicista scozzese ha continuato il suo percorso ricevendo premi e riconoscimenti tra cui il “Music is Great Award” conferitole nel 2015 dal governo inglese, e collaborando ed esibendosi con artisti come Olly Murs, Paolo Nutini, Raphael Gualazzi, Glen Hansard, Gary Lucas, Petra Magoni, Alejandro Escovedo e DJ Molella. https://www.facebook.com/emmamortonandthegraces/
Boyrebecca ore 20,30 Boyrebecca è un progetto musicale rap-fluid che nasce dall’esigenza di riunire vari interessi dell’artista sotto lo stesso tetto. Musica, video, moda e grafica convivono con uno stile kitsch, divertente e arrogante.
24 anni, monella, un po’ femmina un po’ maschio. https://www.facebook.com/loveboyrebecca
DAY 2
Sabato 8 Giugno 2019 @ Villa Bottini di Lucca
Fast Animals and Slow Kids ore 22,00 I Fast Animals and Slow Kids nascono a Perugia alla fine del 2008: quattro musicisti (Aimone Romizi, Alessandro Guercini, Alessio Mingoli e Jacopo Gigliotti) frequentano il liceo e suonano in band locali. A febbraio del 2017 arriva “Forse non è la felicità”, il quarto album su Woodworm Label della definitiva consacrazione, che li porta a suonare in un lunghissimo tour nella Penisola, confermando così il loro live come uno dei migliori tra le band rock italiane. Proprio in questi giorni uscirà il nuovo singolo “Non potrei mai”, gustoso antipasto del nuovo su Warner Music Italy e in collaborazione con la consolidata famiglia pluriennale Woodworm Label e Locusta Booking, previsto per prima metà del 2019. https://www.fask.it/
esterina ore 21,00 esterina è un gruppo indie rock italiano. Attiva dal 2008 è una presenza carsica nel panorama musicale nazionale. La sua produzione, tra post-rock e canzone italiana, è un emblema di biodiversità musicale e di divergenza parallela con la scena indie contemporanea. Un rock autoctono composto di dinamiche estreme, di suoni vintage e di elettronica, appassionato alle parole, alle storie minori, ai dolori personali e ai paradigmi della felicità. http://www.esterina.it/
Metropol ore 20,30 Sono in quattro e arrivano da Viareggio: i Metropol raccontano la loro generazione e la vita di provincia con le chitarre distorte e la spensierata disillusione della fine dei vent’anni. Con un Ep all’attivo (“Farabola”, 2017) e numerosi live in giro per la Penisola (suonando con artisti quali Gazebo Penguins, Giorgio Canali, Any Other e molti altri), i Metropol daranno alla luce nell’autunno 2019 il loro primo disco “Un Nuovo Inverno Nucleare”, realizzato sotto la produzione artistica di Karim Qqru (Zen Circus) e Andrea Pachetti. https://www.facebook.com/metropolbandIT/
TICKET
I biglietti per WØM FEST sono in vendita su Do It Yourself, l’innovativo servizio di biglietteria per eventi e spettacoli che semplifica il processo di acquisto a tutti gli utenti, a costi contenuti e attraverso molteplici canali di vendita.
Grazie alla partnership con SisalPay, DIY è presente con i suoi eventi lungo tutto lo Stivale: chiunque, infatti, può scegliere se acquistare il biglietto online suwww.diyticket.it, pagando con carta di credito o prepagata, e stamparlo comodamente a casa propria oppure affidarsi ad uno degli oltre 40.000 Punti SisalPay presenti in tutta Italia (bar, tabaccherie ed edicole), scegliendo il proprio biglietto online e ritirandolo, con pagamento in contanti, in ricevitoria. In alternativa, è possibile prenotare i biglietti chiamando lo 06 0406 e finalizzare il pagamento, in contanti, nei punti SisalPay.
•Stefano Fake ci insegna come si racconta l’arte con l’arte•
Di norma, non occorrerebbe nessuna particolare motivazione per saltare su un treno per Firenze.
A Firenze ci vai e basta, ed ogni cosa che potrai portarti a casa sarà inestimabile bottino.
Ma quando la Chiesa di Santo Stefano, a due passi da Ponte Vecchio, diventa Cattedrale dell’Immagine, e si fa bella per ospitare una delle mostre più coraggiose e rivoluzionarie del momento,il biglietto di questo treno si timbra da solo.
Siamo quindi sfrecciati verso una Firenze toccata e fuga, per un aperitivo maledetto con Van Gogh, Lautrec, Modigliani ed altri tormentati ragazzacci. Abbiamo sguazzato nelle loro vite tutt’altro che piacevoli e capito quanto l’arte, per loro, sia stata la vera salvezza. O forse no.
Davanti ad una mostra come Van Gogh e i Maledetti ci si sente destabilizzati,poiché l’unica prerogativa è spogliare le opere da qualsiasi filtro di falsità, così che possano urlarci in faccia di non essere figlie predilette di divinità perfette, ma d’essere venute alla luce dalle menti esasperate di uomini soli, limitati, dannati, in un vorticoso travaglio senza gioia ne consolazione.
A presentarci Van Gogh e i Maledetti è CROSSMEDIA GROUP, con un’esperienza multimediale progettata e diretta da Stefano Fake di THE FAKE FACTORY, artista visivo multidisciplinare che, con grande audacia e sensibilità, utilizza tecnologie di ultima generazione per raccontare l’arte con l’arte.
Abbiamo chiesto a Stefano di parlarci della mostra, dell’importanza delle nuove frontiere artistiche e del grandioso lavoro che c’è dietro allo straordinario risultato finale.
La tua opera è colma della Parigi di fine ottocento e inizio novecento, fulcro del mondo bohemien, terreno fertile per le vite dissolute dei nostri Maledetti. Quali strade di Parigi ha percorso la tua ispirazione?
Per questa esperienza immersiva ho lavorato su diversi binari estetici e narrativi.
Dal punto di vista storiografico ho voluto approfondire la descrizione dell’ambiente parigino a cavallo dei due secoli, usando diverse fonti cinematografiche e fotografiche.
Mi sembrava necessario far capire sin da subito come fosse importante l’ambiente di Parigi, in quel momento sicuramente la capitale mondiale dell’arte, e il motivo per cui era diventata la meta di tutti coloro che volevano vivere pienamente una vita e una carriera d’artista.
Per questo ho usato ampie scene di repertorio su Montmartre, Montparnasse, i caffè parigini, le sale danzanti, per concludere con l’apoteosi finale dei fuochi d’artificio all’inaugurazione della Tour Eiffel.
Parigi era il centro del mondo e sicuramente la meta di tutti gli artisti che volevano affermarsi nel mercato e magari nella storia dell’arte.
Quindi, oltre che per gli amici fraterni Van Gogh e Gauguin, Parigi era il punto di riferimento per tutta una serie di altri pittori molto eterogenei fra loro come stile e tecniche pittoriche.
La cosa che li accomunava era soprattutto l’aspirazione ad una vita bohémien completamente dedicata all’arte, chiaramente insaporita da vino, assenzio, hashish e sesso.
Hai creduto fosse importante slegare le singole esperienze di questi artisti dalle vite rispettivamente intrecciate fra loro, per dedicare ad ognuna di esse un capitolo personale. Cosa ti ha spinto verso questa scelta?
Si, la narrazione visuale è fatta di brevi capitoli monografici, diversi fra loro come composizione e grafica animata.
Dal punto di vista registico per me era fondamentale mostrare questa eterogeneità stilistica e tematica, questa ricchezza di colori e forme. Una frammentazione narrativa legata profondamente allo spirito del tempo.
Gli artisti maledetti dipingevano in modo differente e molto personale; rappresentavano Parigi ciascuno con la propria matrice stilistica, ma ne erano tutti figli e ciascuno ne raccontava una parte, e tutte queste porzioni ne danno una visione sicuramente più completa.
Il tutto collegato da un avvolgente fil rouge,proprio come nei capitoli di un romanzo.
Nel corso dei quaranta minuti di video-installazione a 360°, passiamo da Modigliani a Toulouse-Lautrec da Soutine, a Gauguin e Van Gogh, senza che questa frammentazione possa sembrare dissonante. Perché tutti loro, in definitiva, stavano rappresentando in modo molto personale lo spirito del tempo.
Con la scelta musicale ho seguito lo stesso schema: grande varietà ed eterogeneità, passando da Verdi a Vivaldi da Schubert a Beethoven e Hoffenbach, stando attento unicamente a tenere alta la temperatura emotiva dell’esperienza immersiva, lavorando sull’alternanza ritmica e sulle sonorità.
Un’esperienza più che immersiva. Era tua intenzione farci rivivere l’ipotetico percorso di maledizione ed espiazione di Van Gogh ed i suoi colleghi?
Per far viaggiare l’opera dentro un binario simbolico molto strutturato ho costruito, su un secondo livello, una narrazione che procede come un viaggio di purificazione.
Partiamo dall’inferno a cui questi artisti dalla vita dissennata erano destinati, per portarli fino al cielo, all’elevazione in paradiso, spinti dalla grandezza e dalla purezza della loro arte.
Per questo il primo capitolo inizia con il Dies Irae di Verdi e ci troviamo fra le fiamme dell’inferno e all’interno di una scena vandalizzata da scritte rosse spalmate sulle pareti dell’ambiente. Tanto forti da sembrare scritte col sangue.
Interessante la contrapposizione che hai creato ambientando una scena infernale all’interno di una chiesa sconsacrata.
In questa scena suggerisco al pubblico la mia interpretazione del girone dantesco che ghermisce questi pittori dalla vita estrema: una chiesta sconsacrata vandalizzata come uno squot abbandonato e graffitato centimetro per centimetro.
Abbiamo colto qualche citazione a Disney, qualcuna addirittura all’animazione giapponese. Affermazione troppo azzardata?
Assolutamente no. In questo primo capitolo c’è una citazione diretta di uno dei capolavori del cinema d’avanguardia, Fantasia di Walt Disney del 1940, così come avevo fatto per Klimt Experience.
In particolare mi sono ispirato alla scena iniziale di Fantasia, realizzata sotto la direzione artistica di Oskar Fishinger, uno dei maestri dell’animazione astratta che ha aperto le porte all’idea di film astratto all’inizio del ‘900.
Chiaramente, essendo figlio del mio tempo, ho dato un tocco manga alle animazioni astratte e ho potuto ottenere, grazie al montaggio digitale, una perfetta sincronia audio-visiva.
Hai lavorato molto sui contrasti. Lo spettatore non può che sentirsi parte di qualcosa di grande. Non possiamo chiedere ad un padre di identificare il figlio preferito, ma sicuramente c’è un “capitolo” di cui vai particolarmente fiero.
Uno dei momenti visivamente più belli e riusciti dell’opera, che fa da contrappunto a questa prima scena infernale, è il finale dell’opera immersiva, con la contemplazione del paradiso: la notte stellata di Van Gogh.Apprendiamo affascinati come da una vita maledetta possa nascere un’arte celestiale e sublime. E’ in definitiva un inno alla forza catartica dell’arte che salva tutti, artisti e pubblico.
Per quanto riguarda la progettazione dell’ambiente immersivonon mancano strumenti che stanno aprendo le porte ad un nuovo concetto di “istallazione artistica”.
Per Van Gogh e i Maledetti ho potuto portare due tecniche che da anni utilizziamo con successo nei festival e nelle mostre immersive: il videomapping, sulle nude pareti della chiesa che ci ospita, e la Mirror Room, che dagli inizi degli anni duemila cerco di inserire sempre nelle esposizioni di cui sono autore, negli eventi e nei festival d’arte digitale.
Dopo alcuni anni in cui la Chiesa di Santo Stefano era rivestita di schermi, siamo riusciti a lavorare con la produzione di Crosserai per farla tornare alla sua forma originale.
La perfetta visione delle opere è comunque garantita dalla forma stessa dell’architettura, che ha ampie pareti intonacate sopra gli altari.
Per migliorare la visione ho fatto inserire uno schermo centrale, che non è altro che la parete portante della terrazza costruita appositamente per avere anche una visione dall’alto dello spazio.
Il balcone ospita anche una mia Mirror Room, dove il concetto di immersive art experience, che da anni è la cifra stilistica di THE FAKE FACTORY, è portato alle sue estreme conseguenze.
La mostra è completata da una parte didattica tradizionale e da un viaggio tridimensionale con Oculus.
Questi ambienti sono curati direttamente da Crossmedia, così come il bookshop, rinnovato anch’esso per questa esposizione.
Da anni sei parte attiva di questo nuovo fenomeno chiamato “crossmedialità”. L’arte sta cambiando, così come il suo pubblico. Sperimentare è inevitabile e necessario, perché stiamo assistendo all’alba di una nuova era della comunicazione. Dopo aver parlato della tua ultima creatura, parlaci un po’ di te, della tua esperienza e della tua personale rotta.
Questa per noiè la quinta produzione per Crossmedia Group (dopo Klimt, Monet e gli Impressionisti, Modigliani e Magritte) e consolida un rapporto che ha portato il gruppo a diventare un importate player nel mondo delle mostre multimediali.
Devo dire che la fiducia e la libertà creativa che il produttore Federico Dalgas mi ha sempre lasciato è sicuramente stata una delle chiavi del successo di questo nuovo modo di rappresentare l’arte del passato con linguaggi e tecniche contemporanee.
Se da un lato perdiamo, per così dire, la materia pittorica (non ci sono opere originali in mostra), dall’altra possiamo utilizzare la luce digitale per creare mondi fantastici, illusioni ottiche, immersioni visive sorprendenti.
Osservazione da sottolineare, perché molti storgono ancora il naso quando si tratta di mostre senza opere originali. Raccontare l’arte con l’arte, soprattutto se si trattano opere classiche e celebri, non è ancora un concetto così immediato ed accettabile, a quanto pare. Occorre avere coraggio, il nuovo pubblico sembra in continua crescita.
Proprio così. Per un artista che lavora con i new media è importante sentirsi libero di sperimentare e di reinterpretare i classici del passato senza sentirsi limitato e avendo la possibilità di sperimentare ogni volta soluzioni visive nuove, sapendo che lo sforzo economico che il produttore sostiene sarà ripagato sia in termini economici che di visibilità.
La prima esperienza che abbiamo realizzato per loro, Klimt Experience, è stato un successo mondiale che ha aperto molte porte a questa nuova forma di immersione nell’arte.
Il pubblico del terzo millennio ha voglia di vivere diverse esperienze estetiche e le immersive exhibitions sono sicuramente una proposta culturale interessante proprio perché complementari alle mostre tradizionali. Sono sicuramente anche un buon modo per introdurre all’arte bambini e teenagers.
Già, troppo spesso si parla dei giovani e della loro incapacità di mostrare interesse per la cultura e per il loro futuro. Noi crediamo invece che ogni generazione abbia il suo linguaggio e che questo linguaggio, come ogni altro, vada studiato, ascoltato, accolto. Siamo stati felici di vedere la mostra popolatissima di ragazzi e ragazze.
Penso che le strade che abbiamo aperto porteranno ad una crescente attenzione verso le mostre immersive, con la nascita di nuovi artisti visivi e nuovi produttori interessati ad investire in questo mercato.
Lo ripeto da anni: siamo come a inizio ‘900 quando nacque il cinema. Nel giro di pochi decenni le sale cinematografiche si sono moltiplicate, e c’è stato spazio per nuovi registi, nuovi autori, nuovi produttori.
Per questo penso che da parte del pubblico e della critica sia anche venuto il momento di superare la dicotomia mostra con quadri veri versus esperienza immersiva di arte digitale.
Per usare una metafora facilmente comprensibile, le mostre immersive stanno alle mostre tradizionali come il cinema sta al teatro?
Esattamente, nessuno va al cinema sperando di trovare attori in carne ed ossa.
Oggi, se vai al cinema è normale sapere che vedrai degli attori e delle scene riprese e poi proiettate su schermi.
E’ un segno dei tempi, e la riproduzione dell’arte partendo da una foto in digitale è il modo più comune con il quale il pubblico entra in contatto con le opere d’arte del passato.
Inoltre oggi abbiamo una qualità riproduttiva eccellente, con una qualità di riproduzione molto definita e fedele all’originale. Manca la materia pittorica, certo, e le dimensioni sono riportate su grandi schermi.
Ma questo per me è un vantaggio, perché possiamo rafforzare la potenza visiva delle opere riprodotte ed esaltarne le trame e i dettagli.
Negli anni l’arte cinematografica si è sviluppata come linguaggio e tecnica fino ad essere definita la settima arte. Oggi l’arte digitale immersiva potrebbe rappresentare l’ottava forma d’arte?
Sicuramente è quella che maggiormente si avvicina all’idea di Arte Totale di cui si parla da quasi due secoli.
Un’esperienza immersiva, nella forma in cui la concepisco e la realizzo, è un’insieme di architettura, pittura, musica, danza, poesia, cinema… L’arte digitale immersiva è un’esperienza totalizzante.
Per questo spero che una nuova generazione di critici, divulgatori e storici dell’arte ne prenda atto e inizi ad analizzarla e a descriverla per quella che è: una forma d’arte a se stante che ha un proprio linguaggio e una propria ricerca.
E spero che si inizi a capire che dietro ad ogni mostra immersiva ci sono autori e artisti visivi con il proprio stile e la propria capacità non solo di rileggere il passato, ma anche di creare nuove estetiche.
Partiamo da qui, il pubblico ed i lettori devono sapere quante interessanti sfaccettature, quanta progettazione e quanta ricerca creativa si celano dietro ad una mostra immersiva. Capita spesso che il vostro lavoro non venga capito?
Mi piacerebbe che un giorno si smettesse di fare domande agli autori di esperienze immersive sul tipo e sulla quantità di proiettori utilizzati, perché sarebbe come chiedere a Fellini che tipo di cinepresa ha usato per girare il film o che proiettori utilizzano nei cinema per proiettare i suoi film.
Nessuno chiede a Bob Wilson che fari utilizza per fare i suoi enormi fondali retroilluminati a teatro. Gli viene chiesto il perché crea scene con architetture fatte di luce.
Chi chiede a James Turrell se per creare le sue stanze immersive usa Led o luci con gelatine colorate?
Noi artisti digitali ci dobbiamo preoccupare solo di creare esperienze d’arte belle e culturalmente significative. Ognuno con il proprio punto di vista e la propria visione, cosi che il pubblico possa un giorno andare a vedere un’esperienza immersiva sapendo quale autore l’ha realizzata, esattamente come accade quando si sceglie un film.
Lo si fa per vedere l’opera, non per vedere una sala dove la tecnologia permette di proiettare delle immagini su una parete bianca.
Italia, patria dell’arte, luogo dove alla domanda “che lavoro fai?” la risposta “l’artista” segue svariate e raramente benevole reazioni. Sei sicuramente un grande esempio per i giovani che sognano un futuro nel campo artistico.
Sì, e spero che quello che stiamo facendo serva come guida per gli studenti d’arte e i nuovi creativi digitali.
Ci sono enormi possibilità di esprimersi come artisti e come narratori digitali, è un mondo tutto da creare e scoprire. Ma siamo agli inizi e la definizione di un’arte nuova richiede tempo.
Ma noi artisti andiamo avanti, sperimentando e creando, così come fecero altri prima di noi.
Per definizione l’agnello è la creatura più docile del regno animale. Agnello è anche il nome (nonché il cognome del cantante e fondatore del gruppo) di una band palermitana nata nel 2016 e, ascoltando l’album, risulta essere un appellativo appropriato per questa band carica di sensibilità, dolcezza e irrequietezza verso il mondo.
L’obiettivo primario del gruppo è una crescita costruttiva e la conseguente tutela del suo stile, una ricerca estetica musicale, linguistica e spirituale, per regalare all’ascoltatore un’esperienza totalmente nuova, il più possibile distante da quello che si può trovare sul mercato musicale attuale.
Il loro album d’esordio Il Minotauro, composto da singoli usciti tra il 2017 e il 2018, ètraboccante di atmosfere romantiche e commoventi, scaturite da animi nobili che sembrano cozzare con la superficialità che ci circonda oggi.
Funamboli contemporanei alla ricerca di un equilibrio tra ritmi tipici della musica italiana anni ‘60, indie e surf, adottano testi delicati e nostalgici, grazie all’uso smodato del sax, che colora di tinte malinconiche tutto l’album.
La figura fragile e riflessiva de Il Minotauro primo brano e titolo dell’album, esplode in tutta la sua angoscia ed emarginazione, la quale sembra essere il mantra della band. Emblema della società evoluta, dove ci ritroviamo più spesso lontani gli uni dagli altri, chiusi nella nostra personale disperazione (come lo è il Minotauro del suo labirinto), alla ricerca di un/a compagno/a che divida con noi l’onere di questo massiccio fardello.
Altra questione che viene valutata è la paura nei suoi più intimi aspetti: paura dell’abbandono da parte della persona amata, come nel brano Marta, dalle sonorità morbide e armoniose, fino ad arrivare alla paura delle relazioni stesse. Il terrore di impegnarsi che impregna le generazioni moderne nel pezzo Casa Tua, dove ricorre la paura di imbarcarsi in una situazione troppo grande, troppo importante — come potrebbe essere salire a casa dell’amata — ipotizza la fine del sentimento, quasi per codardia, e il raggiungimento di qualcosa con l’ansia di non esserne poi all’altezza.
Il loro intento è dar spazio e voce alle emozioni, utilizzando un registro pop per analizzare la collettività come in Sulla sdraio nato dall’unione creativa con Nicolò Carnesi. Si servono delle classiche retoriche del cantautorato indie a tratti ripetitivo e circolare per esprimere l’insoddisfazione di una generazione mentalmente relegata su una sdraio, schiacciata dalla realtà che ci scorre dinanzi come un film, nella quale non possediamo potere decisionale ma siamo solo spettatori non paganti.
Come ammette il gruppo stesso, “il brano è volutamente più monotono, per trasmettere una percezione di tempo perduto e del fatto che vivere in dipendenza dal mondo esterno ti condanna all’infelicità”.
La critica verso la società moderna è contestualizzata in Tutto questo penare, dall’intro fresco, estivo, estremamente pop, in forte contrasto con il testo amaro, improntato sulla solitudine e sulla discordanza degli schemi sociali (sposarsi, far figli, sistemarsi) in rapporto alla vera felicità.
Come astronauti esploratori di un universo parallelo, questa band vuole parlare di amore, di solitudine ma soprattutto della paura di una generazione, il terrore nelle relazioni interpersonali e della gestione dell’emotività in un momento storico interamente incentrato sull’avere, più che sull’essere.