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Bruce Springsteen “Letter to You” (Columbia Records, 2020)

Il ventesimo disco in studio di Bruce Springsteen è un lavoro di rara bellezza. Non ci sono molti giri di parole da poter utilizzare.
Anzi, a essere onesti lascia spiazzati un disco come questo, per onestà, per intento e perché arriva dopo una lunga parentesi intimista.
Bisogna però che io compia un paio di passi all’indietro, per giustificare sentenza e conclusione, e perché questo disco ha un peso specifico notevole.

Come nasce un disco come Letter to You? Dato per ovvio e assodato che sia utile essere Bruce Springsteen, credo che servano almeno tre elementi: avere una band da una cinquantina d’anni, una capacità di autoanalisi fuori scala e un immaginario che diventa un mondo, ormai autonomo, da raccontare. Aggiungete un paio di storie divertenti, una misteriosa chitarra italiana e tre pezzi rimasti senza una casa e forse, dico forse, abbiamo la ricetta.

Bruce è reduce da quel capolavoro di Western Stars, dopo un paio di anni di lavoro solista a Broadway. Si è rivelato ai fan nella sua versione più umana, raccontando una storia di successo e depressione, di musica e dolore, un lessico famigliare finito in musica, in una catena di album che hanno sempre lasciato trasparire il gesto genuino della mano che li ha creati: Springsteen non si è mai tirato indietro, ha narrato una vita usando il rock and roll, usando tutti i colori possibili, dai più cupi ai più chiari.
In Western Stars qualcuno ha visto il lascito amaro di un cantante ormai anziano. Ma non era altro che l’ennesima tappa di una carriera: c’è chi prende i settant’anni come un punto di arrivo e c’è chi, come lui, ne soffia settantuno e decide che non si tratta di vecchiaia, ma di responsabilità. Perché arrivare a questa tappa del cammino non dà diritto al ritiro, ma esattamente a qualcosa di opposto.

Diceva il saggio: da grandi dischi derivano grandi responsabilità.

E così imbraccia una chitarra regalatagli da un fan italiano fuori dal teatro dove andava in scena Springsteen on Broadway, lasciata in salotto per qualche mese, quasi dimenticata. La magia a volte esiste: in pochi giorni compone gran parte dei pezzi del disco, raduna la band e in cinque giorni di sala incide il disco.

Io riesco perfettamente a immaginarli: lui e la E Street Band funzionano un po’ come il primo giorno di vacanza, quando torni al mare e rivedi gli amici dopo un anno di lontananza. C’è un po’ di imbarazzo, un po’ di ruggine, ma dura poco. Del resto, cosa può andar male? Siamo nel 2020, nel bel mezzo di una pandemia globale, al potere sono saliti i nazisti dell’Illinois, il loro capo è un suprematista bianco negazionista, torneremo in tour nel duemilamai, e quindi and one two three four…

Vorrei sapere se fuori degli studi di casa Springsteen, dove è nato questo disco, è incisa a fuoco la frase di Pete Townshend “il rock non eliminerà i tuoi problemi, ma ti permetterà di ballarci sopra”. Il mood è quello. 

In una recente intervista Springsteen ha dichiarato che il disco fondamentalmente racconta ciò che ha imparato tra i diciassette e i settant’anni. Alla faccia del dono della sintesi.
E Letter To You in effetti è denso e maturo. Quasi saggio, mi si passi.
È una mappa che Springsteen ci lascia, disseminata di indizi e topoi della sua storia. Il vocabolario è un faro, con parole che sono orme della sua carriera: ci sono treni, sangue, cicatrici, prigioni, chitarre, eroi e antieroi. Veniamo riportati ai confini della città, dove scorre un fiume. È un gioco di citazioni continue, è un immaginario che viene rievocato in una lunga lettera scritta da un uomo a milioni di fans. 

Ma è anche una lunga riflessione sul passato e su ciò che abbiamo lasciato per strada, soprattutto sulle persone che non ci sono più, a partire da George Theiss, fondatore dei The Castiles, qui evocato più volte e vero ispiratore del pezzo Ghosts, dove la parola “alive” diventa la chiave per chiudere un cerchio: in Radio Nowhere si chiedeva se ci fosse qualcuno di vivo là fuori (“Is there anybody alive out there?”), in We Are Alive, pezzo di Wrecking Ball, si ballava solo per il fatto di essere vivi e lo si faceva tra spiriti e lapidi, tra fantasmi e desiderio di rinascere. Qui l’essere vivi è testimonianza, è la felicità di poter fare musica insieme, è la sola possibilità di dimenticarsi i problemi e di andare laddove la musica non finisce mai, come recita House Of A Thousand Guitars, canzone-manifesto del disco.

Come dicevo, è questione di responsabilità. Gli è rimasto in mano il testimone, è l’ultimo dei sopravvissuti del suo primo gruppo, sente il bisogno di portare avanti il sacro messaggio del rock and roll. In fondo, ci ricorda, è The Last Man Standing.

Il ricordo diventa citazione per Clarence Clemons nella prima traccia, One Minute You’re Here, dove si evoca il bridge di Tenth Avenue Freeze Out. E poi Dylan, tanto Bob Dylan, che come un’ombra aleggia in tutto il disco: in If I Was The Priest, canzone che convinse un certo John Hammond a scritturare Springsteen, dopo aver lanciato Dylan. E il menestrello di Duluth è sempre stato il suo doppio e la sua croce, fin dagli esordi, in cui Springsteen dovette liberarsi della sua ombra e dimostrare di non essere il nuovo Dylan. Qui però lo si stuzzica, ad esempio in Janey Needs A Shooter, dove l’intro di organo ricorda Like A Rolling Stones o nella traccia che chiude il disco, I’ll See You In My Dreams, dove si cita testualmente Dylan nel ritornello: “Death is not the end”. 

Letter To You è un album sincero. Registrato al ritmo di tre canzoni al giorno, praticamente live in sala di incisione, senza demo, con pochissime sovraincisioni. È la E Street Band al cubo, sempre più perfetta nei suoi meccanismi e nelle sue dinamiche. 

Insomma, lettera recapitata, Bruce.
Per ora possiamo solo rileggerla e impararla a memoria. Possiamo solo vederci nei sogni, così come da chiusa del disco, in attesa di poter cantare tutto questo, cantare DI tutto questo, spalla a spalla, ancora una volta. 

Stay hard, stay hungry, stay alive. 

 

Bruce Springsteen

Letter to You

Columbia Records

 

Andrea Riscossa

Three Questions to: Dig Two Graves

How and when was this project born?

“We started in 2017 by Josh and Kenny – who have been friends for years – and quickly found Mike, who was very interested in the project. We hit up Jesse over Instagram and the rest is history! Josh had one song written when we first started which we practiced and worked on to start out. After working on it for a while, it ended up changing pretty drastically and we finally decided on a certain version of the song. This then became our first single Wick. The earliest demos of the song are almost completely unrecognizable to what it ended up being.”

 

If you had to sum up your music in three words, what would you choose and why?

“Nice, fresh and organic. We believe that our music stands out from the metalcore/djent type of genre which was one of our goals from the start. We wanted to create a project that had the heaviness of that style of metal but with some more of our own sauce. We ultimately ended up going in a more melodic direction and tried to utilize a variety of song structures to keep things fresh.” 

 

What about your future projects?

“We are currently working on our debut full length album and we’re very super stoked on how it’s turning out. Two songs are very close to completion, which will most likely be released as singles before the album. Nothing is definite, of course, but that is the current plan. We are working to have at least one single out in the near future, hopefully.”

 

 

Come e quando è nato questo progetto?

Abbiamo cominciato nel 2017. Josh e Kenny erano amici già amici da anni, poi abbiamo subito trovato Mike, che era molto interessato al progetto. Abbiamo contattato Jesse su Instagram e il resto è storia! Josh aveva già scritto una canzone quando abbiamo iniziato e abbiamo provato e lavorato su quella per cominciare. Dopo averci lavorato su per un po’, la canzone era cambiata in modo abbastanza drastico e alla fine ci siamo decisi per una certa versione. Questa poi è diventata il nostro primo singolo Wick. I primi demo della canzone sono quasi completamente irriconoscibili dalla versione che poi è diventata. 

 

Se dovessi riassumere la vostra musica in tre parole, quali sarebbero e perché?

Bella, fresca e naturale. Crediamo che la nostra musica si distingua dal genere metalcore/djent, che era il nostro obiettivo iniziale. Vogliamo creare un progetto che abbia lo stile “heavy” del metal ma aggiungerci qualcosa di più nostro. Alla fine abbiamo preso una strada più melodica e cercato di usare arrangiamenti diversi per mantenere un’idea di novità.

 

I vostri progetti futuri?

Al momento stiamo lavorando sul nostro primo album e siamo molto emozionati per come sta venendo fuori. Due canzoni sono quasi finite e molto probabilmente verranno rilasciate come singoli prima dell’uscita dell’album. Ovviamente non c’è niente di definitivo, ma questo è il piano attuale. Stiamo lavorando per far uscire almeno un singolo nell’immediato futuro, si spera. 

 

Francesca Di Salvatore

Lucio Leoni “Dove Sei Pt.2” (Blackcandy Produzioni, 2020)

Dove Sei è qui e adesso. 

Il 15 ottobre 2020 è uscito Dove Sei Pt.2 di Lucio Leoni per Lapidarie Incisioni e Blackcandy Produzioni. Con questo album l’artista romano conclude il suo terzo progetto discografico presentato in due parti, la prima uscita lo scorso maggio. Il lavoro abbraccia temi intimi ed emozioni globali e questa recensione si rifà alle immagini che appaiono nella mia mente durante l’ascolto. 

L’album si apre con L’archivio segreto di Galileo, un inno all’amore universale, quello del “non pensare troppo” ma ama e basta. “Facciamo un gioco e chi ride per primo ci giochiamo un bacio”, un bacio che prende la rincorsa spalancando il ritornello a una danza libera e scatenata. Il passaggio musicale dalla quiete ai ritmi ska è un’esplosione. I fiati finali sono inaspettati e ricordano qualcosa di magico, come quando sei a teatro in trepida attesa e gli strumentisti stanno accordando. 

Casa ti riporta alla realtà, è come uno schiaffo e ti avverte di quanto dimentichi in fretta l’energia dei sentimenti passati; di quanto, con il tempo, svanisca la profondità delle sensazioni. Casa è un posto in cui vuoi creare quelle emozioni, casa è dove vuoi. Ma “Dov’è dove vuoi? Dov’è casa?”. E se non riesci a rispondere, che sia a una persona o che sia al mare, tu dì solamente: “portami dove vuoi, portami a casa”.

A volte però a casa non ti senti sicuro, Francesca ce lo dimostra. Questo brano è una lettera di una moglie angosciata, spaventata: “Partiamo che ci sono gli avvoltoi e che qui c’è una congiura, partiamo che se non lo facciamo poi ci viene paura.” Nel pezzo, i fiati sembrano urla strazianti che ti squarciano l’anima e ti costringono a sentire.

Questa canzone è la lettera mai scritta da Francesca Morvillo al marito Giovanni Falcone.

Proprio delle partenze parla Autodifesa, quelle che ti fanno dire “basta, mollo tutto”. Ma quanto è vera questa affermazione? “Quanto cambia il contesto quando tu resti uguale”? Autodifesa ti induce a riflettere sulla necessità di provare qualcosa.

Questo viaggio nei sentimenti prosegue e Quasi Mi Spaventa l’intimità di questo brano che ti permette di concentrarti sul testo e sulle sensazioni trasmesse dal canto a volte sussurrato di Lucio Leoni. In risposta alla sua voce, si intervallano suoni che ricordano tuoni lontani e “se si apre il cielo ci viene voglia di ballare un tango”. Una canzone che parla dei rapporti con confidenza e per immagini.

La familiarità delle emozioni descritte dall’artista viene rafforzata in Per Sempre, una dedica al tempo, allo spazio e alle persone. Durante la pandemia, questa canzone sembra rappresentare un pensiero universale. La mancanza delle giornate passate con gli amici ci angoscia e ci addolora ma il ricordo di quei momenti felici sovrasta la tristezza, ci abbraccia e ci rassicura “come in macchina quando freno però ti metto un braccio davanti”.

E infine, un susseguirsi di immagini difficili da rincorrere. Nastro Magnetico in collaborazione con i Mokadelic è una sceneggiatura che Lucio Leoni racconta, recita. Ti spiega tutto ma non ti spiega niente. Ti ritrovi più confuso del momento in cui pensavi di non aver capito nulla. Il brano però ti ha ipnotizzano già dal principio, quando ti è sembrato di sentire il canto di una sirena. Ed è questa la forza del pezzo: ti incuriosisce e ti porta ad ascoltarlo più volte. 

In questo periodo storico complesso, Dove Sei è un progetto che ti fa riflettere. I suoni, le parole, le immagini e le doppie voci che ricorrono per tutto l’album, ti stringono e ti fanno capire che non sei solo, sei Dove Sei.

 

Lucio Leoni

Dove Sei Pt.2

Lapidarie Incisioni / Blackcandy Produzioni

 

Cecilia Guerra

Tre Domande a: Gaston

Come e quando è nato questo progetto? 

“Non ho lavorato intenzionalmente a questo EP (Cartoline, NdR). Faccio musica nel tempo libero e senza schemi o tattiche. Delle canzoni che avevo racimolato negli anni (ce ne sono alcune davvero vecchie, come Marea) queste cinque penso siano legate da un filo sottile ma tangibile. Sicuramente è ricorrente il tema della partenza, della ricerca di sé, del cambiamento e del distacco.
Mi sono sempre considerato uno spirito irrequieto, alla continua ricerca di qualcosa che forse neanche c’è.”

 

Ci sono degli artisti in particolare a cui vi ispirate per i vostri pezzi?

“Artisti penso sia il termine giusto. Prendo ispirazione da ogni tipo di arte ed inaspettatamente. Nel corso degli studi universitari mi sono imbattuto in registi, pittori, musicisti, scrittori che hanno influito sul mio processo creativo. Ho tratto ispirazione anche solo da un titolo o da un dialogo, da una poetica o da corrente artistica. Penso ad esempio a Roman Opalka che ha ispirato un pezzo a cui sono particolarmente legato, Opalka.
L’arte è spesso l’input per creare l’arte stessa. A volte si tratta solo di rimescolare in maniera originale concetti già espressi, rimodernizzandoli ed adattandoli al proprio contesto storico-culturale. Se parliamo di musica poi sicuramente i grandi cantautori, sarebbe scontato anche citarli.”

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

“A chi mi ascolta cerco di raccontare la mia storia lasciando comunque ampio margine di immedesimazione.  Eventi e persone che affollano le mie giornate e la mia mente si mischiano in maniera indefinita, confondendo cause ed effetti.  Ne resta un ritratto malconcio di una gioventù mai vissuta a cuor leggero, per una pura inclinazione personale. Siamo spettri di vite felici fallite. Difficilmente riusciremo a diventare chi sognavamo e se anche ci riuscissimo potremmo scoprire che non era quello che volevamo davvero.”

Three Questions to: Fatality

How and when was this project born?

Fatality was formed in 2016 by me (Josh Abbott, vocals), Gareth Brimley (guitar) and ex-drummer Chris Batson, with our first EP being released in the same year. We performed at Asylum, a legendary Chelmsford venue for the release and raised £200 for the SNAP charity from merch and CD sales. In 2017 we recruited bassist Matt Shynn and subsequently recorded our second EP, which we released in 2019. We did a small tour of the Prey EP in aid of MIND and raised over £500 this time. In November 2019 we parted ways with Chris, our drummer, and joined forces with Jordan Maze, who now completes our current line-up. Since his recruitment in late 2019 we’ve written and performed a new set of tracks with Jordan as well as some Fatality originals. We played our first show with Jordan on a live stream in Summer 2020.”

 

Is there any specific artist you would like to collaborate with?

“For me personally it would be Jacoby Shaddix from Papa Roach. He’s someone that has hugely inspired me to do what I do and I am really influenced by his energy and stage craft. It would literally be the highest moment in my career if we got to work with him on a track or a project. If he’s reading this, then get in touch!” [laughs]

 

What about your future projects?

“Well, at the moment we’re unable to play unless there’s a completely reduced capacity which isn’t what we’re all about so the simple answer is no. As soon as we’re allowed to perform in indoor or outdoor venues or at festivals then we will be tirelessly booking and performing at shows again. However, we have new music in the works. We have a few tracks that are ready to be released and a load of new material that we’re constantly working on and refining. The Lesson, Indemnify and Eight will be released over the next few months with the idea that we will accumulate these and more tracks into a third project at the end of the year, ready for when live music is back.”

 

 

Come e quando è nato questo progetto?

I Fatality si sono formati nel 2016 con me (Josh Abbott, voce), Gareth Brimley (chitarra) e l’ex batterista Chris Batson e in quello stesso anno è uscito il nostro primo EP. Per l’occasione ci siamo esibiti all’Asylum, una location pazzesca a Chelmsford, e abbiamo raccolto 200 sterline da devolvere in beneficenza dalla vendita dei CD e del merchandise. Nel 2017 abbiamo reclutato il bassista Matt Shynn e successivamente abbiamo registrato il nostro secondo EP, che abbiamo pubblicato nel 2019. Abbiamo fatto un piccolo tour per l’EP Prey, dove abbiamo raccolto più di 500 sterline a favore dell’associazione MIND, che si occupa di salute mentale. Nel novembre 2019 Chris e la band hanno preso strade diverse e abbiamo incontrato Jordan Maze, che adesso completa la formazione attuale. Da quando è entrato nella band a fine 2019, abbiamo scritto e suonato una serie di nuove canzoni con Jordan, ma anche alcuni nostri pezzi più vecchi. Il primo concerto con lui è stato un live in streaming quest’estate.

 

C’è qualche artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare?

Parlando personalmente, sarebbe Jacoby Shaddix dei Papa Roach. È un artista che mi ha ispirato moltissimo nel fare quello che faccio e la sua energia, il suo modo di stare sul palco hanno una grande influenza su di me. Se riuscissimo a lavorare con lui per un pezzo o un progetto, sarebbe letteralmente il picco della mia carriera. Se sta leggendo questo, contattaci! [ride]

Progetti per il futuro?

Beh, al momento non possiamo suonare se non con capienze estremamente ridotte e non è quello che stiamo cercando, quindi la risposta più semplice è nulla. Non appena sarà permesso esibirsi all’aperto, al chiuso o ai festival, allora ci prenoteremo e faremo di nuovo concerti senza sosta. Ad ogni modo, siamo al lavoro su nuova musica. Alcuni pezzi sono pronti per essere rilasciati e c’è un sacco di nuovo materiale su cui stiamo costantemente lavorando e che stiamo rifinendo. The Lesson, Indemnify e Eight usciranno nei prossimi mesi e c’è l’idea di raccogliere questi ed altri pezzi in un terzo progetto per la fine dell’anno, che sia pronto per quando tornerà la musica dal vivo.

 

Francesca Di Salvatore

Tre Domande a: Tugo

Come e quando è nato questo progetto? 

“Il progetto Tugo nasce agli inizi del 2018 dopo un paio di anni di letargo del nostro precedente progetto musicale. Venendo da anni di militanza sui palchi di mezza Italia con un progetto acustico piuttosto scanzonato, la voglia di infilare nuovamente il jack nell’ampli e imbracciare, stavolta, strumenti elettrici era tanta; abbiamo così deciso di dare vita a qualcosa di nuovo, partendo però da solide radici: un’amicizia ventennale e la sala prove di sempre. Mesi e mesi di jam interminabili in sala prove e a metà 2019 siamo tornati a calcare i palchi forti di 7/8 nuove canzoni firmate Tugo.”

 

Se doveste riassumere la vostra musica in tre parole, quali scegliereste e perché?

“Ruvida: quando sul palco si è solo in tre c’è poco da fare: si butta il cuore oltre l’ostacolo, ci si mette tanta passione e, se si cerca di suonare rock, provi a fare quanto più casino possibile coi pochi mezzi a tua disposizione. Power trio raffinati nella scena rock internazionale non ne ricordo: Nirvana, Biffy Clyro, Muse, Motorhead, Verdena… tutta gente che ha sempre prediletto l’acufene alla partitura per corno inglese.

Genuina: per carità, belle le schede audio, bello Logic e Ableton Live, belli i sampler, i sintetizzatori modulari e le drum machine. Ci piacerebbe davvero tanto sperimentare nuove sonorità, imparare a miscelare le forme d’onda per riprodurre digitalmente il barrito dell’elefante indiano; purtroppo il tempo che possiamo dedicare ad imparare ad utilizzare questi device è poco (abbiamo ormai una certa età) per cui, per adesso, facciamo ancora alla vecchia: jack nell’ampli, volume sul 8/9 e pedalare. Pochi fronzoli e tanta voglia di picchiare sulle pelli.

Nostalgica: il nostro suono, se anche solo ci guardiamo in casa (Italia), non è certo la moda del momento. Tra fenomeni it-pop e trap, sedicenti cantautori e finti gangsta, la scena rock nostrana è dormiente da anni. Siamo cresciuti musicalmente a cavallo degli anni ’00 e imprescindibilmente ne abbiamo assorbito i suoni e l’attitudine provando poi a riproporli coi nostri pezzi. Una battaglia persa in partenza ? Chi lo sa…”

 

Progetti futuri?  

“Nelle prossime settimane uscirà il video di Giorni, il primo singolo estratto dall’omonimo EP. Sicuramente dopo i bagordi del release party torneremo in sala prove per comporre nuovi pezzi che, molto probabilmente, ci porteranno in studio nuovamente prima della fine dell’anno. Al momento non abbiamo ancora live programmati, l’inverno si prospetta avaro di occasioni per la musica dal vivo soprattutto quando si parla di band emergenti; vedremo dove ci porterà la fama scaturita dal lancio del nostro primo EP e, nel frattempo, ci godiamo il “lavoro” in sala prove.”

Three Questions to: Stone Sea

How and when was this project born?

Stone Sea was formed by Elvis Suhadolnik Bonesso around 2013 in São Paulo, in Brazil. After the release of the album Origins, Elvis moved to Ireland, where Stone Sea became a band with three members and released two EPs, Vaporizer and Mankind Maze. The latter also includes the track Dream Song, whose music video has been recently released.”

 

If you had to sum up your music in three words, what would you choose and why?

“Strenght, submission and time. I like to imagine our songs like sea waves hitting the shores. The sea and the stones are the same, but time defines the correlation between one and another.”

 

What would you like to inspire in those who listen to your songs?

“Inspiring people not to be afraid to be themselves and to accept changes, which are the only-known constant in our lives.”

 

 

Come e quando è nato questo progetto? 

Intorno al 2013, gli Stone Sea sono stati fondati da Elvis Suhadolnik Bonesso a San Paolo, in Brasile. Dopo l’uscita dell’album Origins, Elvis si è trasferito in Irlanda, dove gli Stone Sea sono diventati una band di tre persone e abbiamo pubblicato due EP, Vaporizer e Mankind Maze. Quest’ultimo include anche la canzone Dream Song, di cui abbiamo recentemente fatto uscire il video. 

 

Se dovessi riassumere la vostra musica in tre parole, quali sceglieresti e perché?

Forza, sottomissione e tempo. Mi piace pensare alle nostre canzoni come le onde del mare che si infrangono sulla costa. Il mare e gli scogli restano gli stessi, ma è il tempo a definire il rapporto tra l’uno e l’altro.

 

Cosa vorreste trasmettere a chi vi ascolta?

Ispirare le persone a non avere paura di essere loro stessi e ad accettare i cambiamenti, che sono l’unica costante conosciuta nelle nostre vite. 

 

Francesca Di Salvatore

An Early Bird “Echoes of Unspoken Words” (Artist First, 2020)

In punta di piedi

 

Un titolo che è un paradosso e undici tracce che, guidate da un’onnipresente chitarra e una voce calda, esplorano una terra di mezzo tra il folk, il pop e l’indie: così si presenta Echoes of Unspoken Words, il secondo album di An Early Bird, al secolo Stefano De Stefano. 

Le protagoniste sono quindi le parole non dette, quelle più intime e silenziose, ma che spesso e volentieri pesano più di tutte. Ad ogni modo, in questo disco trovano finalmente la forza di emergere grazie all’incontro armonioso e ben congegnato tra chitarre e sintetizzatori, tra acustico e non. 

Echoes of Unspoken Words è un susseguirsi di immagini e toni malinconici, nostalgici ma anche “cinematografici” — se così vogliamo dire — perché ogni canzone potrebbe tranquillamente essere inserita nei titoli di testa o di coda di un film di Greta Gerwig. Non a caso, anche i video che accompagnano i cinque singoli pubblicati dal cantautore in questi mesi, da State Of Play a One Kiss Broke The Promise, raccontano una storia ben studiata e sanno davvero tanto di cinema indie.

Ma, come già è stato detto, è proprio il paradosso, quello già anticipato dal titolo e declinato con varie sfaccettature, ad essere il filo conduttore tra i vari pezzi. 

Abbiamo il guardarsi un po’ masochisticamente da lontano ma senza cercarsi fisicamente in From Afar, la necessità unita alla difficoltà di stabilire una connessione con l’altro in Racing Hearts, il desiderio destinato a rimanere irrealizzato di poter cambiare il passato in Talk To Strangers, in collaborazione con Old Fashioned Lover Boy, o ancora un “heaven in hell”, un paradiso all’inferno in Stay, simbolo che anche nel male c’è qualcosa di buono. Tutte queste piccole, umane e spesso dolorose contraddizioni si dipanano sulle corde di una chitarra e colpiscono chi ascolta nel modo più delicato e dolce possibile. 

Echoes Of Unspoken Words è quindi sì un album onesto, ma che arriva in punta di piedi e ti rimane accanto. 

Ed è una fortuna che sia uscito proprio in questo periodo dell’anno: un’ottima colonna sonora per prendersi del tempo per riflettere su se stessi, magari in una giornata di pioggia autunnale.

Oppure, se preferite, per immaginarsi come i protagonisti di un indie movie di Greta Gerwig.

 

An Early Bird

Echoes Of Unspoken Words

Artist First

 

Francesca Di Salvatore

 

Three Questions to: Reaven

Interview to Romeo, lead singer-guitarist of Reaven

 

How have you been doing during these hard times for music in general?

“It’s been a very weird period. The worst part was cancelling all our tours in Europe and in the US, but, on the other hand, there were some good aspects. We’ve been recording a lot for our new album in studio. We’ve been filming a new homemade music video on our last single Escape, which was composed and recorded during the quarantine. But it’s true that we’ve been asking ourselves many questions about our future in the music industry…”

 

How and when was this project born?

“It’s a very long story of love. I decided to create the band when I was 14 years old in high school. Vince (drummer, back vocals) and I were in the same school and I remember I just asked him something like “what do you think of creating a new band?”. He just told me that it would be a great idea and right away the next week we were having rehearsals. We’ve always been playing together since then.”

 

What about your future projects?

“We are about to release quite soon our new album For Tomorrow. It’s gonna be a 15 tracks album and we are very excited about it. Also, we are trying to reschedule some shows in Europe for 2021 and I think there will be some new music videos out within the next months.”

 

 

Intervista con Romeo, cantante e chitarrista dei Reaven

 

Come state vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?

È stato un periodo molto strano. La parte peggiore è stata dover cancellare tutti i nostri concerti in Europa e negli Stati Uniti, ma nonostante questo ci sono stati anche alcuni aspetti positivi. Abbiamo registrato un sacco per il nostro prossimo album in studio e abbiamo filmato un video “casalingo” per il nostro ultimo singolo Escape, che è stato scritto e registrato in quarantena. Ma è anche vero che ci siamo fatti molte domande riguardo al nostro futuro nell’industria musicale.

 

Come e quando è nato questo progetto?

È una storia d’amore molto lunga. Ho deciso di creare la band alle superiori, quando avevo 14 anni. Io e Vince (batteria, cori) andavamo a scuola insieme e mi ricordo di avergli semplicemente chiesto una cosa tipo “che ne pensi di creare una nuova band?”. Mi disse che era una grande idea e la settimana dopo stavamo già facendo le prove. Da allora, abbiamo sempre suonato insieme.

 

Per quanto riguarda i progetti futuri?

Tra non molto uscirà il nostro nuovo album For Tomorrow, che conterrà 15 tracce. Siamo molto emozionati al riguardo. Inoltre, stiamo cercando di riprogrammare alcuni dei concerti in Europa per il 2021 e credo che nei prossimi mesi uscirà anche qualche nuovo video.

 

Francesca Di Salvatore

IDLES “Ultra Mono” (Partisan Records, 2020)

Quale è l’atto più rivoluzionario per contrastare l’odio?

La risposta più ovvia è l’amore. 

Odio genera odio, una spirale autodistruttiva per l’animo umano.

Nelle menti neanderthaliane il romanticismo è noioso, scontato; sentimenti come l’amore, la gentilezza e la delicatezza sono fuori moda. Chi vince è sempre chi ama di meno, e la scelta più punk che possiamo fare è provare e dimostrare amore. 

Distruggendo gli stereotipi più comuni attraverso la loro personalissima visione ed interpretazione del punk, gli Idles, controverso gruppo proveniente da Bristol, ci presentano il loro nuovo album Ultra Mono, anticipato da vari potentissimi singoli, che girano sul web da vari mesi.

La band rifiuta l’idea di essere etichettata in un genere unico, tanto che si definiscono heavy post punk. Esordiscono nel 2009 e dopo un lungo processo di auto-definizione e ricerca del proprio sé ci regalano questo album. Un lavoro complesso, dove la rabbia di Joe Talbot  verso le problematiche del mondo moderno esplode in testi poetici incazzosi, accompagnato da strumenti indemoniati. L’accento tipico inglese conferisce ai brani quell’aura di eleganza, distrutta da chitarre pesantissime, batterie pestate a sangue e bassi profondi. La loro unicità stilistica ed emotiva è un diamante grezzo nel panorama musicale moderno.

Gli Idles sono come grassi lottatori di sumo che atterrano sulle tematiche più scottanti della nostra società, frantumando ogni pregiudizio, ogni forma di odio razziale o di genere, portando un messaggio di amore e pace in una maniera assolutamente non banale.

“Black is Beautiful” urla Talbot in Grounds, spezzando le reni al razzismo, tema ripreso anche in Model Village, brano iconico, dove si scagliano contro la mascolinità tossica, questo senso errato di ricerca di una vita perfetta in linea con i canoni della società. Qui ci esortano a prendere il volo, inteso non tanto in senso fisico ma come distaccamento mentale verso questi obsoleti stereotipi sociali.

Ci inducono a lottare, non come scelta ma come necessità contro le avversità della vita in War, utilizzando ritmiche spartane e chitarre distorte, tentando di riportare la musica a quello che è, ossia un mezzo comunicativo reale, sincero, dove non conta l’intonazione e la perfetta esecuzione dei brani, quanto il messaggio contenuto nei testi. 

Il suono intenso della chitarra nell’introduzione di A Hymm, alla quale si aggiunge la voce profonda di Joe che sussurra “I want to be loved, everybody does” trasforma il pezzo in qualcosa di introspettivo, di quel bisogno di essere amati che risiede in ognuno di noi, che molto spesso viene rinnegato per la vergogna o per la paura di essere rifiutati. Un brano che porta in alto la libertà dei sentimenti.

La loro poetica romantica dai toni bruschi è dimostrata anche in The Lover, manifesto del loro heavy post punk (“Fuck You, I Am A Lover”), dove distruggono questa moderna ondata di disfunzione emotiva, rigenerando il concetto di amore.

L’armonia caotica è destabilizzata dai 30 secondi di pianoforte dell’intro di Kill Them With Kindness, dove l’intento di Joe è proprio rompere ogni regola, utilizzando la gentilezza per portare scompiglio. 

L’intenzione è di abbattere tutti i tipi di cliché, in Mr. Motivator, donandoci quella carica positiva di cui abbiamo tutti fortemente bisogno.

Adrenalina, Libertà e Contenuti Profondi.

Una band controversa, reale, viscerale, romantica. 

Gli antieroi di cui avevamo fortemente bisogno. Tutto l’album sembra dire chi se ne frega della perfezione musicale, l’importante è il messaggio che vogliamo mandare.

Prendetevi ‘sto casino e fatene quel che volete.

 

IDLES

Ultra Mono

Partisan Records

 

Marta Annesi

Nirvana ”Nevermind”: Riflessioni da Anniversario

24.01.1991

Esce Nevermind, secondo album dei Nirvana.

Però, questa volta, andiamo sul personale.
Il 1991 è stato l’anno di Gish, di Ten, di Spiderland, di Nevermind.
È stato l’anno in cui sono entrato in un liceo, e per la prima volta in vita mia mi sono sentito sperso. Di colpo condividevo spazi con ragazzi che mi sembravano adulti, avevo accesso all’improvviso a un mondo a me ancora sconosciuto, fatto di tribù, di riti iniziatici, di codici, di divise.
Fedele alla (mia) linea “fatti i cazzi tuoi”, in un basso profilo esplorativo figlio della mia devozione per Jacques Cousteau, mi lanciai nell’esplorazione della fauna locale, alla ricerca di un’appartenenza che mi concedesse l’accesso a riti magici e conoscenze superiori.
MTV e un walkman Sony con cuffie a spugnetta erano le mie chiavi, un primo argomento con cui cercare i miei simili in quel mare di giacche e scarpe tutte uguali.
La cassetta di Nevermind fu l’inizio. Mi venne regalata copia artigianale con titoli scritti a caso, ma fu il contenuto a folgorarmi, un nuovo e aggiornato San Paolo, folgorato su corso Damasco. Mi ritrovai davanti all’inizio, al primo capitolo di una storia fatta di gruppi, di musicisti, di ragazzi che cantavano il lato debole della loro vita, una consapevole esposizione del loro lato oscuro, del loro essere fuori tempo e luogo. Era un’adolescenza protratta nel tempo, forse un pelo elaborata, ma finalmente raccontata per quello che spesso sembrava: una merda.
Fu la magia degli anni novanta: una generazione di artisti che non ebbe alcuna paura a raccontare in musica le ansie e le paure dei propri coetanei, che delle hair bands di fine anni ottanta presero davvero poco (anzi, a volte se le diedero proprio), che ostentarono con fierezza il loro essere deboli, sfigati, sensibili, feriti, umani. Ci siamo riappropriati il diritto di non essere cotonati e felici, rompendo lo specchio dei narcisissimi anni ottanta in cui ci siamo specchiati privandoci della visione periferica.
Per un quattordicenne fu totale e indefessa identificazione. Era un S-I-P-U-O’-F-A-R-E urlato al cielo da una generazione che, non era più la caricatura di se stessa.

Nevermind puzzava di palestra ogni volta che MTV passava il video di Smell Like Teen Spirit.
Nevermind era subacqueo come certe serate in cui affogavi in parole e risate e vino. 

Nevermind era lo stato d’animo giusto al momento giusto perché dentro di sé aveva lo spettro completo delle tue emozioni, era un prontuario per l’adolescenza, era testo sacro da sapere a memoria.
Nevermind era argomento utile a dividere il mondo tra chi ascoltava – ancora – i Guns e chi li avrebbe sepolti l’anno successivo, allo stadio, con l’aiuto di Cornell e Patton.
E il 1991 diventò l’anno degli Smashing  Pumpkins, dei Pearl Jam, dei Temple of The Dog, dei Nirvana, dei Red Hot Chili Peppers, dei R.E.M, e chissà cos’altro che ora non ricordo.

Quel disco è perfetto. Ha scorci incredibili. Quando le cuffiette del walkman salivano, regalando al mondo 49 minuti di mia assenza, i Nirvana sembravano essere in sei. C’era la batteria che suonava, non accompagnava, suonava proprio, la chitarra faceva anche i cori, dissonava, dissentiva. E sotto Novoselic ciondolava rimbalzando.
Nevermind appartiene alla categoria “unskippable”, saltare un brano sarebbe uno sgarbo agli dei, una ὕβϱις, degna di prometeiche punizioni, come essere incatenati per l’eternità a una roccia, accompagnati fino alla fine del tempo da una playlist di B-side dei Nickelback.

Ah, dimenticavo.
Un segreto: per me Nevermind si rivela, scopre le sue carte, insomma ti lancia quello sguardo che non puoi non capire in un punto preciso: sta tra la fine di Territorial Pissings e l’inizio di Drain You. La prima finisce in tragedia: Cobain perde la voce, Grohl è stato denunciato dalla batteria per maltrattamenti, insomma, dopo due minuti e ventidue di disperata e paranoide ricerca siamo alle urla, allo sguardo annebbiato, si sentono solo più un paio di calli sulle corde della chitarra. Un secondo di silenzio per sentire meglio lo schiaffone appena preso e inizia Drain You. Lì, in quella pausa, in quell’attimo alberga lo spirito del disco. Ci trovo il suo gusto, ci ritrovo i miei anni novanta.

 

Andrea Riscossa

Quiet Is the New Loud “Hidden Code” (Self Released, 2020)

Dieci tracce, sessanta minuti e un’unica storia che si srotola nell’arco di 46 anni, dal 1945 al 1991, ma è la parte centrale, ambientata nella San Francisco degli anni ’60 ad esserne il cuore pulsante. Così si presenta Hidden Code, il primo album della band triestina post-rock Quiet Is the New Loud. 

Un progetto rock strumentale decisamente interessante e fuori dagli schemi della discografia contemporanea, dove il singolo rapido tende a vincere sul disco e i concept album, che richiedono una certa attenzione e lentezza, sono sempre più rari. Al contrario, qui non c’è solo una storia da seguire – un vero e proprio noir che ruota attorno a quei cardini della vita che sono amore e morte – ma si potrebbe dire addirittura da ricostruire. L’ascoltatore deve così rimettere insieme i pezzi, prestando soprattutto attenzione ai numerosi salti temporali, e in questo modo diventa una parte attiva dell’album. Certo, nulla vieta di ascoltare Hidden Code come un semplice disco di rock strumentale, per rilassarsi o per caricarsi a seconda dei vostri gusti, ma così si rimarrebbe solo sulla superficie di questo lavoro. 

Ogni canzone infatti è collegata ad un pezzo del noir e queste didascalie sono leggibili sia sul sito Bandcamp sia presenti fisicamente nel packaging dell’album, che diventa quindi fondamentale per comprendere appieno la narrazione dietro a questo lavoro. O forse dietro non è la parola più esatta, dato che storia e musica si compenetrano, sono indissolubili e inscindibili l’una dall’altra: una vera e propria soundtrack che scandisce i vari avvenimenti nella vita dei due protagonisti. 

Ed è una soundtrack decisamente rock, che alterna momenti di quiete come l’inizio di Mistakes, Lights and Breaths ad altri che sono vere e proprie esplosioni di suoni, come il finale di Like A Daydream or a Fever, o ancora quel climax musicale che è Nemesys, che rappresenta un po’ un punto di svolta per il che questa band triestina ha voluto raccontare. 

Tensione, angoscia, amore, desiderio di vendetta: tutte queste sensazioni viaggiano, senza quasi mai proferire parola, tra chitarra, basso e batteria. Però, ad un ascolto più attento, prendono forma e diventano visibili come una fotografia, seppur mentale. Hidden Code si potrebbe così definire un album sinestetico, dove la musica non si esprime mai attraverso le parole, ma solo tramite i suoni e anche – o forse soprattutto – per immagini. 

Un lavoro difficile da realizzare, ma decisamente ben riuscito. 

 

Quiet is the new Loud

Hidden Code

Self released, 2020

 

Francesca Di Salvatore