Hey everyone, it’s Youssef from Random Ties a heavy hitting, feel-good rock band. A big thanks to you for giving us a voice via your interview.
How have you been doing during these hard times for music in general?
“Our goal has always been to remain consistent, provide quality music to our audience and reach a wider fan base geographically. We’ve been very busy this year despite the pandemic. In June we released our EP Believe, which I had put on hold for many years, with a couple of music videos on our YouTube channel. We also had an East Coast summer tour that ended last month at the Goose Lake Festival 50th anniversary in Michigan and a couple of weeks ago we released our latest single, Thawra, inspired by the deadly explosion that happened in Lebanon and rocked the nation, leaving over 300,000 people displaced and thousands still missing or dead. We worked with the incredible Layal Jebran, who produced the video with the most authentic shots. We hope this song will shed light of what’s going on down there and all proceeds will go towards supporting the Lebanese Red Cross.”
What would you like to inspire in those who listen to your songs?
“Don’t be afraid to speak up against injustice or corruption. If you are oppressed, stand up to the bully and know that every day is a chance to turn things around.”
What about your future projects?
“September is suicide prevention and awareness month, so we decided to release on the 27th the video for our song Why, which talksabout the struggle of losing someone close to you. We will also release our second EP in October, but we haven’t picked a title yet.”
Abbiamo fatto due chiacchiere con Youssef dei Random Ties, una rock band emergente di Detroit.
Come state vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?
Il nostro obiettivo è sempre stato quello di rimanere costanti, garantire ai nostri ascoltatori musica di qualità ed estendere il nostro pubblico a livello geografico. Nonostante la pandemia, siamo stati parecchio impegnati: a giugno abbiamo pubblicato il nostro EP Believe, che avevo lasciato da parte per anni, insieme ad un paio di video musicali sul nostro canale YouTube. Quest’estate siamo anche stati in tour sulla East Coast e abbiamo concluso il mese scorso suonando al cinquantesimo anniversario del Goose Lake Festival, nel Michigan. Inoltre, qualche settimana è uscito il nostro ultimo singolo, Thawra, riguardo la terribile esplosione che ha scosso il Libano, lasciando più di 300.000 sfollati e migliaia di persone tra vittime e dispersi. Abbiamo lavorato con l’incredibile Layal Jebran, che ha realizzato il video usando filmati autentici. Speriamo che questa canzone faccia luce su cosa sta succedendo laggiù e tutti i proventi andranno alla Croce Rossa libanese.
Cosa vorreste trasmettere a chi vi ascolta?
Di non avere paura a farsi sentire per combattere le ingiustizie o la corruzione. Se vi sentite oppressi, alzatevi in piedi e sappiate che ogni giorno è un buon giorno per poter cambiare le cose.
Per quanto riguarda progetti futuri?
Settembre è il mese della prevenzione del suicidio, quindi abbiamo deciso di rilasciare il 27 il video della nostra canzone Why, che parla proprio di quanto sia difficile perdere una persona cara. Ad ottobre uscirà anche il nostro secondo EP, ma non abbiamo ancora scelto il titolo.
Partiamo subito con una confessione: non appena questo gruppo californiano aveva annunciato l’uscita del loro secondo album, a distanza di tre anni dal loro primo LP Feel Something, la prima cosa a cui avevo pensato era stata che forse quest’anno sempre più simile al remake di Una Serie di Sfortunati Eventi avrebbe avuto una colonna sonora quanto meno appropriata.
Ovviamente in senso buono.
Già, perché se c’è una cosa che i Movements sanno fare bene – e lo avevano già dimostrato con il loro album di debutto – è parlare di tutti quegli argomenti decisamente poco piacevoli ma contro cui, volenti o nolenti, questo 2020 ha contribuito a farci scontrare e non sempre nel modo in cui eravamo abituati: la malattia, la perdita, la salute mentale, le difficoltà nelle relazioni.
Lo fanno con un sound ruvido e dei ritmi quasi ossessivi, di matrice primi anni duemila e che ricordano band come i Mayday Parade o i Good Charlotte.
No Good Left To Give inizia con In My Blood, canzone dai toni che sulle prime sembrano quasi sommessi, per poi esplodere verso la fine e lasciar intendere che anche questo album sarà crudo, graffiante e forse ancora più intenso del primo. In generale, il mood del disco può essere sintetizzato bene dalla quarta traccia, Tunnel Vision, una metafora visiva della depressione dove il cantante ammette di essere “angry and tired”, arrabbiato e stanco.
Sono proprio loro le due sensazioni predominanti, rabbia e stanchezza. Sono loro che accompagnano l’ascoltatore lungo tutte le 12 canzoni, in un tentativo di mettere su traccia audio cosa significa e cosa si prova quando si ha a che fare direttamente o indirettamente con problemi di salute mentale.
Non a caso, il singolo Don’t Give Up Your Ghost capovolge il punto di vista: chi canta è già passato attraverso il tunnel delle tendenze suicida e cerca di mostrare supporto e comprensione a chi invece ci sta passando in quel momento. “But there’s a beauty I believe you can find/Under the grief, under the compromise”, canta Patrick Miranda in una strofa. È forse uno dei pochi momenti di luce in un album che invece non ha paura di attraversare posti parecchio bui, ma forse questo si poteva capire già dal titolo.
No Good Left To Give. Non è rimasto niente di buono da dare.
Però forse non del tutto vero.
È rimasta la musica e quella, per fortuna per noi che ascoltiamo, è ancora decisamente qualcosa di buono.
Anfiteatro del Venda (Galzignano Terme) // 13 Settembre 2020
Praticamente c’è sto tizio, vestito in maniera leggermente eccentrica di scuro, cappellino da baseball calato sul viso a nascondere lo sguardo, che sta seduto al piano, e tamburella, giochicchia, insiste in maniera seriale, quasi ossessiva, su un paio di note gravi, le quali escono dall’impianto effettate e stridenti, completamente snaturate.
“Starà facendo il sound check”, presumo sia stato il pensiero mio e dei (non moltissimi) presenti, comodamente sdraiati sul prato inclinato che circonda il palco del Venda, mentre il sole lentamente prosegue il suo tragitto verso ovest, tuttavia ancora troppo alto sull’orizzonte per lasciar spazio allo spuntare delle luci della pianura padana, fondale naturale per le esibizioni da queste parti.
Tra una chiacchiera, un bicchiere di vino ed un paio di risa poco alla volta tutti si convincono del fatto che quella figura longilinea e vagamente “strana”, china sul piano, deve essere lui, dai, il signor Daniel Blumberg, trentenne inglese che in questa domenica settembrina porta in Italia, unica data nella penisola, in una location con pochi eguali, il suo recente On&On….
Il di cui sopra musicista non pare dare molta importanza alla situazione che lo circonda, intento com’è a guardarsi intorno quasi smarrito, a stuzzicare la tastiera, bofonchiare qualcosa in un microfono, accennare un paio di note sull’armonica, veder correre senza sosta una biondissima bambina (che ancora non so se potesse essere sua figlia o comunque appartenente all’entourage), sorseggiare del vino, alzarsi a far nulla in particolare per poi risedersi al piano, sistemare un libretto sul leggio.
In questo clima tra il bucolico dell’ambientazione, l’informale della domenica pomeriggio orario aperitivo, il surreale del vedere il motivo stesso del tuo pellegrinaggio in cima a queste colline intento a cazzeggiare in mezzo al palco che quasi per caso ti accorgi che gli ultimi due accordi di piano somigliano davvero molto a quelli di Madder, pezzo tratto da Minus, prima gemma regalata al mondo da Daniel Blumberg, risalente al 2018. Quando, diversi minuti dopo, si avvicina al microfono e con il suo timbro inconfondibile scandisce “It’s my morning answer” non ci sono più dubbi, è lei; semmai ti resta qualche perplessità per il semplice fatto che non sai ancora se sia effettivamente iniziato il concerto o meno, ma tant’è, inutile continuare a crucciarsi, meglio assumere una posizione più adatta e rispettosa verso quello che, e non lo dico solo io, è l’autore di uno dei migliori dischi del 2020 ed i cui concerti, e io non lo dico perché è la prima volta per il sottoscritto, sono sempre delle esperienze magnifiche.
Prendendo come assioma dunque che Madder sia stato il primo brano in scaletta, quello che emerge subito, senza troppi fronzoli, è la continua, incessante necessità, il bisogno che Blumberg sembra di avere di alterare, portandoli quasi fino al rumore vero e proprio, quasi fino alla cacofonia, i suoi brani; i quali, beninteso, sono dei capolavori, dei veri miracoli cantautoriali.
Daniel Blumberg ha una facilità e creatività espressiva e compositiva imbarazzante da quanto è sfacciata, brani come Minus, terzo brano in scaletta quest’oggi, o la title track On&On, che ha trovato spazio verso la fine del live, sono composizioni che la stragrande maggioranza dei cantautori al giorno d’oggi pagherebbe per riuscire a comporre, farebbe carte false per avere qualcosa di simile a Permanent in repertorio, credetemi.
Un incrocio tra MarkLinkous e KeatonHenson ed un pizzico di SufjanStevens (con sfumature nella voce di BenSollee aggiungerei) sotto il quale scorre una vena rumorista di pura avanguardia, motivo per il quale più che a veri e propri concerti, quelli di Daniel Blumberg somigliano ad esibizioniche potreste vedere in qualche MoMa o Guggenheim o in qualche galleria d’arte moderna, come quando in un momento di passaggio tra Family and On&On, unite da lenti, lentissimi tocchi di piano e vaneggi di armonica, ha passato svariati minuti a creare un fastidiosissimo rumore con un microfono, o come prima di Teethgritter, quando i minuti sono trascorsi nel guardarlo far cadere all’infinito nella coda del piano diversi oggetti metallici (monete forse?).
È la struggente, severa carezza di The Bomb a chiudere quest’esperienza così trasversale, così vera; il sole ora sì è giunto a destinazione, dietro alle colline e al contempo le luci del mondo, mai così distanti, disegnano un tappeto intermittente alle spalle di quest’uomo, questo concentrato di creatività e stupore, di dolcezza e frastuono, che stranito, spaesato, si alza dal pianoforte, un abbozzo di inchino, non una parola, due passi a lasciare gli assi del palco del Venda, si siede poco lontano, “Minus the intent to feel, I’m here”.
Dentro ognuno di noi c’è un’energia vitale che ci spinge verso la realizzazione dei nostri sogni.
Ma che succede quando questa fonte inesauribile di idee e concetti è messa a dura prova? Il dolore sembra spegnerci, risucchiando in un vortice oscuro tutto ciò che era luce.
In tale stato di cose è difficile pensare, creare, tutto è piatto e grigio, monotono. Non siamo in grado di rialzarci e ci crogioliamo nell’apatia.
In questi casi abbiamo bisogno di un mentore, qualcuno che ci indichi la via giusta per risalire dal dirupo. Qualcuno che ci insegni come incanalare questa energia distruttiva verso qualcosa di costruttivo.
Ed ecco il significato che si nasconde dietro Fall To Pieces, il nuovo album di Tricky, che da trent’anni ci delizia con il suo stile stratificato, complesso, che racchiude trip hop, elettronica, indie e rock, caratterizzato da una cupa malinconia.
Ha impiegato tutta la forza, la sua energia in questo disco, dopo la tragica perdita di sua figlia. La vita per il cantante e produttore di Bristol, non è mai stata una passeggiata. Cresciuto nei quartieri disastrati, ha subito la perdita della madre a soli 4 anni, è stato salvato proprio dalla musica. E il suo ringraziamento alla Dea è tutto in questo disco.
In un momento così catartico, dove stava pensando di lasciar perdere ogni cosa ha tirato fuori gli attributi ed è riuscito a realizzare un’album spaziale, complicato ed elaborato, grazie alla partecipazione di Marta Złakowska, cantante polacca scoperta nel suo ultimo tour, quando, essendo rimasto senza voce femminile, ha colto il talento di questa ragazza.
L’album è composto di pezzi dalla durata varia, con cambi repentini sia a livello stilistico che emotivo. Rappresenta un viaggio a tappe verso l’accettazione del lutto, dove il dolore è palpabile, ma c’è anche tanta voglia di lottare per rialzarsi.
L’album è annunciato da Fall Please, risultato di un mix stilistico in cui la voce di Martasi muove sinuosa su una base ritmata composta da percussioni unite all’elettronica, un pezzo che ti fa alzare il culo e scatenare, e fa respirare l’aria dei club londinesi, riuscendo a spegnere la rete neurale.
La vera anima trip hop di Tricky prende il sopravvento in Take Me Shopping, brano più lento, cupo e mentale: ci obbliga a riaccendere il cervello con un testo straziante, disperato reportage di un’apatia lancinante, dove lo stile di canto profondo e riflessivo si fonde con la voce di Marta, morbida e aggraziata.
Hate This Pain sono 3 minuti e 24 secondi di inconsolabile sconforto: questo pezzo ci conduce in lande desolate sferzate da venti gelidi che, straziando l’anima dell’ascoltatore grazie all’accompagnamento di un pianoforte malinconico e alla ripetizione cadenzata della frase “I hate this fucking pain”, racchiude tutto il dolore provato dal lutto.
Con uno stacco pauroso veniamo gettati in Chills to the Bones (che già solo il titolo “freddo fino alle ossa” ci fa intendere la profondità del brano) che presenta un’intro molto stile Prodigy, proseguendo con un flow R&B.
Per sottolineare quanto questo disco sia frutto di un’elaborazione del dolore e una conseguente voglia di rinascere, troviamo Like a Stone, uno dei pezzi più introspettivi dove Trickyspalanca la porta della sua parte più intima, attraverso una base coinvolgente drum’n’bass, molto stile Massive Attack. Quando la canzone si arresta violentemente, possiamo entrare in punta di piedi in Throws Me Around, la cui base riproduce, attraverso il suono del tamburo di una batteria, i battiti cardiaci, quasi a ricordarci che nonostante ogni avversità il cuore è ancora lì, ed è vivo.
La camaleontica personalità di Tricky che gli permette di produrre strutture musicali diversificate emerge indubbiamente in Vietnam, pezzo caratterizzato da schitarrate lunghe e riecheggianti, contestualizzate dalla perfetta simbiosi delle voci: due minuti e mezzo di pura malinconia.
Questo album racchiude tutta la forza, la disperazione, la caparbietà di un artista che dopo trent’anni continua a spaccare i culi, nonostante la perdita subita. Come Trickystesso asserisce “You’ve gotta fucking get up and fight. Right now I’m in fight mode. And I feel really good. I do.”
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Acieloaperto
Villa Torlonia (San Mauro Pascoli) // 01 Settembre 2020
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Nothing’s hurt me more than men that grew up with no consequences. La padrona di casa ci accoglie con queste parole, dopo poche note, nella prima traccia di questo album.
Il primo ascolto avviene in preda a un lieve senso di colpa per genere, orientamento, storia personale e situazione endocrina.
Poi un’immagine, di mia figlia nella vasca, cinque anni, capelli raccolti, luce da tramonto, mi riappacifica col mondo e con questo album. Perché, alla fine, noi maschietti viviamo un enorme conflitto interno, fatto di sensibilità soffocate vs. celodurismo istituzionale, di poetica interna vs. gara di rutti. A volte neanche noi ci sopportiamo, solo non siamo capaci di cantarlo così bene.
Sarah Walk aveva piacevolmente stupito la critica con il suo primo album, Little Black Book, nel 2017. Un disco fatto di pianoforte, testi profondi e una voce notevole.
Questo Another Me è frutto di una nuova produzione, affidata a Leo Abrahams, musicista, autore e produttore britannico, che vanta collaborazioni con Regina Spektor ed Editors, Paolo Nutini e Brian Eno.
Ma delle piano ballads del primo lavoro qui rimane poco. I brani sono sorretti da sezioni ritmiche più sytnh pop, arricchendo il ritmo interno dell’album, e i movimenti all’interno delle singole canzoni giocano con le saturazioni, di strumenti, di voce.
E proprio voce di Sarah merita una menzione a parte. Così come la sua estensione vocale, che soprattutto nei bassi lascia piacevolmente sorpresi gli ascoltatori. Ecco, avete presente quelle presunte cantanti, con trucco da Casa nella Prateria e ukulele in mano, sguardo verso l’alto a destra e sequenza di sussurri e ultrasuoni con distruzione programmatica di un qualsivoglia pezzo intimista? Bene, la nostra Walk è la loro nemesi, per uso del diaframma, per aria tra le corde vocali, per vocabolario, intenzione e obbiettivo finale. È un album che viene cantato, non sussurrato, e a gran voce si trattano temi come la misoginia, vulnerabilità, l’autodeterminazione, la definizione di se stessi.
È un album crepuscolare, per ritmi ma soprattutto per la sospensione in cui galleggia: è una continua riflessione sulle azioni, quindi sull’essere, in attesa di una risposta o di una conseguenza. È un album sulla terza legge della dinamica femminile, che analizza il personalissimo segmento che unisce azione e reazione, causa ed effetto.
La cantante stessa spiega:
Con questo album, vorrei sottolineare che ci sono molte cose che le donne sentono e sperimentano al di fuori delle relazioni romantiche. Ci sentiamo in colpa quando diciamo no, ci assumiamo responsabilità anche quando non dovremmo, ci scusiamo anche se non abbiamo fatto nulla di male. Queste sono tutte situazioni che sto cercando di disimparare. Questo è un album sull’emarginazione, sull’essere donna, sull’imparare a stabilire i confini senza scuse, e senza sentirsi in colpa per questo. Imparare ad amare del tutto senza aspettative.
Another Me è un bellissimo flusso di coscienza, un monologo interiore a voce alta, personale ma universale, lirico a volte, mai barocco.
Ci sono dubbi e interrogativi in questo album, che riescono ad arrivare anche a noi maschiacci, senza sforzi eccessivi, anche se spesso abbiamo evitato le conseguenze.
E alla fine dell’album avrete quella stessa sensazione di quando, a fine serata, dopo qualche pinta, vi accorgerete di aver ascoltato una persona di valore, che non è mai cosa scontata.
Un concerto immersivo nell’Immensità, l’ultimo sorprendente disco del cantautore torinese
Risvegliati. Apri gli occhi e le orecchie, e guardati intorno. Rialzati, muoviti e riappropriati degli spazi comuni della città. Torna a incontrare le persone, e a far parte dellacomunità. Questo è un risveglio.Eil nostro è naturalmentemusicale.
La settimana di acieloaperto finisce nell’“Immensità”. Questo il titolo del nuovo sorprendente disco di Andrea Laszlo De Simone, che suonerà per intero alla Rocca Malatestiana di Cesena domenica 16 agosto a pochi giorni dal concerto galvanizzante, intenso e tutto esaurito di The Comet is Coming.
Dopo l’esordio di “Uomo Donna”, “Immensità” ha portato Andea Laszlo De Simone ad essere apprezzato anche all’estero, in particolare in Francia e Regno Unito. Ora torna in Italia, finalmente in concerto, per pochi e speciali appuntamenti estivi. Tra questi, anche acieloaperto.
Sul palco nove musicisti in un concerto immersivo, un’orchestra mista tra synth, elettronica, cori, archi e fiati, un intreccio di strumenti classici e moderni: una versione contemporanea della musica da camera proprio come “Immensità” ripropone il concetto di suite. “Immensità”, uscito nel novembre 2019 per 42 Records e nel 2020 in Francia, UK, USA, Canada e Belgio per Ekleroshock/Hamburger Records è infatti un’opera complessa che lega musica e immagini, divisa in quattro capitoli ma fruibile anche in una sola traccia, come un’unica sinfonia.
Prima del cantautore torinese, sul palco di acieloaperto si esibirà Calabi.
All’anagrafe Andrea Rota, Calabi è un cantautore bergamasco. Prende il nome dello scienziato che più lo ha ispirato nella sua vita parallela che lo ha visto dedicarsi alla fisica teorica. Andrea scrive libri per bambini, e insegna loro la matematica attraverso il linguaggio universale dell’estetica. Le sue canzoni sono caratterizzate da una perfetta alchimia tra il suo cantautorato caldo e avvolgente, e la produzione elettronica di Federico Laini, già suo compagno di avventura nei Plastic Made Sofa, che le veste di un abito pop, colorato e moderno.
La rassegna
Organizzata dall’associazione culturale Retropop Live nella splendida Rocca Malatestiana di Cesena nella suggestiva Villa Torlonia di San Mauro Pascoli (FC), la manifestazione ha portato sui palchi di queste magiche location artisti del calibro di Eels, Calexico, Black Rebel Motorcycle Club, Xavier Rudd,Belle and Sebastian, Mark Lanegan, Niccolò Fabi, Gogol Bordello, solo per citarne alcuni. Ha i patrocini dei comuni di Cesena e San Mauro Pascoli, e della Regione Emilia-Romagna.
L’associazione culturale Retro Pop Live è attiva sul territorio cesenate e romagnolo da quasi un decennio. Ha operato in numerosi locali e rock-club del territorio, organizzando concerti e distinguendosi per la proposta artistica che spazia all’interno del rock alternativo in tutte le sue sfaccettature.
PROGRAMMA
già tenutosi | sabato 18 luglio: REMO ANZOVINO (ingresso libero)
già tenutosi sabato 1 agosto: CALIBRO 35(tutto esaurito)
già tenutosilunedì 10 agosto: MAX GAZZÈ(tutto esaurito)
già tenutosigiovedì 13 agosto: THE COMET IS COMING(tutto esaurito)
domenica 16 agosto: ANDREA LASZLO DE SIMONE
sabato 29 agosto: NOUVELLE VAGUE (data unica italiana)
martedì 1 settembre:FRANCESCA MICHIELIN
INFORMAZIONI PER IL PUBBLICO
La Rocca Malatestiana di Cesena apre alle ore 19:00. L’inizio del concerto di Calabi è previsto per le ore 20:30; a seguire alle 21:45 partirà il live di Andrea Laszlo De Simone.
I biglietti della rassegna musicale sono disponibili in prevendita sul circuito TicketOne.
Le aree concerto prevedono esclusivamente posti a sedere, e saranno rispettate le norme anti-covid disposte dal protocollo regionale per lo spettacolo dal vivo.
Info line al 339 2140806 oppure info@acieloaperto.it. Maggiori informazioni sono consultabili sul sito www.acieloaperto.it o sulla fan page facebook “acieloaperto”
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Acieloaperto
Rocca Malatestiana (Cesena) // 13 Agosto 2020
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Acieloaperto
Rocca Malatestiana (Cesena) // 10 Agosto 2020
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Piazza Castello (Sesto al Reghena) // 9 Agosto 2020
Vengo regolarmente a Sesto al Reghena per il Sexto ‘Nplugged dal 2007, quando esordii in Piazza Castello di fronte a sua immensità Antony and the Johnsons. L’ultima mia volta a queste latitudini è una ferita ancora aperta, leggasi Sharon Van Etten, annullato per maltempo mentre parcheggiavo la macchina con il mio bel biglietto in mano. Il virus mi aveva precluso l’ennesima serata con il mio grande amore Chan, ma non può piovere per sempre, giusto? Ed ecco che i miracoli (perché di questo si tratta) a volte accadono e in piena emergenza pronte tre serate tre per palati fini, perché il pubblico di Sexto oramai ha aspettative che vanno dall’alto in su.
Stasera per me è una primizia, dopo un lungo inseguimento, perché finalmente vedrò il mio gruppo musicale danese preferito (e uno potrebbe dire “sai che concorrenza”, al che io risponderei “e gli Aqua dove li metti?”), ovvero gli Efterklang.
Premettiamo subito che parliamo di un concerto CLAMOROSO.
Cla – mo – ro – so, ve lo sillabo, qualora non fosse passato il messaggio.
In tutta sincerità confesso che mi aspettavo molto, per la caratura della band in primis, poi perché si presentava in formazione a sette, che ha sempre un suo fascino, e perché adoro la loro capacità di cambiarsi d’abito con una disinvoltura e naturalezza fuori dall’ordinario, propria delle grandi band.
Ecco, visto che si parla di abiti, vorrei mi fosse concessa una piccola digressione su Caspar Clausen, voce degli Efterklang e da stasera mio nuovo spirito guida. Si presenta sul palco con un calice di vino bianco, capelli biondi fuori taglio, come un frontman dei Bee Hive senza il doppio colore, una fronte enorme, un abbigliamento che meriterebbe un trattato a parte, total white, camicia abbondante nelle maniche, pantalone fuori moda alto in vita, sandalo forato di dubbissimo gusto (mise che sarebbe stata perfetta nelle commedie anni ’80, nelle scene all’interno delle discoteche, quando ci sono le comparse che ballano in maniera imbarazzante con le braccia lungo i fianchi, spero di aver reso l’idea). Semplicemente perfetto. Ciliegina sulla torta una sorta di bipolarità del nostro che sono riuscito a gestire solo dopo alcuni brani, in quanto mi soffermavo rapito a guardarlo passare in tempo zero dal trasporto del canto al fissare immobile persone a caso nelle prime file, e sorridere loro, con quell’espressione come dire, alla Mariano Giusti per capirsi, il personaggio lievemente eccentrico che Guzzanti interpretava in Boris. Se ce l’avete presente bene, altrimenti non è che posso fare tutto io.
Ad ogni modo un’ora e mezza circa farcita di bellezza, così tanta che si fatica a contenerla in un semplice live report, perché l’iniziale Monument, o Vi Er Uendelig (noi siamo eterni, come ci traduce Caspar), quasi una ninna nanna, piuttosto che The Colour Not Of Love erano state già capaci di irradiare e riempire di magia la piazza, tutta, compresi i vuoti dei distanziamenti, e abbracciare e abbracciarci, sotto la stessa luna, sotto lo stesso campanile che sovrasta il palco.
Una scaletta che attinge principalmente da Piramida e dall’ultimo Altid Sammen, che alterna brani in lingua inglese a brani in danese, e per quei strani, sovrannaturali, inspiegabili meccanismi che solo la musica dal vivo sa creare, sulle note Hold Mine Hænder, tutto il pubblico diventa d’incanto connazionale dei sette sul palco, e per alcuni dolci minuti un canone delicato e sognante tra palco e platea rende più di qualche occhio lucido (eccomi).
Sedna apre i numerosi encore, a cui fa seguito una Black Summer arricchita da una coda di sfacciata bellezza (Siv Øyunn Kjenstad, sappi che sei una meraviglia dietro a quella batteria, ed hai una voce celestiale, e meglio se mi fermo). A questo punto del concerto la famosa quarta parete è stata già abbattuta da tempo, sulle note di The Ghost, Caspar Clausen si siede a bordo palco, a due metri dalla platea, gli si affianca il basso (e il baffetto) di Rasmus Stolberg, il pubblico si alza in piedi e parte un convinto battimani a tempo, si avverte palpabile la sensazione che in condizioni “normali” tutto il pubblico sarebbe già da tempo sotto il palco, a ballare e a cantare, ma non si può, non ancora, per cui “se Maometto non va alla montagna…”, ecco che Alike mette i titoli di coda, con i sette che, uno strumento a testa (tra i quali i cucchiaini e una diamonica), totalmente in acustico, scendono dal palco, percorrono con molto rispetto il periplo di piazza Castello, e voglio pensare che non sia stato un caso che le ultime parole cantate in questa serata indimenticabile siano state queste:
The days are gone and the game was fun
The path was wrong, but it gave us hope
The more we found, the more we grew
Upon the truth, upon the truth
And it made us feel alike
Con tutta quest’afa schiacciante, è ora di portare una ventata fresca: Hellfire Booking ed Erocks Production sono felici di annunciare i Neck Deep!
Da piccolo progetto indipendente a uno dei gruppi più esplosivi della scena pop punk degli ultimi anni, i Neck Deep hanno sbaragliato tutto quello sul loro percorso. Quattro album, un’infinità di tappe al Warped Tour, la propria app, tour con colossi come i blink 182 e quattro premi alle spalle, i giovani gallesi sono pronti a stravolgere nuovamente tutta l’Europa.
Il quintetto di Wrexham verrà a trovarci per la prima volta da gennaio 2019, per un’unica tappa sconvolgente presso i Magazzini Generali di Milano. Venite anche voi a saltare sotto il palco!
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Acieloaperto
Rocca Malatestiana (Cesena) // 01 Agosto 2020
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L’atmosfera è strana, diversa. Siamo seduti e siamo pronti. Non possiamo stare vicini ma, dopo mesi di attesa, abbiamo un palco davanti.
È quasi irreale da quanto è bello.
22.00
Ci siamo. La platea è piena; sì, piena, perché il concerto è sold out e le distanze che ci separano sono riempite dalla voglia di ognuno di noi di tornare a vivere la tanto agognata dimensione live. Da fotografa di concerti ricomincio da qui perché, caso vuole, l’ultimo concerto fotografato prima del lockdown è stato proprio quello dei Calibro 35, al Locomotiv di Bologna, durante il primo tour del nuovo disco, Momentum, uscito per Record Kicks lo scorso gennaio.
Gabrielli e soci salgono sul palco e il film ha inizio.
Come se la puntina girasse sul 33 giri di Momentum, Glory-Fake-Nation sancisce l’inizio del nostro ritorno alla musica dal vivo e la batteria di Rondanini scandisce una marcia incalzante che ci guida alla scoperta di una scaletta pressoché perfetta.
Eccoci, Stan Lee fa il suo ingresso. Siamo in una Milano a mano armata soul, che strizza l’occhio alla modernità, ma anche un po’ ai ghetti di Brooklyn.
Il disco prosegue con la terza traccia, Death of Storytelling, sognante, vibrante, perfetta.
Continua l’inseguimento con lui, IL pezzo: SuperStudio. Forse il più amato di Decade (2018), arriva preciso e tagliente come il piombo di una calibro 9, per poi lasciare spazio al funk, quello puro, che ti entra dentro. Qui la sezione ritmica fa godere e, se non stai attento,quella sedia (che, diciamocelo, sta un po’ stretta) diventa il tuo dancefloor sulle note di CLBR35, che si specchia con il suo lato A e il funk-rock spaziale di Bandits, verso la fine della scaletta.
Ma torniamo a noi e alle atmosfere un po’ noir di Automata e Tom Down, che ci trasportano in un romanzo di Raymond Chandler, dove l’investigatore privato dei romanzi hard-boiled degli anni ’30 sbircia attraverso la veneziana del suo ufficio, mentre in un vicolo lercio di China Town si sta consumando l’ennesimo, efferato, delitto.
A questo punto la macchina da presa torna negli anni ’70 e l’occhio di bue insegue un’auto spinta a folle velocità, in mirabolanti progressioni funk-jazz con botta e risposta tra il basso di Cavina e l’hammond di Gabrielli, che ci catapultano nei B-movies tanto amati da Tarantino.
Dopo la godibilissima Thrust Force e Universe siamo a metà scaletta e l’atmosfera si fa fumosa. Come al cinema, siamo tutti incollati alla sedia, in attesa del colpo di scena… che arriva, eccome se arriva.
Come? Con una chicca dall’ultimo album Momentum, Fail it till you make it, con quella batteria leggermente indietro che ti trascina, ti coinvolge e ti sconvolge, per poi incalzare e lasciare spazio all’assolo del sax di Gabrielli. Travolgente.
Non poteva che seguire 4×4 (sì, sono di parte, adoro questo pezzo); qui il protagonista del nostro film si muove come un gatto all’ombra dei lampioni di una città distopica, per poi precipitare nel vortice delle chitarre di Martellotta.
S.P.A.C.E. e il flauto traverso di quel genio di Gabrielli ci fanno tornare negli anni ’70; siamo ormai ai 3/4 della scaletta e Black Moon omaggia la meravigliosa luna che c’è in cielo questa sera, a far da cornice a questo concerto così tanto atteso dagli amanti del genere e dagli amanti della musica in generale perché, ragazzi, non so se fino a qui l’abbiate capito, ma stiamo parlando di Musica con la M maiuscola, grazie anche alla magistrale produzione ad opera di Tommaso Colliva.
Finalmente arriva lo space western di Bandits on Mars e noi balliamo, ormai inebriati dal funk che ha intriso ogni molecola del nostro corpo e, a seguire, il ritmo sincopato di Ungwana da S.P.A.C.E. (2015), il quinto album in studio del gruppo.
Con One nation under a format, il cui titolo omaggia George Clinton e i suoi Funkadelic, e Trafelato, arriviamo alla fine di questo viaggio.
Ci manca un po’ Travelers, ma non gliene facciamo una colpa perché dopo i primi saluti arriva, come un regalo sotto l’albero, la Giulia che sfreccia in Bovisa, tra gli applausi e i sorrisi del pubblico.
Titoli di coda, il film si chiude.
Il merch va a ruba e mi lascio soffiare sotto al naso l’ultima copia del vinile di Decade (argh!).
Niente panico, c’è quella dolce musicassetta snobbata dai più, che mi chiama.
È mia e Gabrielli ci lascia il suo autografo sopra.