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Mourning [A] BLKstar “The Cycle” (Don Giovanni Records, 2020)

Niente inganni, niente trucchi. È andata esattamente così.

Mi stavo apprestando ad uscire per la mia consueta corsetta e ricevuto un pacco all’ultimo momento dal partner di sudata, per darmi un po’ più di coraggio e vincere le possibili resistenze e le alternative certamente più allettanti che la mia psiche avrebbe sicuramente tentato di propormi, avevo optato per gli auricolari a farmi compagnia. Avevo già stabilito che avrei ascoltato i Fontaines D.C., perché Dogrel aveva la durata perfetta per il giro in programma (già testato, se non ci sono intoppi apro il cancello di casa a metà Dublin City Sky). Sta di fatto che mi ero appena cambiato, un’ultima scorsa al feed di Twitter, più per consuetudine che per reale necessità, quando avevo incrociato il tweet che come fai ad ignorare e più o meno recitava “Uscito oggi The Cycle. Disco dell’anno. Punto”. Per curiosità controllo se esisteva questo nome a me totalmente ignoto su Spotify, ed in effetti c’era: Mourning [A] BLKstar. 

Senza pensarci troppo su premo play e parto. Totalmente alla cieca. Precisazioni doverose: non avevo mai, mai sentito nominare questo nome, non sapevo che genere facessero (o facesse?), non sapevo da dove fossero (fosse), il nulla. E l’aspetto ancor più peculiare di tutta questa storia è che mentre scrivo queste righe sono nella stessa medesima situazione di cui sopra. Questo giro di proposito. Prima volta che mi capita nella mia gloriosa (rotfl) ultradecennale (lol) carriera (wtf) di recensore musicale di ascoltare e successivamente scrivere di un disco senza avere un minimo di contesto, due coordinate in croce, una mezza riga di biografia. A tal proposito ho sempre trovato assolutamente stimolante per possibili interminabili discussioni il passaggio di un disco dei Uochi Toki, Libro Audio, quando su L’Osservatore, L’Osservatore Primo, Napo enuncia “Non m’interessano i contesti sociali dai quali i gruppi musicali provengono, a meno che non si tratti di alieni, navi spaziali od antichi guerrieri più o meno medievali”. Ve l’ho buttata là intanto, poi un giorno magari ci torniamo.

Torniamo a me e alla mia corsa. Saranno gli auricolari di buona qualità, sarà che sto attraversando una sperduta stradina ai cui lati si distendono ettari di frumento ed altre non meglio identificate colture, sarà che a 4.50 al chilometro le difese si fanno più labili (ebbene sì, sono tornato sotto i 5 al chilometro) ma ci metto davvero poco a farmi ipnotizzare, forse trenta secondi e mi trovo a correre a Bristol con “3D” Del Naja e Beth Gibbons, che non sapevo corresse, e approfitto per dirle che mi innamoro di lei ogni qual volta la vedo fumare durante Glory Box su Roseland NYC Live. Passa poco e una traversata oltreoceano mi catapulta a Brooklyn, dove ad attendermi trovo Tunde Adebimpe e Kyp Malone, per poi spostarmi ancora verso ovest, destinazione Cincinnati, ospiti di Yoni, Adam e David e poi ancora più in là, verso la San Diego di Sumach Ecks. 

Sono queste le coordinate entro le quali si colloca questo The Cycle (ah, la copertina non ricorda tantissimo quella di Jane Doe, dei Converge?) il trip hop di matrice bristoliana targato Massive Attack e Portishead, le sfumature black dei primi TV On The Radio, il sommesso incedere dei Clouddead, il mood straniante, fuori fuoco, polveroso di Gonjasufi. Il tutto accompagnato da ottoni che suonano un peculiare klezmer sotto ketamina mentre ammiccano senza troppa timidezza in direzione Detroit, Grand Boulevard, citofonare Motown. O se volete un riferimento più recente alcuni passaggi dei The Roots.

Raggiungo la dimora sugli acuti irreali di So Young So, il tempo di una doccia e riprendo a lavorare (meraviglie dello smart working) in attesa della cena, e contestualmente riprendo l’ascolto. E non scende di livello, non perde un colpo nemmeno a cercarlo. Ecco, ascoltare questi Mourning [A] BLKstar ti lascia lo stesso senso di ammirazione (o invidia?) che provavi da bambino, quando avevi l’amico fortissimo a giocare a calcio, ma quando te lo trovavi a giocare a basket era ancora meglio, per non parlare di quando si metteva a sciare, snowboard o sci non faceva differenza. Questi stronzi fanno bene tutto (volevo scrivere dannatamente bene, come nei migliori doppiaggi italiani), qualsiasi vestito decidano di mettersi lo indossano alla perfezione, e la loro camminata rimane assolutamente inconfondibile; sono eclettici, liberi, e pieni di idee.

Ed ora, mentre in sottofondo scorrono le note di 4 Days (al minuto 5.40 quell’ipnotico passaggio dispari voce / pianoforte mi muove quasi alle lacrime), brano di chiusura di questo enorme lavoro, e non solo per i quasi 70 minuti di durata, eccovi le informazioni di cui vi sono debitore, ma che potete tranquillamente bypassare qualora la pensaste come il caro Napo: i Mourning [A] BLKstar più che una band nel senso stretto del termine sono un collettivo, di stanza a Cleveland, che ruota attorno alla figura di Ra Washington, il quale pare abbia portato dodici abbozzi di canzone in sala prove e tutti i musicisti abbiano creato e arrangiato le loro parti direttamente sul posto (delle altre sei non c’è dato sapere). Il numero dei membri varia, a vedere le foto dallo splendido loro sito e le varie line up accreditate. Ad oggi sembra siano in otto, abbiano tre cantanti e nessun bassista. Ed una bio che potrebbe rimettere tutto in discussione. O forse no:

We are a multi-generational, gender and genre non-conforming amalgam of Black Culture dedicated to servicing the stories and songs of the apocalyptic diaspora.

 

Mourning [A] BLKstar

The Cycle

Don Giovanni Records

 

Alberto Adustini

Mark Lanegan “Straight Songs of Sorrow” (Heavenly Recordings, 2020)

Catabasi Elettrificata

 

Mark Lanegan si aggiunge alla folta schiera di personaggi che possono vantare una gita agli inferi. Con un paio di differenze: non è il protagonista di un racconto, è l’autore. E là sotto, invece di amori perduti e antenati, è andato a cercare gli anni della sua gioventù, e si sarà fatto un paio di whiskeys, prima di risalire. 

Il nostro eroe viene dallo stato di Washington, che, evidentemente, qualcosa nelle falde acquifere deve averlo, dato che produce ottima legna e artisti leggendari.
Un’infanzia infelice, un’adolescenza turbolenta, un gruppo seminale e profetico, gli Screaming Trees, una Seattle come palcoscenico, prima che diventasse caput mundi del grunge. Anche se nel movimento lascia una zampata, facendo vibrare i vostri subwoofer a colpi baritonali, perfetto contraltare per Layne Staley nel disco dei Mad Season.

Droga, alcool, e un discreto numero di “affari loschi”, come li definisce lui stesso, ridendo, mentre parla del suo libro autobiografico Sing Backwards and Weep. Proprio questa sua ultima fatica letteraria è al centro della genesi dell’album Straight Songs of Sorrow.
Lo stesso Lanegan racconta che il libro non ha portato la catarsi sperata. Anzi, lo descrive come un vaso di Pandora colmo di dolore e miseria. Ha però portato un album in dono, quindici tracce figlie di un lavoro di introspezione che ha trovato uno sfogo inizialmente nelle parole, forse non sufficienti, forse compagne non così abituali. L’album nato tra le righe dei capitoli è composto di canzoni dedicate ai personaggi del libro, molti dei quali non ci sono più. È una personalissima Spoon River per Lanegan, inspiegabilmente ancora in piedi, microfono in mano. Non c’è resilienza, né resistenza, qui si canta di una insperata sopravvivenza, di anni difficili, di una tendenza autodistruttiva che ha sbagliato mira.

Questo viaggio nei ricordi e nelle cicatrici è accompagnato da alcune collaborazioni, Greg Dulli su tutti, e da stili inizialmente antitetici, elettronico e folk, presenti però nella carriera di Lanegan, che lentamente, nel percorso del disco, si fondono sempre più, a volte dividendosi la scena (sonora), a volte prevalendo sull’altra.

L’overture di I Wouldn’t Want to Say spiazza per la dissonanza tra cantato e base synth, ma lentamente, entrando nel disco, si prenderanno le misure dei suoni di questo strano luogo della memoria. È un inizio fatto di antitesi, di stili e di ritmi, che ci conducono fino alla coppia di canzoni che sono la quintessenza dell’album, Stockholm City Blues e Skeleton Key, un destro-sinistro che lascia al tappeto. Nella prima si elabora il rimorso per tutto ciò che è stato, nella seconda, sette minuti di ballata, si cerca la redenzione, partendo da un caposaldo: “I’m ugly inside and out”, e da una domanda senza risposta: “I spent my life trying every way to die. Is it my fate to be the last one standing?”. 

È come passare il dito lungo i lembi di una cicatrice e sperare di dare sollievo. Al limite si tracciano i confini di un dolore passato, ma di pace non c’è traccia, c’è solo una rinnovata consapevolezza. 

Cito perché notevoli Ketamine, dedicata a un amico che chiese, dal letto d’ospedale in cui giaceva, della ketamina, al cappellano giunto a dare conforto e At Zero Below con Greg Dulli, una ballata folk che lascia sottopelle un battito poco analogico.

Il disco è buio, è blu di fumo di sigaretta, ruvido come le guance di Lanegan, che più passano gli anni più mi appare come un ibrido tra Jack Palance e HellBoy.
È un’opera che racconta senza indorare, che però del raccontare fa il suo perno. La parte musicale si esalta quando le due anime, acustica ed elettronica, trovano il modo di fondersi e trovo affascinante, se voluto, l’evoluzione interna di questo processo nel percorso delle quindici tracce. 

È una discesa negli inferi personali di Lanegan, ma con una guida esperta che ha addomesticato i propri demoni, prendendoli per stanchezza. 

 

Mark Lanegan

Straight Songs of Sorrow

Heavenly Recordings

 

Andrea Riscossa

Lenire i malumori con il nuovo Calendario di Erbe officinali

Erbe officinali sono Riccardo, Daniel, Tiziano, Alessandro ed Elia. Il loro progetto nasce e cresce a Terracina, nel Lazio. 

Nel 2017 vincono il contest musicale per artisti emergenti di Anxur Festival con il singolo Quello che c’è fuori. Nel 2018 esce il loro primo disco Sospesi. Da quell’anno ad oggi pubblicano Schiena, Isola, Un altro mondo e l’ultimo arrivato: Calendario. In attesa del nuovo album, abbiamo fatto due chiacchiere con Riccardo e Daniel. 

 

È uscito il 7 Aprile il vostro nuovo singolo Calendario. Cosa racconta?

Riccardo: “In poche parole Calendario racconta di una certa fase della vita nella quale ti ritrovi tra due generazioni: quella precedente, durante la quale vai ballare tutte le sere e quella successiva, in cui ci si è sistemati, si ha famiglia eccetera. C’è un punto, una sorta di limbo nell’intermezzo, dove ti ritrovi a non fare più certe cose, a stare a casa sul divano a guardare Netflix, a ordinare pizze d’asporto e a bere birra. La canzone non parla di questo in maniera negativa, infatti nel ritornello diciamo: “Sono tutte le cose che non mi va di fare più”. Questo rappresenta una sorta di autoconsapevolezza raggiunta, una presa di coscienza.” 

 

In una vostra recente intervista ho letto che entrambi avete in comune una tendenza all’ansia e all’ipocondria e che, per fronteggiare questi malumori, solitamente usate rimedi naturali a base di erbe officinali (da qui il nome della band). In questo periodo dove l’ansia fa da padrona, le uniche cosa che ci mantengono sereni sono la speranza e l’ottimismo. Come si trasforma l’ansia in ottimismo?

Daniel: “Con la follia” (ride)

Riccardo: “Sinceramente non lo so. Non ho una ricetta per questo. Si potrebbe provare a cambiare qualche abitudine e far uscire qualcosa di positivo da questa cosa che sta accadendo. Noi lo facciamo attraverso le canzoni. Io ad esempio sto scrivendo moltissimo in questo periodo ma lo faccio per puro esercizio terapeutico. Ognuno ha il proprio modo per esorcizzare l’ansia.
Il periodo in cui abbiamo deciso di mettere su questa band, era un periodo di smarrimento generale nelle nostre vite personali, vuoi per la fine di un amore, vuoi per qualcosa di apparentemente banale come il non sapere quale università scegliere. La musica e il progetto Erbe Officinali ci dà una mano, è una via di fuga da quello che accade intorno. Per quanto mi riguarda la musica è terapeutica ma ognuno può trovare il suo modo per esorcizzare qualcosa. Alla fine, l’ansia è una manifestazione di un sentimento sottostante, quindi alle volte basta cambiare qualcosa, un pensiero o magari basta soltanto prendersi più cura di sé stesso.” 

 

Solitamente come create un pezzo? E com’è comporre in questo periodo di isolamento e distanza?

Daniel: “In realtà per noi non cambia niente in questo periodo perché scriviamo sempre a distanza. Credo che la differenza la faccia l’ispirazione che per alcuni può essere amplificata ma al momento per me è un po’ diminuita perché ci sono pochi stimoli dall’esterno: esci poco, vivi poche situazioni, conosci poca gente nuova, non vedi le persone a cui vuoi bene che sono quelle che ti scaturiscono l’ispirazione. Il nostro processo creativo però non cambia perché la nostra è sempre una staffetta Whatsapp tra me e Riccardo. Ci mandiamo quello che scriviamo e aggiustiamo il tiro nota audio dopo nota audio.”

 

Rispetto al vostro primo album del 2018 Sospesi, il vostro sound è cambiato? Cosa ci dobbiamo aspettare dal nuovo album? 

Daniel: “Sicuramente rispetto al primo album è cambiato molto l’approccio alla musicalità che abbiamo e anche la produzione. Il primo disco infatti è stato più un esperimento perché è nato dal nostro incontro, un po’ per caso e non avevamo idee chiare. Ci siamo fatti trascinare dal flusso di emozioni del momento e abbiamo messo su il primo album. Dagli ultimi singoli abbiamo iniziato a studiare e a percorrere sonorità più moderne e molto più elettroniche e quindi dal prossimo album c’è da aspettarsi una cosa completamente diversa.”

Riccardo: “Essendo autodidatti non avevamo nessun tipo di bagaglio esperienziale, per questo il primo disco è stato totalmente genuino. C’è stato un lavoro dietro ma non abbiamo pensato di fare una ricerca dei suoni e infatti è un disco molto acustico e molto crudo anche dal punto di vista delle produzioni: chitarra acustica, batteria… molto classico se possiamo dirla così. Mentre, come ha detto Daniel, dai singoli successivi fino all’ultimo, in particolar modo negli ultimi due o tre abbiamo cominciato a sperimentare molto di più e abbiamo cercato un suono che fosse più riconoscibile possibile. Quindi il prossimo disco sarà totalmente diverso dal primo e sicuramente molto più fresco nelle sonorità.”

 

Potete però dirci come passa la quarantena un musicista?  

Daniel: “Per quanto mi riguarda, del lato del musicista resta la chitarra: ogni giorno mi passa tra le mani perché ce l’ho qua in faccia ed è impossibile evitarla. Personalmente però sono molto meno ispirato quindi suono pezzi che mi piacciono ma non riesco a creare cose nuove. Poi vabbè, Netflix, videogiochi nel mio caso (che sono un po’ nerd) e qualche lettura.”

Riccardo: “Io dal punto di vista artistico sto scrivendo tanto, però lo faccio perché è una cosa che mi piace fare quando non ho niente da fare. Ovviamente non è detto che quello che scrivo sia qualitativamente utilizzabile per un lavoro, perché ci si ritrova spesso a scrivere delle stesse cose poiché gli stimoli non sono tanti. Si prova ad andare un po’ più lontano con l’immaginazione ma stando dentro quattro mura non è molto facile. Comunque sto scrivendo e chissà che qualcosa non esca dal cilindro. Per il resto, durante la mia giornata faccio le stesse cose che ha detto Daniel tranne per i videogiochi (non ho la playstation), porto fuori il cane, vado a fare la spesa, vado in farmacia e cose di questo tipo.”

 

Cecilia Guerra

Boston Manor “Glue” (Pure Noise Records, 2020)

I Boston Manor, quintetto di Blackpool formatosi nel 2013 ha già al suo attivo un EP Saudade (2015) e due album: Be Nothing (2016) e Welcome to the Neighbourhood (2018) sotto l’etichetta Pure Noise Records.

Sono una delle band britanniche che più di altre, con grande impulso creativo, affrontano temi forti, proponendosi al pubblico e ai fan come gruppo con “qualcosa da dire” come nell’ultimo album Glue: la colla ti invischia come una pervasiva angoscia, ma potrebbe essere invece la sostanza che ti tiene insieme, che ti ricompone.

Henry Cox, talentuoso e carismatico frontman, in tutta la sua discografia affronta un percorso di recovery da ciò che apparentemente sembrava averlo toccato solo marginalmente durante la sua infanzia trascorsa nell’attraente città di mare del Lancashire: all’età di dieci anni aveva assistito alla morte per suicidio di un uomo. Proprio nella sua città Cox ha sviluppato il suo percorso creativo cogliendone il background meno luccicante e più problematico.

In questo disco compie un ulteriore passo avanti e mette la sua esperienza a disposizione dei suoi fan e del suo pubblico. I temi che affronta sono importanti soprattutto nel nostro tempo: la mascolinità tossica, la salute mentale, il suicidio, le difficoltà di alcuni classi sociali dopo la Brexit.

Nei progetti precedenti queste tematiche erano già presenti, ma espresse attraverso metafore: in Glue diventa tutto più esplicito, diviene bisogno di condivisione, di non tenersi tutto dentro e mostrarsi con il cuore in mano.

Le sonorità dell’album hanno perso l’effervescenza del pop-punk e si sono orientate più verso il punk hardcore, generando uno stile più aggressivo e variabile con riff energici e suoni elettronici che sembrano arrivare dal futuro.    

Alcuni brani hanno un contenuto che si può definire politico, di denuncia, ed il rinnovato stile che Cox ci propone si fonde perfettamente con esso 

On A High Ledge, che inizia con Father, I think I’m different / I don’t like playing with the other boys / Father, I’m different / I like the way the flowers smell”, parla della mascolinità tossica insita nella cultura britannica e di come questa possa avere una responsabilità nell’importante numero di suicidi di giovani maschi. Ha un incipit lento con sonorità elettroniche che sembra prendere per mano e portare l’ascoltatore a riflettere sulla propria sensibilità. 

1’s & 0’s è una critica ad una generazione invecchiata che ha votato per la Brexit senza alcuna considerazione per il futuro dei giovani mentre Everything is Ordinary tratta dell’insensibilità diffusa e dell’ignavia del nostro tempo; entrambi sono brani squisitamente politici e di una straordinaria energia che fanno trattenere il fiato fino alla fine.

Ratking, con alcune reminescenze grunge che rimandano ai Soundgarden o agli Alice in Chains, è una metafora del forte individualismo: nel cercare di salvare solo noi stessi, senza collaborare, finiamo per distruggerci.

Glue è un album maturo con dei messaggi forti in quest’epoca così complessa: quello che auspica Henry Cox è una maggiore empatia, sarà forse una goccia nel mare ma rincuora sentire chi tende una mano ad una generazione in seria difficoltà.

 

Boston Manor

Glue

Pure Noise Records

 

Margherita Lambertini

GERMINALE, SEMI DI SCRITTURA

Germi – Luogo di Contaminazione, lancia un’iniziativa aperta a chiunque voglia narrare questo
tempo in forma di racconto breve o poesia. I testi migliori, selezionati dai quattro soci dello
spazio milanese (Manuel Agnelli, Rodrigo D’Erasmo, Francesca Risi e Gianluca Segale), saranno
raccolti in un volume.

Milano, 20 aprile 2020 – Dopo molta musica in diretta Facebook, suonata nell’ambito
dell’iniziativa #StayON, che ha coinvolto artisti e club in una raccolta fondi, Germi, lo spazio
milanese di Manuel Agnelli, Rodrigo D’Erasmo, Francesca Risi e Gianluca Segale rilancia verso il
territorio della scrittura.
E questa volta lo fa chiedendo al proprio pubblico e alla vastissima comunità social di partecipare
a Germinale, iniziativa aperta a scrittori e appassionati che vogliano narrare questo tempo
attraverso un racconto breve o una poesia.

I testi migliori, selezionati dai quattro soci di Germi, saranno poi raccolti in un volume.

Questo, il messaggio con il quale i quattro hanno presentato l’iniziativa:

Ospitare virtualmente artisti in diretta sulla nostra pagina Facebook è stato un modo per non
perdere il legame con chi ci segue da lontano o con chi mette fisicamente piede a Germi.
Ma in effetti anche a noi mancava qualcosa: le persone che entrano a Germi, che chiacchierano al
bancone, che scelgono un libro. Così abbiamo pensato che forse anche dall’altra parte dello
schermo c’era chi aveva qualcosa da dare, non solo da ricevere. Ci sembra una buona occasione
per offrire una doppia direzione allo scambio.

Germinale è un’idea che nasce in un pomeriggio di sole in piena quarantena. Il nome evoca la
primavera, la letteratura e, in senso lato, la spinta della vita. Raccogliere racconti e poesie sotto a
un cappello così denso di significati ci sembrava un modo per aprire le porte e far entrare chi ha
qualcosa da dire, chi ha bisogno di dirlo per liberare energie compresse.

Ben consapevoli che potremmo trovarci sommersi di materiali, abbiamo preso l’impegno di
leggere tutto ciò che arriverà. E se pure siamo certi che tra quegli scritti ci sarà qualche diamante,
non è certo la ricerca di talenti che ci ha spinti a mettere in piedi Germinale.
È più il senso dello scambio tra noi e la nostra comunità”.

Per partecipare a Germinale basta inviare il proprio scritto (in forma di racconto breve o poesia ,
massimo 5 cartelle) germinale@germildc.it

Ghemon “Scritto Nelle Stelle” (Carosello Records/Artist First, 2020)

Ci sono artisti che è più facile inquadrare, attorno ai quali — volenti o nolenti — si creano determinate aspettative e quindi rischiano di sentirsi ripetere la solita solfa del “eh ma non è più quello di una volta” ad ogni tentativo di cambiare rotta. E poi ci sono quelli che sfuggono ad ogni classificazione tradizionale e dai quali non si sa mai cosa aspettarsi. Gianluca Picariello, in arte Ghemon, è sicuramente uno di loro e con il suo ultimo disco ne ha dato ulteriore conferma.

Uscito tre anni dopo il suo ultimo lavoro e anticipato dai singoli Questioni Di Principio, In Un Certo Qual Modo e Buona Stella, Scritto Nelle Stelle fa sentire tutta questa distanza temporale. È un album più sereno, più consapevole e, se la vita fosse un film, sarebbe il naturale sequel di Mezzanotte, quello in cui il protagonista riconosce l’importanza del passato, se lo lascia alle spalle e approda così alla serenità. 

Champagne, terza canzone del disco, parla proprio di come ormai siano stati regolati i conti con il passato e il ritornello recita “Stappo una boccia di champagne / Per il pericolo scampato / Chissà se non mi fossi fermato, dove sarei a quest’ora”. Anche in Inguaribile e Romantico si prende consapevolezza di ciò che si era e si è, ma c’è una persona importante accanto che capisce, sostiene e incoraggia quando sembra di non farcela.

I toni quindi sono più chiari rispetto al passato, ma non mancano la sincerità e la genuinità che contraddistinguono la sua discografia. Anche i momenti della quotidianità più banali, quelli che meno si prestano a diventare canzoni, vengono fissati in una traccia da 3 o 4 minuti. È questo che si vede ad esempio in Due Settimane, che inizia con “Spero che tu non abbia niente in programma stasera / Perché io appena metto il culo sul divano sverrò”. 

Non di soli eccessi vive la musica, evidentemente…

L’onestà dei testi si inserisce su musiche molto diverse tra loro, che vanno dal cantautorato al rap, dal soul all’hip hop, passando per sonorità quasi anni ’80 come in Io e Te oppure per il bellissimo connubio tra pianoforte e voce in Un’Anima, un pezzo incentrato sulla sindrome dell’impostore, quell’autosabotaggio a cui si tende quando non ci si sente all’altezza di una situazione. 

Sicuramente Scritto Nelle Stelle esce in un periodo non esattamente luminoso per nessuno, nemmeno per il mondo della musica. Però, in questi giorni più che mai, sono proprio la musica e l’arte in senso lato ad avere il privilegio – e forse anche un po’ l’onere – di farci sentire meno soli. 

 

Ghemon

Scritto nelle Stelle

Carosello Records/Artist First, 2020

 

Francesca Di Salvatore

“Galline Elettriche” online il nuovissimo album di Malbianco

Distorsori, elettronica e timbriche cerulee, così Malbianco irrompe nella monotonia di questa quarantena a partire da oggi 15 aprile con il suo nuovo album Galline Elettriche disponibile su tutte le piattaforme digitali (Spotify, Youtube, Apple Music, Google Play Music, ecc.).

Le chitarre fanno le fusa a riff elettronici fondendosi con testi non convenzionali in un avvolgente connubio vorticoso e mai banale. Questa la realtà a tratti malinconica, altre volte carica di energia che ci viene cantata e raccontata dalla band Irpina forse proprio nel suo album più maturo.

Galline Elettriche è infatti il terzo disco, dopo l’omonimo primo album e Bloom Boom (disponibili online sugli stores), del progetto musicale Malbianco nato sei anni fa dall’idea di Carlo (voce e chitarra). Dal 2015 ne entrano a far parte Antonio (chitarra solista) ed Alessandro (basso, synt e drum machine) dando vita all’eclettico trio.

Le sonorità alternative ed indie si fanno strada in modo originale nell’attuale panorama della musica indipendente tutta italiana. In attesa di poter tornare a saltare sotto i palchi con loro, non resta dunque che ascoltarli per combattere l’odierna alessitimia e rompere la quotidianità. Provare per credere.

 

Link all’album: https://lnkfi.re/Gallineelettriche

Link instagram: https://www.instagram.com/_malbianco_/

Link facebook: https://www.facebook.com/malbiancomusic

Link al youtube: https://www.youtube.com/c/MalbiancoMusic

 

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Novastar: il mondo possibile di Cavaleri

Barbara Cavaleri è una cantautrice pop italiana. A sei anni dall’uscita del suo primo album in inglese So Rare, il 28 Gennaio 2020 pubblica Come una Stella/Novastar. L’album è la rappresentazione di una città futuristica chiamata Novastar, dove la protagonista è schiava delle convenzioni e dei paradigmi morali ed estetici della società e vive, citando una delle canzoni dell’album, come in una lattina. Gli abitanti di Novastar sono alienati in bilico tra il voler godere dei privilegi di “questo gioiello contemporaneo” e il sacrificio quotidiano per attenersi alle sue regole di omologazione. Un universo estraneo alla nostra realtà in cui l’ascoltatore non può che rivedere alcune delle sfumature più tetre del nostro tempo. 

 

Quando nasce il progetto dell’album e come si è sviluppato il processo creativo?

“Il progetto nasce intorno al 2018. La prima canzone che si è concretizzata è stata Le parole, l’ultima della tracklist ma la prima in ordine di scrittura. L’idea dell’album nasce dopo anni di lavoro incessante. Alcuni progetti sono andati in porto, mentre altri per varie ragioni non mi sono sentita di pubblicarli.
Questo album è stato molto nitido fin da subito nella mia mente. Una volta scritta Le parole si è materializzata Novastar, la città futuristica e la protagonista, proprio come se fosse la trama di un romanzo di un film. Ho poi sviluppato tutte le canzoni dell’album, intorno agli argomenti che mi premeva di più sviluppare. La genesi è durata circa due anni fino alla pubblicazione il 28 Gennaio 2020. Sono un’artista che vuole prendersi tempo per trovare i collaboratori giusti.”

 

Tre parole che useresti per descrivere il tuo album?

“Si tratta di un lavoro libero, fuori dalle convenzioni attuali di scrittura, ma è scritto e prodotto in modo molto coerente. Il secondo aggettivo è contemporaneo: le sonorità sono ricercate, calibrate, si va da una ballad pop romantica come Come una stella, fino ad una sperimentazione più forte come Bomba. Il terzo aggettivo è ponderato, in quanto ci sono stati anni di impegno e lavoro dietro.”

 

In Lattina, il singolo d’uscita dell’album, la protagonista osserva “la sua vita futuristica” una frase che mi ha colpito molto è “come se tutto corrompesse la mia integrità” da che cosa è corrotta l’ integrità della protagonista?

“Tutto. In una vita in lattina qualsiasi cosa corrompe l’integrità della protagonista. Se io, donna di Novastar, esco dai parametri in cui gli abitanti della città devono stare, ovvero rispettare ritmi di lavoro incessanti per il progresso della città o riconoscersi forzatamente in un’affiliazione politica o morale, la mia integrità è bruciata. La protagonista ha sposato così come tutti i cittadini di Novastar, uno stile di vita fuori dal quale non potrebbero essere ammessi  privilegi materiali e di benessere economico. Deve restare in una lattina, all’interno di certi parametri sociali, conformandosi all’individualismo che non per forza assume un’accezione negativa. Viviamo e siamo soli in case dove si fatica a costruire un nucleo familiare perché tutto è sacrificato.” 

 

Il brano Body Not Soul, sembrerebbe una critica spietata alla ricerca di canoni estetici impossibili da raggiungere. A cosa in particolare ti riferisci? 

“La protagonista parte da un’introspezione e dice a sé stessa:“ho comprato mille creme e smalti fluo per coprire tutto il nero che ho dentro”. Cerca quindi di gestire un mondo interiore molto scuro e fa fatica a stare al passo. A Novastar devi scegliere chi essere a livello estetico, ed essere all’altezza di questo estetismo, altrimenti non puoi farne parte. La città, come dico anche nella canzone Contemporaneo, è un gioiello e noi siamo eletti nel poterci stare ma allo stesso tempo dobbiamo rispettare dei canoni estetici precisi e vestire una pelle 2.0. Si presta ad essere interpretata come una critica ai canoni estetici della nostra società ma onestamente si tratta più di una finzione che acquisisce significato all’interno della narrazione di questa storia, è tutto esacerbato.”

 

cavaleri novastar

 

Nonostante le strutture che coabitano il mondo artificiale ed ovattato di Novastar, vi è spazio anche per l’amore? 

“La risposta è si, assolutamente si. Per la protagonista si tratta di una ricerca incessante.Quando mi è stata proposta Come una Stella ho pensato che fosse perfetta per rappresentare l’amore di coppia, di qualsiasi coppia si tratti. E’ una canzone introspettiva, in cui la protagonista fa spazio dentro di sé per accogliere l’amore senza abbandonarsi alla vanità o a ricerche effimere. I momenti di massima dichiarazione d’amore sono Come una Stella, per l’appunto, e Ballare Fino al Mattino. In quest’ultimo brano, l’amore viene inteso come amore per l’umanità. Vi è la liberazione spirituale della protagonista che capisce che anche dentro a questo mondo artificiale può esistere una comunità. La cosa più semplice che le persone possono fare all’interno di una comunità è quella di accomunarsi con un corpo, ballare. Più siamo costretti a stare vicini, più siamo capaci di abbandonare i nostri schemi e le nostre sovrastrutture. La natura umana prevale.”

 

Secondo te, dopo la quarantena la nostra società tenderà ad assomigliare al mondo futuristico, virtuale e individualista di Novastar o pensi che al contrario ci sarà un’inversione di marcia verso una realtà primordiale e più autentica? 

“La mia opinione è che alcune persone trarranno un insegnamento da questa situazione e ne usciranno cambiate. Ora siamo soli a contatto con le nostre nevrosi e dobbiamo affrontarle per forza. C’è chi ne uscirà impoverito, soprattutto dal punto di vista economico e questo potrebbe portare all’adozione di meccanismi di protezione, come l’ignorare gli altri. Ho creato Novastar con il privilegio della fantasia, della libertà di rappresentare qualcosa che deriva dal nostro mondo ma che è liberamente ispirato. La mia è la proiezione di un possibile scenario ma tutte le proiezioni possono cambiare. C’è chi si chiuderà in casa davanti al proprio computer, c’è chi invece al contrario vorrà trasferirsi e andare a vivere in campagna. Ognuno avrà l’occasione di decidere dove andare dopo.”

 

Immagino che tour e live siano stati rinviati. Mi domando se inizialmente ci fosse l’intenzione di fare dei concerti e come pensi di gestire ora il tuo lavoro?

“Ho messo da parte l’idea della promozione live perché ho capito che si tratterà di un periodo lungo e non vorrei mettere a rischio le persone.
Abbiamo a che fare con la morte: persone che soffrono, persone che stanno lavorando duramente e quindi io ho avuto bisogno di rispettare questa cosa. Ora però, sono in una fase in cui credo che ci sia bisogno di ascoltare cose belle e stare bene.
Ieri per la prima volta ho pensato che si aprirà un filone di concerti online perché è difficile stare in silenzio per tanto tempo. Mi auguro che nascano delle alternative che facciano onore ai musicisti e alla loro funzione sociale in questo momento.”

 

Giulia Illari

ReCover #7 – Pixies “Doolittle”

• Una scimmia andalusa •

Fu il mio professore di fumetto a consigliarmi di ascoltare i Pixies, un giorno a lezione.

All’epoca frequentavo l’università, e siccome non avevo un soldo in tasca lavoravo in un ostello come portiere notturno: in cambio di alloggio, s’intende, non di soldi.

Dovendo star sveglia tutta la notte avevo sette ore libere per studiare, guardare film e ascoltare musica, e Doolittle dei Pixies fu parte della mia colonna sonora di quell’anno folle e senza sonno.

Prima traccia, Debaser: iniziai a saltellare sulla sedia nel silenzio della reception; al secondo ascolto, che faccio sempre con testo alla mano, quasi non caddi dalla sedia: “I am un chien andalusia”.

E qua capisco che l’ambizione dell’album è grande, e la dichiarazione d’intenti limpida.

Quella frase in particolare fa riferimento al capolavoro cinematografico Un Chien Andalou del 1929, diretto da Luis Buñuel e Salvador Dalí, che definire solo come cortometraggio surrealista sarebbe sminuirne la grandiosità e l’importanza che ebbe nella storia dell’arte.

Le interpretazioni della pellicola son tante, ma ciò che è chiaro è la forza con cui s’impone nei confronti dello spettatore e nei confronti della settima arte stessa: nella prima scena il Buñuel-personaggio taglia l’occhio della sua compagna, e così facendo Buñuel-regista taglia l’occhio dello spettatore, che al tempo mai si sarebbe aspettato di vedere una scena simile.

Il frontman della band Black Francis, appassionato di cinema surrealista, in un intervista disse che “se provi a spiegare il mistero che c’è in qualcosa che hai scritto, ciò che prima sembrava destinato all’eternità in un attimo diventa stupido”.

Ad esempio Monkey Gone to Heaven all’inizio era solo una frase che Black Francis usava per il gancio, ma che poi decise di lasciare così perché funzionava. La stessa bassista Kim Deal ammise di non conoscere nemmeno le parole e il significato di molte canzoni.

La matrice surrealista è evidente e coerente nel lavoro che fecero Simon Larbalestier e Vaughan Oliver nella realizzazione della cover dell’album, pubblicato nell’Aprile del 1989. Cercarono di raccontare per immagini i testi sotto l’ottica grottesca e underground dei Pixies.

I due artisti ebbero accesso ai testi del nuovo album (opportunità rara per chi crea le cover) e ciò consentì loro di averne ben chiaro lo spirito prima di mettersi a lavoro sul booklet, cosa che a detta di entrambi fece la differenza.

Si può dire che la carriera dei Pixies sia cominciata insieme a quella del fotografo Larbalestier con l’uscita di Come On Pilgrim (1987), e da questo momento il suo lavoro si lega indissolubilmente per lungo tempo con quello del graphic designer Oliver, recentemente scomparso all’età di 62 anni.

Le foto per Doolittle racchiudevano un mix di interessi e tematiche care a Larbalestier, Oliver e Black Francis: macabro, surrealismo, angoscia ed esistenzialismo.

La produzione chiese a Larbalestier di realizzare dei lavori a colori, per distanziarsi dai precedenti album monocromatici, ma il fotografo ignorò totalmente le raccomandazioni e scattò tutte le foto in bianco e nero.

La richiesta venne soddisfatta dall’intervento di Olivier, che aggiunse texture e geometrie rimanendo comunque fedele allo spirito decadente degli scatti: ottennero così il mix di surrealismo e grunge perfetto per raccontare visivamente l’album.

Una tecnica utilizzata dagli artisti surrealisti era quella del Cadavre Exquisit, una sorta di staffetta creativa in cui ognuno aggiunge il suo contributo all’opera attingendo dall’inconscio, e il modo in cui si è lavorato all’album mi ha ricordato molto questa tecnica.

Infatti una volta ricevuti i testi via fax da Black Francis, Larbalestier lavorò da solo agli scatti, realizzando set specifici per ciascun’immagine, e usando un solo rullino per set, in modo da ottenere un risultato preciso.

Una volta conclusi gli shooting passò il materiale a Oliver, che diede il tocco di colore richiesto.

Fu un lavoro di squadra ma soprattutto di fiducia reciproca, grazia alla quale diedero vita ad una cover unica.

“Se qualcuno ha avuto una grande influenza su di me è stato proprio David Lynch. Lui ti mette davanti qualcosa ma non te la spiega”.

Fu un altro cineasta dunque ad ispirare fortemente Black Francis, che con Eraserhead conquistò la sua attenzione tanto che i Pixies fecero una cover di In Heaven, la canzone della celebre Lady In The Radiator del film.

Non a caso anche il cinema di Lynch ha una forte influenza surrealista, sebbene incasellarlo in un’unica corrente artistica sia impossibile.

L’interesse principale di Lynch è infatti quello di scavare al di sotto della realtà delle cose, andando oltre l’apparenza: ce lo dice chiaramente all’inizio di Blue Velvet (1986), con una scena che è entrata nei libri di storia del cinema. 

Curioso come questo viaggio sia iniziato con un occhio tagliato e si concluda con un orecchio mozzato; due pellicole in cui tutto è in contrasto: luce e ombra, sonno e veglia, realtà e sogno. 

Esattamente come in Doolittle, esattamente come il mio anno in Ostello.

 

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“SIAMO RIMASTI NOI” dei SUONATORI IN CASA -13 musicisti a sostegno della Fondazione Marco Simoncelli per raccolta fondi a favore dell’Ospedale Infermi di Rimini

dei

SUONATORI IN CASA

13 musicisti a sostegno della
Fondazione Marco Simoncelli

per la raccolta fondi a favore dell’Ospedale Infermi di Rimini

per l’emergenza Covid-19

 

ONLINE IL VIDEO

 

 

In radio e in digitale “SIAMO RIMASTI NOI” dei SUONATORI IN CASA, canzone realizzata da 13 musicisti, ognuno dalla propria casa, come simbolo della creatività artistica che, se anche isolata, non può e non vuole fermarsi!

 

“SIAMO RIMASTI NOI” è un grido di speranza e di coraggio, e aiuterà la raccolta fondi organizzata dalla Fondazione Marco Simoncelli (https://www.gofundme.com/f/fondazione-simoncelli-x-ospedale-infermi-di-rimini) a favore dell’Ospedale Infermi di Rimini per l’emergenza Covid-19.

 

«Ho scritto questo brano e l’ho voluto condividere con altri musicisti per dire che anche nell’isolamento la creatività e la condivisione possono realizzarsi e se legate ad un progetto benefico, la collaborazione, prende un significato ancora più alto», commenta Lorenzo Semprini.

 

Paolo Fresu dichiara: «Ci sono perché in questo momento bisogna esserci. Sempre. Perché il prossimo, anche quello più lontano, ha nella propria casa una finestra come la nostra dalla quale poter guardare il mondo».

 

Il brano prodotto da Gianluca Morelli (Landlord) di Deck Recording Studio e scritto da Lorenzo Semprini (Miami & the Groovers), con il supporto dell’ Associazione Nebraska, vede la partecipazione di diversi artisti e musicisti come: Leo Meconi (per gentile concessione di Azzurra Music), Elisa Semprini (corista e violinista della band di Umberto Tozzi), Michele Tani (pianista dei Nashvillle & Backbones), Massimo Marches (già chitarrista per Siria, Braschi, Federico Mecozzi, Braschi, Filippo Malatesta), Luca Angelici (Miami & the Groovers), Fabrizio Flisi (Siman Tov Quartet), Luca Montanari (Landlord), Daniele RizzettoMarco Andrea Francis Carnelli (Mama Bluegrass band), Mario Ingrassia con la partecipazione straordinaria del trombettista Paolo Fresu.

 

La canzone è accompagnata da un videoclip (https://youtu.be/WSohNzv4QT0) in cui i vari musicisti eseguono la propria parte dalla loro abitazione per costruire un “continuum” spazio temporale virtuale ma altamente significativo.

 

 

Filippo Broglia – RECmedia comunicazione e promozione filippo@broglia.biz tel. +39 335 390391

Mavi Phoenix: the freedom of being pop

Questa intervista è disponibile in italiano qui

 

Mavi Phoenix, 22 years old from Linz, Austria, starts writing and producing songs in his bedroom since he was 11. At the moment, he is one of the most promising pop artists in Europe.

His debut album Boys Toys came out on April 3rd on LTT Records and it is a concept album that takes in and twists his inspirations in order to give back an original picture of himself through each song.

We interviewed Mavi to talk about the album and to learn more about the research his artistic course is based on.

 

Hi Mavi! Your new single 12 Inches has recently come out and it anticipates the release of your debut album Boys Toys: how does it feel to be an artist with his first full length album done? Are you excited about the release?

“It took me very long to release an album, so yeah I’m super excited for it. Also because it’s so personal, I mean you just mentioned 12 Inches which is the most personal track I’ve ever written, I feel like this is a very special record that will touch a lot of people’s lives.”

 

How would you describe the sound of your album? What are you aiming for, musically speaking? Are you satisfied with the final result?

“I’m never 100% satisfied with anything I do and I think that’s important for growth. But of course I love the album and I think it really fits my current situation. Also sound wise, there is a punk attitude on this record but it’s also very soft and emotional, then again it’s big and it’s pop. I think it’s a good mixture of everything I like.”

 

When did you start playing music and which channels did you prefer to share it with the world?

“I started writing songs when I was around 11 and also produced at that time, I actually started out as a producer. When I was 13 I uploaded a bunch of songs to MySpace. Then Soundcloud, Youtube…”

 

Your music mixes rap with pop and electronic music: is there any artist in particular that influenced you? If so, who specifically and how?

“I’ve mentioned him 100 times now and I’ll do it again: Tyler The Creator was a very big influence for years now for me, and also for my album Boys Toys. But I like so many artists and am influenced by so many. I’d say in particular for this record: Rage Against The Machine, N*E*R*D, The Black Eyed Peas… All bands that I’ve listened to since I’m very young.”

 

Now a more personal question, if you don’t mind, in regards to your coming out last Autumn: how do you feel this event changed your relationship with yourself and the perception of the world that surrounds you? Has it affected the relationship with your fans and the crowd at your concerts? How?

“Yes I think everything changed with this outing. Not for me personally, because I believe I’ve always been the same. But just to release this tension that’s been building up since years really affected my music and then again the relationship with my fans. They are incredibly supportive and like when I get personal and talk about real stuff. After my first concert after coming out people came up to me and told me how free and released I seem.”

 

Lastly, which are your plans for the future? Shall we expect your music to be influenced by these strange days of social distancing if not proper quarantine we are living?

“I’m taking this time off now to really concentrate on my transition but also on how I wanna continue musically in the next years. I’m producing more on my own since I can’t go to the studios with producers. Trying to make something good out of this really bad situation.”

 

Thank you for your time, we hope to see you live again soon!

 

Margherita Lambertini

Cover photo: Nils Müller

 

Thanks to Astarte

Mavi Phoenix: la libertà di essere pop

This interview in also available in English here

 

Mavi Phoenix, ventiduenne di Linz ma di ascendenze siriane, inizia a scrivere e produrre da quando aveva undici anni le prime canzoni nella sua cameretta. Attualmente è uno degli artisti pop più promettenti in Europa. 

Il 3 aprile 2020 è uscito, tramite etichetta LTT Records, l’album di debutto Boys Toys: un concept album che prende e stravolge le sue ispirazioni restituendoci ad ogni brano un’immagine originale di sé stesso.

Abbiamo intervistato Mavi per parlare dell’album e per conoscere la ricerca di sé che sta alla base del suo percorso artistico.

 

Ciao Mavi! Il tuo nuovo singolo 12 Inches è uscito da poco e ha anticipato la pubblicazione del tuo album di debutto Boys Toys: come ci si sente ad essere un artista con il primo album appena completato? Sei eccitato per l’uscita?

“Mi ci è voluto davvero tanto per pubblicare un album, quindi si, sono super eccitato. Anche perchè è così personale, mi spiego, hai appena citato 12 Inches che è la traccia più personale che abbia mai scritto; sento che è un album molto speciale che toccherà le vite di un sacco di persone.”

 

Come descriveresti il suono del tuo album? A cosa aspiri, musicalmente parlando? Sei soddisfatto del risultato finale?

“Non sono mai soddisfatto al 100% di nulla di quello che faccio e penso che sia importante per crescere. Ma ovviamente mi piace l’album e penso che calzi a pennello con la mia situazione attuale. Inoltre, musicalmente parlando, c’è un’attitudine punk in questo disco ma è anche spesso dolce ed emotivo, e di nuovo è grandioso ed è pop. Credo ci sia un giusto mix di tutto quello che mi piace.”

 

Quando hai iniziato a scrivere musica e quali canali hai prediletto per condividerla col mondo?

“Ho iniziato a scrivere canzoni quando avevo circa 11 anni e ho anche prodotto a quei tempi, anzi, in verità ho iniziato come produttore. A 13 anni ho caricato un po’ di canzoni su MySpace. E poi Soundcloud, Youtube…”

 

La tua musica mischia il rap col pop e con la musica elettronica: c’è un qualche artista in particolare che ti ha influenzato? Se si, chi nello specifico e come?

“L’ho nominato centinaia di volte e lo farò ancora: Tyler, The Creator è stata una grossa influenza per me per anni, e anche per il mio album Boys Toys. Ma mi piacciono tanti artisti e sono stato influenzato dal altrettanti. Direi in particolare per quest’album: Rage Against The Machine, N*E*R*D, The Black Eyed Peas… Tutti gruppi che ascolto da quand’ero molto giovane.”

 

Adesso una domanda più personale, se non ti dispiace, riguardo il tuo coming out lo scorso autunno: senti che questo evento abbia cambiato il rapporto con te stesso e la percezione del mondo che ti circonda? Ha influenzato il rapporto con i fan e con il pubblico ai tuoi concerti? Come?

“Si, penso che tutto sia cambiato con questo fare outing. Non per me personalmente, perchè credo di essere sempre stato lo stesso. Ma solo il fatto di lasciar andare la tensione che si era formata negli anni ha davvero influenzato la mia musica e di conseguenza il rapporto con i fan. I fan sono incredibilmente comprensivi e piace loro quando vado sul personale e racconto cose vere. Dopo il mio primo concerto dopo il mio coming out la gente è venuta da me per dirmi quanto sembravo libero e disteso.”

 

Infine, quali sono i tuoi piani per il futuro? Dovremo aspettarci che la tua musica venga influenzata da questi strani giorni che viviamo, tra distanze sociali se non addirittura di quarantena?

“Mi sto prendendo del tempo libero per ora per concentrarmi sulla mia transizione ma anche per pensare a come continuare musicalmente nei prossimi anni. Sto producendo di più da solo dato che non posso andare in studio con dei produttori. Sto cercando di tirar fuori qualcosa di buono da questa situazione.”

 

Grazie per il tuo tempo, speriamo di rivederti presto dal vivo!

 

Margherita Lambertini

Foto di copertina: Nils Müller

 

Grazie ad Astarte