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Quando finisce la festa, Angelica e un album da scoprire

Angelica (Schiatti ndr) è una cantautrice originaria di Monza.

Conosciuta e apprezzata come leader dei Santa Margaret, gruppo con il quale ha vinto gli MTV Awards New Generation, esce nel 2019 con un nuovo album da solista Quando finisce la festa con l’etichetta Carosello Records.

Amante del vintage applica il proprio gusto retrò nella musica in maniera mai scontata e super fresca, toccando temi come la fiducia in se stessi, l’amore e l’attualità.

Un album profondo e serio che tra le pieghe di melodie ritmate e “serene” nasconde l’ambiguità della modernità e i rapporti umani che nel male o nel bene fungono da analisi per la crescita personale.

Un lavoro puntuale e preciso che mescola malinconici scenari ad aperture verso il mondo con note che scivolano via morbide e voluttuose. Talvolta ammiccanti.

L’abbiamo incontrata e le abbiamo fatto una VEZ Rece-Intervista.

 

Essere una solista dopo l’esperienza con i Santa Margaret quali sentimenti e sensazioni ti fa provare? Quali sono i lati positivi e quali i negativi?

Di positivo c’è stata un’emancipazione sia professionale che personale. Sono una persona molto insicura e quindi avere la band era un po’ come avere una famiglia alla quale chiedere consiglio, chiedere appoggio. Lavorare da sola all’inizio mi fatto provare un forte senso di confusione, ero spaesata. Però alla fine c’è stata una vera e propria presa di coscienza di me stessa. È stata un’autoterapia poiché essendo da sola dovevo fare tutto da sola, nonostante la difficoltà sono molto serena perché mi ha permesso anche di capire meglio cosa mi piace e cosa no. Affinare l’estetica in maniera pura e sincera, poiché essendo in una band la mia personalità era ovviamente mitigata dagli altri membri della band.

 

Hai un gusto retrò. Racconti un mondo passato rendendolo comunque attuale ed è una peculiarità che avevi già ai tempi della band, anche se con delle sonorità più calde. Ora invece è come se avessi scarnificato quello che avevi creato prima. Ho percepito una sorta di voglia di eliminare la propria protezione e mostrare te stessa nella tua purezza in maniera cristallina. Sbaglio?

Ho destrutturato il lavoro di prima. È vero, ho scarnificato i miei lavori precedenti. In precedenza i lavori si basavano su un personaggio, ovviamente nato dalla mia persona poiché non era un personaggio inventato. Ora invece addio al personaggio e ci sono semplicemente io senza la “maschera”, il filtro del personaggio che mi ero creata all’interno della band. Ho voluto abbandonare il personaggio abbandonando quindi anche la protezione che il personaggio stesso ci concede di avere.

 

Tra le canzoni che mi hanno colpito c’è Guerra e Mare. Nel ritornello riecheggia la frase  “Compriamoci un’estate in pieno inverno” e si parla di persone che se hanno paura vanno al mare oppure fanno la guerra. All’ascolto sembra gioviale e tranquilla quando in realtà nasconde un messaggio anche severo nei confronti della nostra vita day by day. Persone che hanno paura del diverso e che rifuggono ciò che non conoscono voltandosi dall’altra parte e scappando oppure che lo attaccano. E se come al solito premendo play ci illudiamo di restarcene rilassati ascoltando un brano da “disimpegno e diletto” in realtà alla fine ci sentiamo quasi ammoniti. Sempre in maniera raffinata, chiaramente.

Cosa mi dici Angelica di questo brano?  Quanto c’è della situazione italiana e mondiale attuale nelle tue parole?

Molto. C’è molto. È proprio questo, in realtà. Non puoi avere paura nel 2019 di quello che non conosci. Abbiamo la fortuna di vivere in un’epoca nella quale se non conosci una cosa la puoi tranquillamente studiare. Una cosa ignota grazie a internet può facilmente diventare conosciuta, almeno un minimo. Inoltre è vero che la paura troppe volte non è nient’altro che una corazza che apparentemente ci fa vivere meglio. Come dire “ho paura di questa cosa e non la faccio” e sembra apparentemente di stare meglio quando in realtà non è così. Quindi scappi ma fai del male solo a te stesso impedendoti di evolvere. Oppure che fai? Attacchi ciò che non conosci. Invece di fare così dovremmo utilizzare la nostra paura come movente e stimolo alla conoscenza così che possiamo crescere e comprendere le differenze. L’ignoranza non è più una scusa e in questi anni così controversi tutto sta cambiando molto velocemente e se è vero che ci sono tanti aspetti negativi ce ne sono anche tanti positivi.

 

Nella canzone Due anni fa hai detto “ero un foglio bianco e tu mi hai scritto il mondo addosso”. È una frase che sembra introdurre ad una canzone che parla d’amore, di una storia nel momento in cui uno la sta vivendo. Poi, procedendo con l’ascolto ci si rende conto che parli del passato. Passando ad un’altra canzone inoltre, Beviamoci, viene riproposto il tema della storia passata. Il passato è un tema per te importante. Un passato che sembra solo rimpianto. O forse no. Nello stesso album quindi si parla di storie diverse ma entrambe finite. Ritieni che quindi sia più proficuo per l’arte parlare di momenti di rottura drammatici o perlomeno tristi e malinconici, oppure credi che l’atto creativo possa nutrirsi anche di narrazioni quali le giornate qualunque di un mese qualunque decantando la quotidianità?

Mi ha sempre colpito la frase di Tenco “Se sono triste scrivo canzoni, se sono felice me ne vado al mare”. Un po’ è vero, quando sei felice hai voglia di condividere la felicità anche all’atto pratico quindi di stare a contatto con le persone. Dato che la musica è terapeutica, o per lo meno per me lo è, viene quasi da dire che l’atto creativo è figlio della malinconia e di quel “male di vivere” che talvolta ti porta al raccoglimento in solitaria. Queste due canzoni che hai citato parlano di una storia finita ma c’è anche il risvolto positivo, agrodolce, perché è meglio perdersi che rimanere assieme e vivere male. In realtà queste canzoni sono come un bilancio finale più che figlie della malinconia. Un bilancio che alla fine non è negativo. È importante comunque smuovere delle emozioni con l’arte e nello specifico, con la musica anche se sono emozioni di felicità.

 

Adulti con riserva mi sembra il tuo punto di vista attuale, fai come il punto della situazione. Mi ritrovo a sorridere perché la vedo una canzone possibilista. Elenchi tante cose, ammetti la possibilità di fare qualsiasi cosa basta che lo si faccia in maniera positiva e propositiva, come un inno alla vita.

È banale da dire ma il punto di vista che si ha quando si è in mezzo ad una cosa è diverso da quello che si ha quando ci si allontana. Tutti i sorrisi che ti sei perso, le giornate e le ore che ti sei perso quando eri nel buco nero non te le ridà indietro nessuno. Quindi mentre sei nel buco nero ricorda di sorridere perché comunque passerà e quindi almeno ricorda.

 

La mia canzone preferita è Quando finisce la festa dato che mi sembra quasi che parli di me. È molto introspettiva, quasi onirica. Presenta svariati cori in sottofondo con tanti strumenti che si mischiano ad una moltitudine di voci. Sembra di fare una camminata serena in un bosco fatato. Ora cammino in questa foresta e intanto dedico del tempo solo a me stessa e a ricordarmi che io valgo. Il pezzo strumentale alla fine della canzone è un accompagnamento ad un viaggio che non sembra voler finire. Attende di iniziare nuovamente e si apre ad un nuovo inizio.

Questa canzone ricorda un periodo particolare della tua vita?

Volevo fosse un po’ una colonna sonora ad un momento che stavo vivendo. Non mi fidavo di me stessa, non mi piacevo, non mi apprezzavo. La canzone è nata da una discussione molto brutta al telefono dove mi sono state dette delle cose bruttissime. A quel punto ho capito che non meritavo delle parole così brutte e che non era giusto per me rimanerci male e rimettere in dubbio e discussione tutta la mia vita. Ma anche se sapevo che tutto era infondato sono comunque entrata un po’ in crisi. Alla fine quindi questa canzone è stata una sorta di catarsi per ritrovare il mio centro, per “ricentrarmi” e ritrovare me stessa. Doveva essere un inizio di una nuova era ricominciando a vivere tentando di fidarmi degli altri finalmente. La coda della canzone è così lunga proprio perché è una fine che in realtà non vuole finire.

 

Alla fine della canzone ci sono degli speech. Di chi sono le voci?

Ci sono Massimo Martellotta (Calibro 35), Antonio Cupertino (produttore dell’album) e ci sono anche io. Massimo e Antonio si sono messi a lavorare sull’album con grande entusiasmo regalandomi la loro fiducia e il loro entusiasmo. Per me sono stati come dei padri. Poi c’è la voce di Miles Kane conosciuto poco prima della fine delle registrazioni dell’album con il quale abbiamo iniziato a scambiare pareri e opinioni sulla musica scambiandoci registrazioni. Abbiamo anche scritto delle cose insieme. Anna Vigano’ (Verano) che fa l’entrata con la chitarra distorta sulla coda. È una delle mie migliori amiche e io la adoro. La volevo nell’album e le ho chiesto di partecipare. Poi ci sono tante voci che abbiamo preso registrando con il microfono in giro per strada.

 

Vuoi lasciarci con un messaggio?

Più rispetto e più sostegno tra le donne sarebbe importante e anche più solidarietà femminile.

 

Un album quello di Angelica che si racconta nota dopo nota invitandoti al mare, ad una festa, ad un viaggio, alla vita. Un album da portare sempre con sé.

Grazie a Carosello Records e ad Angelica per aver accettato questa rece-intervista.

 

Sara Alice Ceccarelli

Still Corners @ Largo_Venue

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• Still Corners •

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+ True Sleeper

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Largo Venue (Roma) // 13 Maggio 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Simone Asciutti

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True Sleeper

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Grazie a Radar Concerti | Astarte

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The Get Up Kids @ Locomotiv_Club

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• The Get Up Kids •

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+ Muncie Girls

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Locomotiv Club (Bologna) // 13 Maggio 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Luca Ortolani

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Muncie Girls

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SETLIST:

The Get Up Kids

002

 

Muncie Girls

 

000

 

 

Grazie a Hellfire Booking Agency

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Mac DeMarco “Here Comes the Cowboy” (Mac’s Record Label, 2019)

Mac DeMarco è un tipo strano, altrimenti non si spiega perché mai un canadese dovrebbe realizzare un intero disco dedicandolo ai cowboy. Certo, cowboy bizzarri, come lui, fumettistici, ma pur sempre cowboy. Proprio lui, quello che di più lontano dall’immagine hollywoodiana del vaccaro con pistola, cappello a falda larga e speroni, possiamo immaginare. Probabilmente i cowboy che passano le giornate a bere nei saloon avrebbero voluto prederlo a calci nel sedere, uno come DeMarco: Mac è uno da t-shirt e cappello da baseball, da maglioni del nonno e da salopette. Non è un macho, non si prende sul serio e, soprattutto, non usa artiglieria pesante. Ma, cosa più importante, non salverà la situazione come ogni buon cowboy che si rispetti: la guarderà andare a rotoli e poi ci scherzerà su. Ed è per questo che lo amiamo così tanto. 

Here Comes The Cowboy è il suo quarto, ed insolito, album, che arriva cinque anni dopo Salad Days, il lavoro che lo consacrò a figura iconica della musica indie internazionale, e due anni dopo This Old Dog, dedicato alla relazione difficile con il padre. Questo lavoro è il primo prodotto dall’etichetta che lui stesso ha fondato, la Mac’s Record Label. Tutto fatto in casa, insomma, come confermato anche dalla scelta di suonare quasi tutti gli strumenti per conto proprio, ad eccezione delle tastiere affidate in certi casi ad Alan Meen, e avvalendosi soltanto dell’aiuto del fonico Joe Santarpia. Il fatto che DeMarco abbia deciso di auto-prodursi un album merita una riflessione: probabilmente dietro c’è il bisogno di avere maggiore libertà, la possibilità di essere veramente se stesso, di fare un po’ come vuole. Sacrosanto. E infatti Here Comes the Cowboy si spinge fino ai confini dell’iperuranio.

Solo per darvi la dimensione di quello che succede, la prima traccia, quella che dà il titolo all’album parte con una chitarra, che fa pensare al classico cazzeggio pre registrazione per scaldarsi un po’ le dita, ed è composta da un solo unico verso, ripetuto all’infinito: “Here comes the cowboy”. Eppure, nonostante queste premesse che potrebbero far presagire il peggio, il pezzo è caratterizzato da un perverso magnetismo. I suoi cowboys infatti non possono essere altro che personaggi strambi, niente di eroico, per carità, ma qualcosa che conforta in una società che ha sempre più difficoltà ad ammettere le proprie debolezze.

Quasi tutti i pezzi sono percorsi da una vena malinconica. Su questa atmosfera c’è Nobody, un pezzo laconico, tra i migliori del disco, una marmellata di suoni in stile californiano.

Preoccupied, invece, ci porta su un piano diverso, meno giocoso e meno dolce, più preoccupato, appunto. Non è difficile immaginarselo, Mac, mentre guarda pensoso, fuori dalla finestra. Tra le parti più interessanti del pezzo c’è la base con il cinguettio degli uccellini, che contribuiscono a dare consistenza al mondo surreale e sgangherato che DeMarco ci racconta; il testo è un blues disincantato, e sembra quasi criticare una cultura trumpiana in cui le menti sono “aperte” ma “piene di cazzate”.

Proprio l’aspetto dei testi è interessante in questo disco: molto più asciutti, a volte pervasi da un vero e proprio minimalismo linguistico, ma sempre con valutazioni sardoniche sul sogno americano. Come in All Of Our Yesterday, pezzo sarcastico che esplicita il concetto che molte delle cose migliori del nostro passato sono scomparse e non torneranno. Anche per questo motivo, è evidente che DeMarco è cresciuto. Questo è senza dubbio il suo disco più autentico e sporco. Se è vero, come aveva dichiarato in qualche intervista, che Salad Day era stato scritto in camera da letto, questo Here Comes The Cowboy è assolutamente stato composto in garage, o in una soffitta polverosa e invasa dalla luce del sole, che gli ha permesso di vedere meglio ogni singolo pulviscolo.

Quando arriva Choo Choo mi chiedo se sia uno scherzo. Forse sì. Su una base funk il fischio del treno fa da contraltare al falsetto di DeMarco, che ancora oggi si dimostra un artista accessibile e mai troppo serio, uno che fa musica – apparentemente – ingenua e che sembra immune dall’invadenza del mondo reale. È come se si fosse creato una bolla per proteggersi dalla tristezza di quello che succede. Forse, però, qualcosa sta cambiando. Su Little Dogs March, canta “spero che ti sia divertito, tutti quei giorni sono finiti ora”.

L’ultima traccia, Baby Bye Bye, è la più assurda di un disco abbastanza assurdo, ma è anche uno dei pezzi più memorabili. Non voglio rovinare la sorpresa a nessuno, quindi dirò solo che dentro ci si può trovare una chitarra slide, un treno che parte, una voce che parla giapponese e qualche sonorità funk.

Il bello di Mac è questo suo essere diventato oggetto di una sorta di strano culto, ovunque accolto come una grande star, un’icona insolita e sbilenca, e allo stesso tempo di fregarsene totalmente di quello che viene prodotto oggi nel mondo della musica. Quello che appare evidente da questo disco è che Mac DeMarco stia cambiando, forse sta diventando grande, chissà.

Here Comes The Cowboy sembra testimoniare il desiderio di trovare una nuova strada. Si tratta essenzialmente di un album più nudo rispetto ai precedenti, a partire dagli arrangiamenti, spesso composti da una chitarra, un piano e poco altro, fino ad arrivare ai testi.

Buono, ma a volte – ad eccezione di qualche pezzo – ci si ritrova a desiderare qualcosa di un po’ più divertente, un po’ più vivace, un po’ più DeMarco.

 

Mac DeMarco

Here Comes the Cowboy

Mac’s Record Label, 2019

 

Daniela Fabbri

Lenny Kravitz @ Unipol_Arena

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• Lenny Kravitz •

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Unipol Arena (Bologna) // 12 Maggio 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Si presenta sul palco dell’Unipol Arena di Bologna con gli immancabili pantaloni a zampa, kimono di seta, occhiali a specchio e capelli assurdi. 

Eccentrico, stiloso e stravagante, l’ormai 55enne Lenny Kravitz guadagna il sold-out con il suo Raise Vibration Tour, attirando persone da ogni parte d’Italia. 

Il live inizia alle 21.20 con We Can Get It All together seguita da Fly Away, in assoluto la mia preferita, che fa esplodere una festa di cori e canti scatenati a cui ho contributo attivamente traumatizzando con le mie urla il ragazzo seduto accanto a me! 

Dopo Dig In e Bring It On le note di American Woman sfumano nel ritmo reggae di Get Up, Stand Up tributo al cantautore jamaicano Bob Marley deceduto proprio l’11 maggio di 38 anni fa. 

Quando si avvicina alle transenne per salutare i fans è subito strage di cuori, il pubblico femminile intorno a me è in delirio, lo definisce “illegale”, grida “nudo” e “ti amo” sperando che prima o poi si tolga quel kimono… 

Impossibile dar loro torto, il suo sex-appeal regna su tutto e tutti, si muove e gesticola in maniera estremamente affascinante, è completamente padrone del palco, una vera rockstar! 

Dopo una serie di pezzi più recenti arrivano i cavalli di battaglia: con I Belong To You e Mr. Cab Driver è impossibile non cantare e ballare insieme a lui che ci incita a battere le mani e decide di fare un giro nel parterre in mezzo alla folla scortato dalla security, muovendo onde di persone in estasi che si fiondano nella sua direzione sperando di riuscire a raggiungerlo per poterlo almeno sfiorare. 

Sugli spalti tutti si alzano in piedi, Lenny si ferma qualche minuto sulla pedana rialzata al centro del palazzetto per poi tornare sul palco e concludere la sua performance con Again, salutando infine il suo pubblico con autografi su CD e magliette dei più fortunati. 

Ho avuto occasione di essere sua spettatrice già 3 volte, di cui la prima ben 10 anni fa, e ho constatato che vederlo dal vivo è sempre un’esperienza strepitosa, è impeccabile e sa fare tutto, amalgama rock, soul e blues sfoderando un mix di tecnica ed esperienza, supportato da una band di tutto rispetto che completa, insieme alla sua voce inconfondibile, un coinvolgimento emotivo a mio avviso davvero speciale. 

Credo che nessuno sia rimasto deluso, in questa domenica piovosa come alternativa a divano e TV direi che non è affatto male! 

Mi ha lasciato la voglia di riascoltarlo in auto durante tragitto di rientro a casa e sono certa che da domani avrò la sua playlist in loop su tutti i miei dispositivi, in attesa di un suo nuovo tour a cui di sicuro non mancherò! 

 

Testo: Silvia Gardelli

Foto: Luca Ortolani

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Grazie a D’Alessandro & Galli

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I Hate My Village: l’esigenza di bellezza balla a ritmo tribale

Una formazione d’eccellenza che non ha bisogno di presentazioni.

Un unico manifesto artistico: creare qualcosa di bello. Fabio Rondanini (Calibro 35, Afterhours), Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion), Alberto Ferrari (Verdena) e Marco Fasolo (Jennifer Gentle) si sono incontrati puntando dritto a questo obiettivo.

È nato così un super-gruppo, gli I Hate My Village. Li abbiamo incontrati nel backstage del Supersonic Music Club, in occasione della data del 20 aprile a Foligno. Loro, schierati su un divano. Di fronte io, su uno scalino, con il palco alle spalle e tanta emozione. Un viaggio di andata e ritorno per l’Africa, tra curiosità, melodie sciamaniche, nuovi linguaggi e riflessioni sul villaggio musicale attuale.

 

Nel momento in cui si parla di una super-band scatta sempre il meccanismo mentale per cui non si sa se aspettarsi un progetto del tutto nuovo o un’opera di citazionismo legittimo dei rispettivi gruppi di provenienza. Su questa premessa, come nascono gli I Hate My Village?

Fabio: In realtà non sapevamo che cosa sarebbe venuto fuori. Il primo incontro è stato fra me e Adriano, in sala prove. Inizialmente l’intento era quello di vederci per suonare…niente di più. Avevamo già qualche idea da sviluppare quindi abbiamo dato al tutto una certa frequenza. Da lì, è venuto fuori il materiale per un disco che abbiamo poi portato da Marco, in studio. Un disco totalmente strumentale.

 

Quando avete detto: “Vogliamo Alberto Ferrari alla voce?”

F: Anche per quanto riguarda la linea vocale, la scelta è stata spontanea. Abbiamo chiesto ad Alberto se voleva unirsi per cantare quello che voleva, come voleva lui. Ed ha accettato.

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Perno centrale è il rimando a sonorità africane. Un tentativo di comunicazione, in musica, attraverso una lingua straniera. Che messaggio vuole veicolare?

F: Già nel nome del gruppo c’è un errore di pronuncia. Nome ispirato al titolo di un cannibal movie che gioca sui verbi odiare “hate” e aver mangiato “ate”. È vero, a noi piace la musica africana e lo spunto è stato quello…però non siamo africani… il risultato rimanda a questo enorme errore di pronuncia. Volevamo semplicemente fare qualcosa che ci piacesse e che consideravamo bello, nel senso più autentico del termine. Il messaggio, anche di stampo sociale e politico, ci si può comunque leggere: siamo noi, in questo caso, ad andare verso l’Africa? Anche noi viviamo in un piccolo grande villaggio, alla fine? Lo odiamo? Oppure…pensa anche al fatto che un errore di pronuncia tra “hate” ed “ate” l’avrebbe potuto commettere qualsiasi italiano…

 

Quindi anche gli altri equivoci lessicali in titoli come Tramp o Fame che in inglese sta per “fama, successo” sono più dei collegamenti o dei contrasti?

F: È un significato contenuto già nel titolo stesso del progetto appunto: facciamo musica africana ma poi non ci riusciamo. Anche noi abbiamo iniziato studiandola o facendoci guidare da ascolti precedenti. Ciò che emerge è l’originalità del disco.

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E quali sono le influenze, gli ascolti o le collaborazioni che hanno inciso maggiormente nella fase creativa?

Adriano: La musica africana ci ha influenzato anche in seguito a collaborazioni con artisti come Bombino e Rokia Traoré. Inoltre, nell’ambito della musica rock e blues, durante il corso degli anni Novanta si è susseguita tutta una serie di artisti africani che suonavano con le chitarre elettriche. Qualcosa che risultava molto difficile ascoltare negli anni Ottanta, famosi per le corde di nylon. È nato così un filone legato al rock ma di matrice africana: il Blues Tuareg o il Mali rock, ai quali ci siamo associati per gusto personale, mescolando le varie psichedelie del Fela Kuti dagli anni dai Settanta in poi.  Abbiamo approfondito questo linguaggio, spinti dall’interesse e dalla necessità di esprimerci con una musica basata su codici diversi, su una genesi differente per quanto riguarda la canzone e la stessa idea di band. La nostra non è una superband anni Novanta, è un po’ diversa, più contemporanea. Da non tralasciare il fatto che ci siamo ispirati a noi stessi. Se penso ai gruppi che amo di più della scena italiana sono i Calibro 35, i Jennifer Gentle, i Verdena o gli Zoo. Ci siamo trovati tra persone che si stimano a vicenda.

F: È un grande laboratorio. Poi, ovviamente, venendo tutti da altre situazioni più grandi, è normale che questo sia considerato come il b-project. Ma non è così.

A: Esatto, non c’è una classifica. La musica si fa perché viene. E volevamo fare una cosa bella…è questa la benzina, il motore che ha dato il via a tutto. E continua a farlo. L’esigenza di bellezza.

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Ricollegandomi al cannibal movie ghanese e alla copertina dell’album realizzata dall’artista romano Scarful, nel vostro progetto si rintraccia un “cannibalismo artistico”, un nutrirsi di idee. Quanto la musica italiana attuale si ciba ancora di curiosità, di sperimentazione?

F: Di sperimentazione ce n’è ancora tanta, ma non si vede così facilmente. Forse non trova il giusto spazio. Chi fa musica per lavoro spesso sceglie la strada più semplice da seguire. Soprattutto se vuoi fare musica perché preferisci non fare un cazzo nella vita…e magari ti riesce pure bene eh… allora quella è la via. Se invece hai qualcosa da dire, diventa tutto più difficile…ci vuole coraggio. Ovvio, c’è ancora chi sperimenta, magari nei teatrini da trenta persone. Però c’è. L’appiattimento esiste nella legge dei grandi numeri. Nei piccoli numeri, però, certe cose sopravviveranno sempre. Una cosa da non dimenticare è che per noi è più facile fare quello che ci pare. In questo ci ha protetto la natura di super band. A noi piace quello che abbiamo creato? Si. A voi no? Pazienza. Ci siamo sentiti liberi. L’intenzione era quella di arrivare anche al pubblico, certo. Divertirsi prima di tutto…addirittura intrattenere! Altro che sperimentazione… è l’esatto opposto!

Marco: Ma non è detto che i due aspetti siano inconciliabili, anzi!

 

È di qualche giorno fa l’annuncio del tour estivo. Il prossimo 10 agosto suonerete allo Sziget, uscendo dal “villaggio italiano”. Quali sono le aspettative sulle date all’estero?

F: In realtà, fin dall’inizio, avevamo concepito gli I Hate My Village come progetto internazionale tanto che volevamo uscire con il disco prima all’estero che in Italia. Ci stavamo anche riuscendo… poi una serie di circostanze ci ha fatto un perdere tempo e abbiamo deciso diversamente. Senza dubbio, l’estero è un sentiero inevitabile da percorrere.

A: Anche per far conoscere la nostra musica al di là dei confini italiani. Le caratteristiche si prestano molto: i testi sono in inglese, sono fruibili a tutti. Non vediamo l’ora.

IMGL6604Intervista di Laura Faccenda

Foto di Luca Ortolani

Il musical e l’Italia: School of Rock

•Quando il teatro diventa una scuola per passato e futuro•

 

Ho una tradizione a cui non posso proprio rinunciare, quando faccio tappa nella bella Firenze: gustarmi una doverosa cena a base di specialità toscane. 

Dentro quella roba c’è il senso della vita, amici miei. 

Guarda caso l’osteria di fiducia si trova proprio davanti alla mia meta, il Teatro Verdi di Firenze.

Il cameriere, ormai fidato, è sbigottito quando ammetto di non esservi mai entrata così, offrendomi il dessert, mi avverte sogghignando: “te lo dico, desidererai tornare indietro nel tempo per indossare un abito tutto luccicante, con orecchini di perle ed il libretto della tua opera preferita in mano. Entrando, ti renderai conto che il Verdi offre, già di per se, uno spettacolo in tutto e per tutto”.

Buono a sapersi; dovrò davvero scegliere tra il mio chiodo di pelle ed un vestito da Charleston?

In effetti il Teatro Verdi citato anche da Collodi nel classico Pinocchio è un tripudio di raffinatezza e fastosità, una location che farebbe perdere la testa a qualsiasi fan di Downton Abbey, me compresa.

Per questo è così dannatamente splendido ed inaspettato trovarlo brulicante di un pubblico formato da tantissimi bambini, che scorrazzano senza sosta tra le seriose poltroncine di velluto rosso. 

Questa sera, infatti, saranno proprio loro i veri protagonisti dello spettacolo, poiché di bambini si racconta: bimbi pronti a dire la loro, che agli adulti piaccia o meno.

Lo School of Rock diretto da Massimo Romeo Piparo è, infatti,  la storia del rockettaro incallito Dewey Finn (personaggio cucito addosso a quel mattacchione di Jack Black per l’omonimo film diretto da Sam White e riscritto per Broadway dal maestro del musical Andrew Lloyd Webber).

 

foto gruppo SOR Antonio Agostini min
Il cast del musical sul palco

 

Finn per sbarcare il lunario si ritrova ad ingannare il sistema fingendosi un insegnante per una delle scuole più prestigiose del paese, la Horace Green Alma Mater. Nel costatare quanto i suoi giovanissimi alunni siano davvero dei tipi tosti, Dewey  insegnerà loro l’unica cosa che abbia mai conosciuto e amato davvero: il rock, ovviamente. 

Scoprendoli incredibilmente portati per la musica formerà una band, chiamata School of Rock, e l’iscriverà alla battaglia delle band. 

I giovani musicisti apriranno il loro cuore al rock, stanchi di aver a che fare con genitori rigidi, assenti e incapaci di ascoltare le loro passioni e necessità, riconoscendo in quel buffo ometto del Signor Dewey uno sgangherato mentore, del tutto differente da qualsiasi altra persona adulta mai incontrata nella loro vita.  

Lo spettacolo è senza dubbio un grandioso inno al rock, che cambia pochissime carte in tavola rispetto all’omonimo film del 2003 ed è un piacere applaudire, ancor prima che il sontuoso sipario si apra, alla super band dal vivo che, ai piedi del palco, è già agguerrita e pronta a scatenarsi tra i brani originali ed i classici del rock che compongono la colonna sonora di School of Rock.

 

Matteo Guma e Lillo Petrolo min
Il cast in scena.

 

Le scenografie dimostrano immediatamente d’essere quelle di una capace e sapiente produzione, per nulla mancante rispettò ai cugini del West End.

Grazie ad istallazioni mobili curate nei dettagli, gli autori riescono a trasportarci nelle numerose location dello spettacolo: la caotica e sciatta camera da letto di Dewey, la sala prove incredibilmente convincente  e, vero fiore all’occhiello del reparto scenografico, la splendida Horace Green che sarà teatro di una vera rivoluzione, capitanata dai giovani e brillanti protagonisti.

Lo spettacolo prosegue ed il pubblico, abituato fino a quel momento alla vita scapestrata ed al mondo tutto pane e rock ‘n’ roll di Dewey, ha bisogno di qualcosa che lo ponga davanti alla dura realtà: non sarà facile ingannare la Horace Green dove regnano disciplina e contegno.

Con un brano che, in mezzo a tanti straordinari momenti di vero rock,  merita una menzione speciale per aver portato sul palco la  potenza della tradizione: insegnanti e studenti ci accolgono nella sala grande offrendoci una dimostrazione corale davvero emozionante, che ha il gusto del musical classico. 

Il contrasto tra la verve della nuova e vecchia Broadway e l’irriverenza del rock  è rafforzato dalle citazioni, più o meno evidenti, di spettacoli rappresentativi come Wicked, Annie, Matilda e Cats. 

Dopo un crescente susseguirsi di numeri che inneggiano al più sfrenato hard rock, entriamo nel vivo della rivoluzione con il brano melodico Se Solo Mi Ascoltassi, dove i piccoli rockers esternano tutto il loro dolore nel capire ogni giorno di più quanto i loro genitori, assuefatti dalla frenetica routine, non siano in grado di comprendere ed incoraggiare i loro sentimenti e sogni. 

Questo dovrebbe essere il momento “strappalacrime”, così viene chiamato nel musical e, data l’intensità trasmessa dalle voci, dagli occhi e dalle gestualità dai ragazzi lo sarebbe, se non fosse per la proiezione alle loro spalle, che va a sostituire l’asettico sfondo nero delle produzioni straniere. 

Difficile ammetterlo, ma la commozione e l’empatia sono totalmente smorzati da questo screensaver, caratterizzato da fiori e farfalle, un po’ pacchiano. La scelta  a noi non è piaciuta.

Niente panico, perché sul finale entra in scena il meta-teatro. 

Con un riuscitissimo espediente drammaturgico, il pubblico del teatro Verdi si trasforma in quello della battaglia delle band che, totalmente impazzito per lo spettacolare concerto interamente suonato dal vivo dai ragazzi canta, balla e salta, posseduto da quella frenesia che solo il dio del rock può regalare.

 Il risultato è la vittoria indiscussa  dei ragazzi con il brano The School of Rock.

La scelta di Pasquale Petrolo, in arte Lillo, per il personaggio di Dewey è inaspettatamente assennata, praticamente perfetta. 

 

DSC8582 min
Pasquale Petrolo, in arte Lillo.

 

Inizialmente, alla vista della locandina dello spettacolo dal titolo Lillo – School of Rock la reazione non è stata del tutto positiva.

E’ lecito storcere il naso con pregiudizio quando un personaggio famoso come Lillo viene lanciato nella mischia di un progetto che non tratta propriamente il suo campo, con il solo apparente scopo di raccogliere audience da parte di un pubblico italiano troppo confuso e rinunciatario quando si tratta di musical. 

Si è portati a pensare che, nonostante le tante abilità e la grande esperienza che Lillo ha maturato nel mondo dello spettacolo, sarebbe più appropriato affidare una parte così significativa ad un performer che, per anni ed anni, ha dedicato la sua formazione in quel particolare ramo dello spettacolo che è il musical. 

Molti attori, ormai, vengono sacrificati a causa della volontà delle produzioni di inserire nel cast un famoso specchietto per le allodole. 

In questo caso però, dobbiamo ammetterlo, Lillo convince e conquista.

Occorre dimenticarsi delle performance di Jack Black e del suo “sostituto” nella produzione di Broadway, Alex Brightman: artisti dal carattere tanto esuberante quanto invadente. 

Un Lillo evidentemente emozionato, preparato nel suonare la chitarra, cantare e ballare, con la direzione di Piparo plasma il personaggio di Dewey a sua immagine e somiglianza, rendendolo meno seccante, più bonario, ma ugualmente capace di creare quel contrasto stilistico e generazionale tra il professore e gli studenti.

Già, gli studenti. Quel palco è totalmente ricoperto da quegli splendidi diamanti di talento che sono i ragazzi dell’Accademia Musical Sistina: appassionati, sensazionali, dinamite pura. 

 

foto gruppo Marco Rossi min
I piccoli protagonisti.

 

Cantando, suonando e ballando rigorosamente dal vivo, reggono lo spettacolo sulle loro giovani spalle, svalicando di gran lunga il qualificatissimo cast degli adulti e conquistando i cuori degli spettatori che, grandi o piccini, sono rapiti dall’improvvisa voglia di fare headbanging alzando con fierezza il calice del rock.

Una storia, quella di School of Rock, assolutamente perfetta per il pubblico italiano, poiché capace di trasformare un intero teatro in una scuola per passato e futuro. 

Siamo tutti inevitabilmente alunni quando si tratta di imparare dai nostri errori e quei ragazzi la, sul palco, sono insegnanti pronti a gridare che niente e nessuno deve frapporsi tra loro e la realizzazione di un sogno.

Il rock è una filosofia, uno stile di vita, questo spettacolo lo racconta perfettamente” afferma Lillo “Dewey non vuole proprio diventare una rock star, vuole solo essere libero di vivere rock. Il rock è farsi sentire, non abbassare la testa, è musica legata alla ribellione. Sono proprio i volumi alti del rock che ti portano a dire “Ascoltami!”, che è quello che vogliono i bambini della storia. Il rock è stato fondamentale per generazioni.”

Si percepisce fortemente, da parte di School of Rock e di quello che rappresenta, la grande volontà di trasmettere un messaggio potente a quei genitori che non trovano nella strada del musicista o del performer una valida alternativa a qualsiasi altro lavoro per il proprio figlio, perché di questo stiamo parlando. 

In Italia una carriera nel mondo dello spettacolo è troppo spesso sminuita, derisa, molto di più che nel resto del mondo, vi assicuro. 

Il pubblico italiano è così rapito da School of Rock perché tocca le corde giuste. Ci sentiamo chiamati in causa, proviamo empatia, ci affezioniamo e, alla fine, la speranza prende piede, rimanendoci aggrappata anche usciti da teatro, nonchè nei giorni successivi, mettendo profonde radici.

Ho passato il post show dietro le quinte con i ragazzi del cast ed è stato incredibile rendersi conto della devozione dei genitori (quelli veri) per la passione e la professionalità dei loro figli. 

 

WhatsApp Image 2019 05 06 at 20.58.16 min
Questa sono io nel dietro le quinte con il cast.

 

Questo, è il caso di dirlo, è quello che vogliamo per le generazioni future: un mondo dello spettacolo sostenuto dalla società, un mondo dove gli artisti, quelli veri, avrebbero la possibilità di trovare la loro strada, senza il costante timore d’essere sottovalutati, maltrattati e di non essere ascoltati. 

La pagella di School of Rock è piena di bei voti, non perdetevi le prossime date!

Valentina Gessaroli

Millencolin @ Vidia_Club

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• Millencolin •

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+ WOES

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Vidia Club (Cesena) // 04 Maggio 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Valentina Bellini

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WOES

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Grazie a Hub Music Factory

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Scimmiasaki @ Porcelli

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• Scimmiasaki •

 

Porcelli Tavern (Amelia) // 26 Aprile 2019

 

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È venerdì 26 aprile e fuori dal Porcelli Tavern, locale che ha vita nel centro di Amelia (TR) dal 1987, si avverte l’attesa. Ci si chiede quando inizierà il Release del nuovo album degli Scimmiasaki, Trionfo. Terzo lavoro per la band alt rock composta da Giacomo, Santian, Peppe e Niki, Trionfo uscirà (non sappiamo ancora quando) per Vina Records.

Sono passati 3 anni da Collasso, un EP che ha aumentato l’attesa e le aspettative dei fan. Trionfo infatti è un neonato ma con una gestazione di almeno un anno.

A mezzanotte il live non è ancora iniziato e continua ad arrivare gente.

Entrando nel Porcelli si fa fatica a passare, il bancone è gremito di persone e attorno ai tavoli ci si ritrova parlando del più e del meno. Ci addentriamo nella stanza sottostante al Pub e al primo accordo tutti si fiondano dentro.

Il palco è scarno e basso, rialzato dal pavimento di pochi centimetri. Dietro alla band l’unico pezzo scenografico è il banner con la grafica di Alessandro Ripane. Ma tutti gli occhi sono su di loro. Il posto è colmo.

Il concerto comincia con Vorrei, arpeggi solitari troncati da stacchi strumentali adrenalinici. Poco più di due minuti di musica e un breve testo “in fuga” verso la felicità. La gente è in ascolto, interessata e curiosa.

Qualcuno mi ha confessato di come fosse strano non conoscere e cantare le nuove canzoni, eppure Trionfo è familiare e le sonorità ormai caratteristiche degli Scimmiasaki non mancano.

Basta qualche nota del quarto brano Stringere (da Collasso), per far sì che gli spettatori rompano il ghiaccio e inizino a ballare. Il pubblico si scatena, canta e si unisce all’urlo collettivo di “Stringere!”. Sembra quasi una famiglia.

Il singolo, Trionfo, si apre con pochi secondi di chitarra ed esplode immediatamente nel ritornello, uno di quelli che ti resta in mente davvero. Sono già in molti a cantarlo, pur essendo uscito due giorni prima insieme al video di Flavio Gasperini.

A metà concerto, dei problemi tecnici con le luci portano il palco e la band alla penombra ma questo non oscura affatto il carisma degli Scimmiasaki.

Giostra è il pezzo più lungo, forse un po’ lontano dalle peculiarità dell’album. Il ritornello è disteso, quasi romanticizzante ed è seguito da uno strumentale al quale si sovrappone una simil litania: “Sento dire sempre le stesse cose”. Ipnotizzante.

Canzone priva di un refrain nel senso letterale del termine è Castello. La frase ridondante “Sono felice” però non può non entrarti in testa.

A chiudere il concerto c’è il bis del singolo. È come l’ultima spinta: una liberazione consapevole e già nostalgica. Il travaglio è stato lungo ma ne è valsa la pena.

Benvenuto Trionfo, “anche se il mondo è grande non è troppo per me” cit.

 

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Testo: Cecilia Guerra

 Foto: Simone Asciutti

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Rancore @ Campus Industry

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• Rancore •

 

Campus Industry Music (Parma) // 03 Maggio 2019

 

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 Foto: Mirko Fava

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Grazie a Big Time

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Concerto del 1 Maggio 2019 • Roma – Parte 2

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• Concerto del 1 Maggio 2019 •

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ROMA

Parte 2

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Ex Otago
Anastasio
Zen Circus
Ghemon
Omar Pedrini
Noel Gallagher
Carl Brave
Manuel Agnelli
Daniele Silvestri
Achille Lauro
Gazzelle
Subsonica
Ghali
Motta
Negrita
Orchestraccia

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Simone Asciutti

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Concerto del 1 Maggio 2019 • Roma – Parte 1

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• Concerto del 1 Maggio 2019 •

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ROMA

Parte 1

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Ylenia Lucisano
1M Next – I Tristi
1M Next – Giulio Wilson
1M Next – Margherita  Zanin
Fulminacci
Eman
Le Mandorle
Izi
La rappresentante di lista
Eugenio in Via di Gioia
Colapesce e Bianco
Dutch Nazari
Fast animals and slow kids
La Municipàl
Pinguini Tattici Nucleari
Coma_Cose
Canova
Rancore

 

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Simone Asciutti

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