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I Legno: una piccola realtà in una realtà per niente piccola.

E’ il 18 aprile, ormai è primavera ed io parto alla volta di Bologna dove ad aspettarmi al Cortile Cafè ci sono i Legno, un duo nato da poco che non è passato inosservato durante il mio inverno e la riproduzione della mia playlist preferita di Spotify: Scuola Indie.

Dopo i due fortunatissimi singoli Le canzoni di Venditti e Febbraio che hanno portato questi due ragazzi ad avere un pubblico sempre più ampio in pochi mesi, il 29 marzo è uscito il loro primo album per Matilde Dischi e subito dopo, hanno dato anche il via al loro primo tour che sta andando benissimo.

Segni particolari: indossano delle scatole che vanno a coprire i loro volti e a ricoprire il “ruolo” di legno triste e legno felice, il che rende impossibile l’identificazione, infatti giunta a destinazione la domanda è stata: come li riconoscerò?

Nessun problema, perché non hanno esitato a farsi riconoscere, presentarsi e farmi sentire immediatamente una di loro. Il bello di alcuni incontri è proprio questo, quando di fronte hai sì degli artisti, ma soprattutto dei ragazzi genuini, con tanta voglia di condividere e raccontare tutto ciò che ruota intorno al loro progetto musicale.

Non importa chi sono, ma il messaggio che vogliono mandare e trasmettere a chi li ascolta e non ho deciso di intervistarli mossa dalla curiosità verso il loro involucro, ma verso il contenuto di quel contenitore.

E così, ci sediamo ad un tavolino con delle birre e vi assicuro che è stato un aperitiv-intervista sorprendente. Impossibile non apprezzare i modi, l’educazione, lo spirito positivo e l’entusiasmo che questi due ragazzi toscani riescono a trasmettere.

 

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Partiamo dall’inizio, prima curiosità: quando e come nascono i Legno?

Noi ci conosciamo da sempre, siamo amici da una vita ed è nato tutto in un pomeriggio a casa quando per gioco, con una sola canzone abbiamo pensato di creare questa sorta di super-eroe della musica, nascondendo però la nostra identità dietro queste due scatole. Nelle scatole di solito mettiamo i nostri ricordi, i nostri pensieri ed è così che siamo nati. Ci siamo costruiti una corazza, una maschera e l’idea era quella di raccontare qualcosa senza dover necessariamente associare un evento ad uno di noi. C’è solo una differenza ed è tra legno triste e legno felice e la cosa bella è come se queste due figure adesso consolassero e aiutassero le persone. Siamo diventati amici e confidenti virtuali del nostro pubblico e loro hanno la possibilità di relazionarsi con noi attraverso i nostri canali social e lo fanno pensando di scrivere a legno triste e a legno felice. Eravamo entrambi disillusi dal sistema “musica” e avevamo bisogno di uscire dai nostri limiti e ci siamo riusciti, ma è nato tutto senza pensarci, tutto dal nulla. Avevamo solo una canzone: Sei la mia droga ed otto mesi fa tutto questo non esisteva, poi ci siamo ritrovati ad oggi a e vedere le persone ai concerti che cantano le nostre canzoni e per noi è già una vittoria.

 

Avete un bellissimo rapporto con il vostro pubblico e siete sempre molto presenti, soprattutto su Instagram dove spesso cercate di farvi conoscere meglio anche attraverso l’opzione di poter fare domande, non avete paura che crescendo questa cosa possa cambiare?

Noi abbiamo basato tutto sulla presenza e rispondiamo sempre a tutti i messaggi che riceviamo, che sia un consiglio o un complimento per noi è importante essere presenti per tutti quelli che seguono la nostra musica. Perché se una persona spende parte del suo tempo per noi, è giusto ricambiare, è giusto ringraziare. All’inizio era semplice perché eravamo in pochi, adesso invece inizia ad essere complicato soprattutto quando esce qualcosa di nuovo… Ad esempio dopo l’uscita dell’album abbiamo fatto le 5:00 di mattina, assicurandoci a turno di aver risposto a tutti, anche solo con un cuore. Spesso ci chiedono anche dei consigli, soprattutto d’amore ed è bello riuscire ad aiutare le persone che in quel momento magari non sanno cosa fare e cercano aiuto. Ci sentiamo anche utili.

 

Titolo Album è realmente il titolo del vostro album, com’è nata questa idea? 

Dobbiamo ringraziare Distrattamente, una pagina Instagram che ha fatto un disegno con le parole di una  nostra canzone e da lì è nata questa collaborazione. Non sappiamo chi sia o il suo nome, ma dopo la prima illustrazione gli/le abbiamo chiesto di creare la copertina di Febbraio. Successivamente le abbiamo chiesto di creare anche la copertina del nostro album e quando ci ha mandato la prima bozza, ovviamente c’era scritto “TITOLO ALBUM” perché noi avremmo dovuto mettere il titolo effettivo (che ancora non avevamo) e così è rimasto quello lì della bozza. Ci siamo detti: “Ma perché non lasciamo titolo album?”

 

Chi scrive tra i due?

Scriviamo entrambi, i nostri telefoni sono pieni di note vocali, vivendo in due luoghi diversi della Toscana spesso ci incontriamo anche su Skype e magari ognuno di noi ha scritto qualcosa e così poi confrontiamo le varie idee e assembliamo il tutto. Questo progetto non è pensato e ragionato, è nato passo dopo passo. La nostra idea iniziale era quella di fare uscire tre singoli, siamo partiti un po’ per gioco, invece ad ogni singolo aumentavano le visualizzazioni fino ad entrare in Scuola Indie e fino a quando l’etichetta ci ha proposto di far uscire il disco, quindi in tre mesi abbiamo messo insieme tutti i pezzi che avevamo ed è nato il nostro primo album.

 

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Questo tour è partito alla grande, state avendo un bellissimo riscontro. Cosa provate?

Surreale, la parola giusta è surreale perché per noi è tutto inaspettato. E’ un’emozione continua. Siamo una piccola realtà, ma torniamo a casa felici. Quando suoniamo ci trasformiamo e per noi è assurdo ma allo stesso tempo bellissimo vedere le persone che cantano con noi i nostri pezzi. Questa cosa ci ha travolto e noi ci siamo lasciati travolgere. Stiamo vivendo situazioni pazzesche, siamo sati in città come Milano o Avellino e non ci aspettavamo una tale presenza.

 

Tornando alle domande che vi fanno su Instagram, qualche giorno fa una persona vi ha chiesto a chi dedicate le vostre canzoni e la vostra risposta è stata:  “A tutte le persone che hanno avuto delle relazioni complicate” La mia domanda allora è: secondo voi cosa complica le relazioni di oggi?

La vita in generale. Quando ti trovi ad avere tutto non sei mai felice di avere tutto e ti manca sempre qualcosa, oppure in alcune eccezioni ti guardi allo specchio e sei felice perché sai di avere tutto. L’amore è bello e all’inizio è tutto perfetto, ma dopo un po’ bisogna iniziare anche a sopportare e supportare la persona con la quale decidiamo di condividere la nostra vita. La forza di una coppia è l’unione e in questo preciso momento storico in cui i social hanno un ruolo così importante nelle nostre vite, l’unione a tratti è sempre compromessa perché sicuramente da un lato è anche cambiato il nostro modo di interagire e inevitabilmente i social network vanno a complicare le relazioni perché tutti abbiamo bisogno di sentirci importanti e stimati e lì in un attimo puoi sentirti bene o anche male. Noi crediamo ci siamo molta solitudine e si tenda più alla malinconia che alla felicità. E’ cambiato il mondo. Prima per incontrare una persona dovevi chiamare a casa, oggi basta mettere un commento sotto una foto per farsi notare e per sentirsi o far sentire importante. L’amore inteso alla vecchia maniera come Sandra e Raimondo non esiste più ed era quella l’idea perfetta di unione che oggi manca o comunque sta scomparendo sempre di più.

 

Quanta vita c’è all’interno di queste scatole che tirate fuori nelle vostre canzoni?

Tutto. Praticamente tutto. Tutto quello che scriviamo in realtà nasce da quello che abbiamo vissuto. Abbiamo raccontato il nostro passato e il nostro presente. Raccontiamo le nostre emozioni, le nostre paure, le nostre sensazioni. Chiunque potrebbe essere legno, perché chiunque ha vissuto o vive quello che cerchiamo di comunicare e dire attraverso le nostre canzoni.

 

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Dopo aver conosciuto meglio la storia di questi ragazzi, ho avuto il piacere di assistere al loro live.  Nascondono i loro volti è vero, ma non per paura.

Forse vorremmo avere tutti una scatola di cartone a portata di mano sotto la quale nasconderci ogni tanto, per avere anche solo per un attimo la libertà di essere qualcun altro o semplicemente per il bisogno di estraniarsi da quella necessità di apparire sempre e comunque in un modo piuttosto che in un altro.

Per loro non è importante farsi riconoscere tra la folla, per loro è importante emozionare ed emozionarsi. Per loro è importante continuare a fare quello che amano fare, esponendosi attraverso le parole e non attraverso i volti.

Non ci metteranno la faccia, ma sicuramente ci mettono il cuore ed è quello che arriva alle persone, ed è per questo che all’interno di una realtà per niente piccola come quella dell’attuale scatola Indie-pop, le loro scatole sanno sicuramente come farsi vedere e sentire.

 

Claudia Venuti

Balena Endgame: un Live Report ineluttabile

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 P0P

Balena Endgame: un Live Report ineluttabile

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Diario di una Band – Capitolo TRE

“E da qui… e da qui…
qui non arrivano gli ordini…
a insegnarti la strada buona…
E da qui… e da qui…
Qui non arrivano gli angeli”

Vasco Rossi

 

 

Non è sempre un gioco in cui si vince, non lo è, non lo è  affatto. Diventa maledettamente difficile in certe circostanze mantenere la lucidità, essere “legittimi” e macinare senza mandare al risparmio la materia della costanza.

Ci sono giorni, periodi soprattutto, che hanno lo stesso attrito di un peso di cemento legato alle caviglie, dentro al mare della vita, obbligato ad avere la forza per nuotare  troppo in alto per prendere l’ossigeno necessario.

La musica, quella fatta con la luce delle sensazioni e dell’entusiasmo appartiene alle persone che in dote hanno un empatia spiccata. Germogliano emozioni, il concerto raggiunge picchi di collaborazione col pubblico da far venire la pelle d’oca e ogni tanto perché no si arriva alle lacrime quando la mente è sgombera, immune, impermeabile da inganni e cattivi pensieri.

Essere in grado di sviluppare una situazione musicale avente al centro un cuore pulsante di emozioni rende tutto più facile e fluido. Si inerpica però con la stessa moneta quando il buio soppianta entusiasmo e propositi.

In questi casi però si ha l’obbligo e la responsabilità di marciare a testa alta contro un sole che prova a bruciarti gli occhi, e hai il maledetto compito di tenere duro, soprattutto quando si parla di un concerto live.

Puoi avere problemi con la fidanzata, può essere un casino la situazione in famiglia, puoi avere in coma un caro amico per un incidente avuto la sera prima del concerto a 500 km da casa, può morire il tuo cane che è praticamente parte della famiglia da quindici anni. Possono succedere tutte queste cose e tu non puoi farci proprio un cazzo di niente.

Quindi cerchi di distrarti, cerchi di evadere, ti ritrovi pure a pregare l’universo, a sperare che tutto possa sistemarsi per il meglio. In mezzo a questa situazione devi essere vigile e catalizzare la disperazione in energia positiva che anche a km di distanza possa raggiungere chi ha bisogno in quel momento di ogni molecola di speranza.

A volte va bene, a volte no. Sali sul palco col groppo in gola, con gli occhi vitrei e con la mano che trema. Parti e automaticamente credi sia l’ultimo concerto, il più importante di tutti, il concerto del giudizio. E lo è davvero perché hai la responsabilità di non lasciare al caso nemmeno un millimetro di banalità, lo fai per chi sta lottando, per chi è in bilico.

Il pubblico diventa un film muto, gli amplificatori sparano bolle distorte di vento caldo. Ti lasci accarezzare da questa brezza, cerchi gli sguardi dei tuoi compagni che sanno perfettamente cosa stai vivendo e provando. Uno strizza l’occhio, l’altro acconsente con la testa come a dire “stai facendo la cosa giusta, fagli vedere chi vince”.

Canti e pensi, gridi e pensi, prendi fiato e pensi, presenti un pezzo e strappi il colore del concetto del brano con le unghie e con i denti perché chi ti sta ascoltando si fida di te, forse è in una situazione speculare alla tua e ha bisogno di essere sollevato.

Qualcuno può avere perso il lavoro o aver subito un torto, qualcuno può essere andato in ferie dopo mesi di prigionia serrata, ognuno può avere la propria battaglia più o meno pesante da combattere.

E tu sei li perché devi deviare la tristezza sul binario della spensieratezza, ma sei il primo ad essere in un turbinio di paura e inquietudine. Quindi prendi l’ossimoro in questione, lo svisceri e ti metti la maschera di ognuno che hai davanti.

Lo fai come scappatoia perché loro non lo sanno, ma tu hai bisogno del loro supporto tanto quanto loro lo hanno del tuo. Nasce una comunione, un paracadute che parzialmente accontenta tutti, una tregua, un “cessate il fuoco” provvisorio ma che ha tanto il sapore di una boccata di ossigeno.

Finisce il concerto, cambio improvviso di scenario degno del miglior Tim Burton, ringrazi e abbracci i tuoi fratelli per la loro preziosa spalla diventata di granito, indissolubile. Decomprimi un attimo prima di smontare le tue cose dal palco.

Pensi che non serve a niente magari aver scritto il nome di Christian sulla chitarra, ma speri che una piccola vibrazione possa scuotere il sonno prematuro di un ragazzo buono. Vibrazione come quelle del Nokia 3310 per intenderci, quelle che ti facevano sobbalzare di notte ai tempi delle superiori e poi “si ciao, chi dorme più adesso?”.

E qui entra in gioco la tua fragilità, dalla quale però ora non devi più nasconderti perché sei fatto di carne, ossa e sentimenti come tutti, e nella lotta di chi cerca di distinguersi, essere mescolato alla massa è un sollievo, ti arriva una spasmodica e necessaria voglia di normalità, colmabile con una buona notizia sullo smart phone magari o con un abbraccio di chi oramai ti conosce come le tue tasche.

Sai che hai suonato al massimo per chi fa parte della tua vita, della tua quotidianità. Figure che non rivedrai forse mai più, e li vuoi fermare il tempo, cercando di capire se il limbo della paura può durare per sempre oppure no. Ora non devi vergognarti per nessuna cosa al mondo di ogni reazione, perché è legittimata dall’amore.

Qui si inizia a percepire il legame tra sacro e profano che unisce la morte alla musica. Sei spaventato, ma hai fatto della musica la tua ferma compagna, quindi esigi conoscere ogni sfaccettatura, ogni cunicolo buio da illuminare e la morte volente o nolente fa parte del gioco, un fottutissimo gioco in cui non vince nessuno.

Tutto si ridimensiona e ti appare il mondo come un posto che seppur influenzato e deteriorato da pessimi principi è giornalmente una chance da sfruttare. Capisci che ogni soddisfazione anche se misera è una piccola vetta scalata, un mattoncino su cui costruire, perché anche sulla macerie è doveroso provare a costruire.

Diventi piccolo e senza potere, si fottano la boria e la presunzione, davanti alla morte ogni obiettivo raggiunto è un prodigio, farlo con la musica è un privilegio da trattare coi guanti dell’umiltà.

Per avere una panoramica reale, a 360 gradi della vita che vuoi fare, sei obbligato a conoscerne ogni volto, anche il più scomodo e quest’arte è la dimostrazione vicina e più a contatto con le sensazioni della gente.

Canteremo anche del ricordo, perché sia presente ogni giorno nei gesti più comuni, in fondo la morte si può anche esorcizzare, con l’amore

 

A volte va bene, a volte no.

 

A Seppe

A Icio

A Pablo

 

Vasco Bartowski Abbondanza

VezBuzz: quella volta che i Radiohead sono spariti completamente (dal Web)

Un po’ per curiosità, un po’ per deformazione professionale, sono sempre stata attratta dalle tecniche di comunicazione adottate da artisti e band per promuovere i propri lavori. Forse qualcuno avrà già sentito parlare del “buzz”. Questa parola onomatopeica richiama il ronzio fatto dalle api.

Il buzz infatti viene utilizzato per generare sorpresa e curiosità, e di conseguenza brusio, o parlando di marketing sarebbe meglio dire “passaparola”. E non c’è bisogno che lo dica io, quanto il passaparola sia importante, soprattutto nell’era dei social.

Anche nella musica, sono tanti gli artisti che hanno adottato e messo in piedi strategie di comunicazione insolite, il buzz appunto, per lanciare i propri dischi o per creare interesse intorno a sé, in maniera spontanea. In questa rubrica, VezBuzz, parlerò dei casi più originali.

Il primo che mi interessa raccontare, anche per amore verso il gruppo, è quello dei Radiohead in occasione dell’uscita di A Moon Shaped Pool. Correva l’anno 2016 e a casa di alcuni fan della band che avevano fatto acquisti sul sito ufficiale, arrivò uno strano volantino. Oltre al logo dei Radiohead una frase: “Sing a song of sixpence / that goes ‘Burn the witch” e un minaccioso “We know where you live”.

Sing a song of sixpence è il titolo di una filastrocca per bambini, mentre Burn the Witch fa pensare alla caccia alle streghe. Tra la fine di Aprile e l’inizio di Maggio infatti, periodo in cui vennero consegnati i volantini, si festeggia la Notte di Valpurga.

In alcuni paesi del nord Europa questo rito pagano indica la fine dell’Inverno e per lungo tempo fu associato proprio alle streghe, per via dei riti, i baccanali e i falò che avevano luogo durante quella lunga notte. Non so voi, ma io ho i brividi.

A questo, seguì un altro fatto davvero, davvero insolito. I Radiohead, da un giorno all’altro, cancellarono completamente le loro tracce dalla rete. Il sito, i profili Facebook, Instagram e Twitter della band vennero completamente svuotati, così come scomparvero i tweet di Thom Yorke dal suo profilo personale.

Questo naturalmente portò i fan, ma non solo, a parlare, a fare congetture, a chiedersi come mai. Proprio loro, che in Kid A ci avevano spiegato “How to disappear completely” l’avevano fatto veramente.

Il 2 Maggio successe qualcosa di nuovo. Su Instagram apparve un piccolo video con un uccellino in stop-motion, che cinguettava con entusiasmo. Più tardi, sempre su Instagram, la band pubblicava un altro video criptico di un gruppo di persone mascherate che ballavano intorno ad una donna legata.

Finalmente il 3 Maggio 2016 arrivò il video di Burn the Witch, il primo singolo dopo cinque anni, con chiari richiami al film horror The Wickerman e ad uno spettacolo televisivo per ragazzi degli anni Sessanta, la serie Camberwick Green.

Il pezzo ha una potenza abbagliante e frenetica, con loop di percussioni elettroniche e il falsetto di Yorke immerso in un oceano di riverbero. Il resto è storia.

A Moon Shaped Pool non sarà ricordato come l’album più sperimentale dei Radiohead, ma di certo è stato un grande ritorno dopo The King of Limbs, non particolarmente amato da alcuni fan, forse tra i lavori più difficili della loro carriera.

I Radiohead hanno sempre fatto parlare di loro per la volontà di staccarsi dalle logiche promozionali della discografia. Il concetto di sparizione però, o sarebbe meglio dire di annullamento, non è qualcosa di nuovo, ma è l’essenza stessa della loro poetica.

Con la campagna di comunicazione e di attesa per A Moon Shaped Pool hanno eliminato e ucciso, metaforicamente, la loro precedente incarnazione e si sono trasformati in una versione attualizzata di loro stessi. La loro versione aggiornata al 2016.

Dai punti di domanda per la strategia, fino ad arrivare agli immancabili “rivoluzionari” e “avantissimo” pronunciati ogni volta che si parla della band dell’Oxfordshire, passando per le millemila analisi e disanime di quanto stava accadendo c’è una sola cosa che conta: che A Moon Shaped Pool sia uscito e che l’obiettivo sia stato raggiunto.

Certo, la grandezza della band e gli album epocali che hanno realizzato negli anni hanno avuto un ruolo importante nella sua anticipazione, ma con numerose band che hanno lo stesso livello di irriducibile supporto dei Radiohead, perché A Moon Shaped Pool ha attirato così tanto l’attenzione?

Per come la vedo io, la campagna di attesa che è stata messa in piedi per il web ha giocato un ruolo importante. Annunciando l’ora del lancio alle 19:00 di domenica 8 Maggio, due giorni prima del rilascio, la band aveva predisposto uno scenario che assicurava alla gente di aspettare con impazienza davanti ai propri computer, in attesa di fare clic sul download.

L’ascolto del disco è stato la cosa più simile ad un evento a cui si sia assistito da anni. Commenti sui social e la BBC Radio 6 che ha organizzato una sorta di festa con ascolto dal vivo e speaker che commentavano le tracce.

A Moon Shaped Pool è stato un’esperienza personale, ma vissuta con la consapevolezza che migliaia di altre persone stavano facendo la stessa cosa, nello stesso identico istante.

 

Daniela Fabbri

Glen Hansard “This Wild Willing” (ANTI-, 2019)

Impressioni impressionistiche, tirar pennellate sull’argomento, risultato di una settimana di ascolto,
alla ricerca delle intenzioni, 
della trama e dei retrogusti, più che la disamina della grammatica del disco.
Correndo spesso ai taccuini per fermare un’idea, scrivendo dove capitava su quello che capitava. 

 

Notte. C’è un uomo che cammina per le strade di Parigi.
Quinto arrondissement, torna verso un letto, non verso casa sua.
Mani in tasca, collo incassato, la barba struscia sul bavero, alzato. 

Gli occhi sono puntati sulla strada bagnata, ma tradiscono l’altrove in cui si trovano i suoi pensieri. Sta portando a spasso per il quartiere idee e ispirazioni, con la chiara intenzione di contaminarli o, volgarmente, di concimarli.  Respira forte l’aria di una città che non è la sua, per trovare una inquadratura che non sia scontata, usurata o, semplicemente, la solita. 

La geografia di un pensiero è un atto inconscio, ma è figlio, almeno in questo caso, di un piano ben congegnato.
Prima che l’ordine del mondo venisse appaltato al monopolio delle religioni monoteiste esisteva una consapevolezza sana che delegava ai luoghi, al mondo, il ruolo di attore comprimario. Mentre le ninfe presiedevano alla sacralità della bellezza della natura, Il genius loci era l’antica divinità protettrice di un luogo, in genere di una casa, di una famiglia. Lentamente, nel corso dei secoli, il suo ruolo è mutato, estendendo, per sineddoche, il proprio ruolo di protezione e rappresentazione  a comunità più estese. La storia ha conservato l’idea del genius e l’estetica prima e l’architettura in un secondo momento l’hanno adottata, trasformandola in un approccio metodologico alla propria materia di studio. Rimane tuttavia una parola antica, carica di significati sovrapposti, stratificati, e nasce come un’entità viva, senziente e panica.
Il genius loci lo sta cercando un uomo che cammina per strada, a Parigi.
È irlandese, di Dublino, quarantotto anni.
Lui lo sa bene, certi uomini sono più propensi a farsi influenzare dai luoghi e dai loro demoni. Parigi traccia i confini del suo pensiero e del suo lavoro. Entra nei testi, nelle amicizie, nelle collaborazioni. L’humus della città fa fiorire le idee. E ci sono città che riescono in questo compito meglio di altre. Alcune, come Seattle, funzionano da catalizzatore. Altre vanno semplicemente cantate, come fece Bowie a Berlino.
Il nostro uomo camminava per altre strade, appena un anno prima, esattamente quelle di Chicago. Quello che nacque dall’altra parte dell’Atlantico è un’opera piena di genius locale. Quasi il portarsi fisicamente altrove funzioni come un atto volontario per sperimentare e contaminare, nonostante migrare, anche solo artisticamente, sia attuale, ma non di moda.
Parigi ha una biomassa estetica piuttosto elevata. Stratificazioni di secoli di vite, di arte, di artigiani, di storie. È impossibile camminare per quelle strade e non avere una vertigine. E no, non è labirintite, è una carezza di Stendhal.   

C’è un irlandese che cammina per le strade di Parigi. Le mani in tasca sono rosse  e doloranti.
La testa corre, pulsa, a dirla tutta fa anche un po’ male. Quello che nessuno racconta, nella costruzione della mitologia di un cantante è la fatica, fisica, del comporre. Lo si trova nei racconti degli amici e colleghi di Springsteen, ad esempio, quando ricordano l’incessante lavoro di cesello in sala di registrazione, il broncio perenne e l’insoddisfazione come condizione necessaria alla produzione artistica.
Il nostro irlandese, come Bruce, ha scelto un approccio artigianale alla propria arte. Se si vuole contestualizzare, per meglio rendere e far ballare (anche) le parole, possiamo definire tutto questo come approccio analogico alla creazione musicale. Ci dice il nostro:

“Sometimes when you take a small musical fragment and you care for it, follow it and build it up slowly, it can become a thing of wonder”.

È l’artigiano che sa individuare un frammento utile, anche solo dal punto di vista estetico e valorizzarlo. È un punto di partenza, ma già solo per individuarlo serve essere artigiani. E da lì inizia un lavoro analogico, fatto cioè di analogie, di similitudini, di vicinanze, fisiche e culturali.
Non c’è posto per il digitale nel pensiero del nostro uomo. Il digitale è uno o zero, è vero o falso. È campionatura, non citazione. L’essere o non essere digitale si dissolve nel pensiero analogico fatto di infinite sfumature, fossero anche solo di grigi.
L’analogico è un pensiero a cascata, anche per quello che si lega alla musica, ossia i testi delle canzoni. I temi sono quelli da lui già trattati, già cantati, ma se la materia è ben nota quello che cambia è il modo in cui viene trattata. Il fantomatico genius che va cercando gli servirà proprio a questo. Parigi gli regala testi vicini quasi alla tradizione del troubar clus medievale, citazioni bibliche, ma anche, e forse soprattutto, una multiculturalità che prende vita nelle collaborazioni del suo ultimo lavoro. Irlanda e Iran si intrecciano, inaspettatamente, in un disco di un busker di Dublino. È il pensiero analogico che permette a mondi così distanti di parlarsi, dando vita ad atmosfere veramente particolari e a colpi di scena musicali. E’, nelle intenzioni e nelle parole, una ricerca continua, di amore, di strade e di identità, un flusso di coscienza mormorato sui marciapiedi di Parigi.
Il nostro irlandese che cammina è figlio dell’Ulisse di Joyce, quantomeno della sua forma, così instabile e fragorosa e densa. E’ figlio dei cieli della sua isola e delle sue birre, della sua storia e della sua forza. Un centro stabile e coerente, portato volontariamente in terra straniera alla ricerca di nuove sfumature. Un piccolo demone parigino che gli sussurra nelle orecchie e un gruppo di amici dediti al particolare musicale.
Gli ingredienti ci sono tutti. 

C’è Glen Hansard che cammina verso l’Irish Cultural Centre, dove alloggia da un mese. Ha concluso il suo ultimo lavoro, This Wild Willing, da poche ore, grazie al suo amico David Odlum, con cui collabora da anni. Ha suonato e cantato con connazionali e con musicisti provenienti da mezzo mondo, ha lavorato duramente su piccoli frammenti musicali che tra le sue mani sono diventati grandi pezzi. Ha cantato piano, sottovoce, perché ha inciso un album che va ascoltato dedicandoci del tempo, senza strepiti, senza fretta, richiede merce rara, l’attenzione. Sette canzoni su dodici superano i cinque minuti.
Cammina l’Hansard musicista, consapevole di aver fatto un buon lavoro da artigiano e un ottimo lavoro come artista.
Cammina, Glen, verso un’altra città, verso un nuovo genius loci, verso nuovi amici con cui condividere una pinta di Guinness e qualche accordo, sia mai che ci scappa un altro gioiello come questo This Wild Willing.

 

Glen Hansard

This Wild Willing

ANTI-, 2019

 

Andrea Riscossa

Videogiochi in concerto, quando la colonna sonora merita un tour tutto per sé

Dai tempi dei tremolanti e cacofonici cinguettii a 8-bit, motivetti che in molti casi sono comunque riusciti a diventare intramontabili, brevi jingle che ossessivamente si ripetevano all’infinito nelle giovani menti di giovani videogiocatori, da quell’era ormai remota le colonne sonore dei videogiochi, soprattutto dal punto di vista puramente tecnologico, hanno fatto passi da gigante, arrivando a competere ad armi pari con quanto si produce solitamente per TV e cinema.

Se persino un grande artista del calibro di Gustavo Santaolalla, Oscar nel 2006 con I Segreti di Brokeback Mountain e di nuovo nel 2007 con Babel, è stato felicemente coinvolto nella realizzazione della soundtrack di The Last of Us, autentico capolavoro originariamente pubblicato su PlayStation 3 nel 2013, in attesa del sequel che lo vedrà nuovamente tra i protagonisti, significa che il medium anche sotto il profilo musicale ha raggiunto la piena maturità.

Con l’affermarsi di CD-ROM e DVD a formati riferimento, con il progressivo l’abbandono dei MIDI, comodi fintantoché c’erano restrittivi limiti di memoria da rispettare, team di sviluppo e compositori hanno potuto finalmente esprimere liberamente la loro creatività, arrivando al punto di confezionare temi e musiche d’accompagnamento indimenticabili, iconiche, significative tanto più quando accompagnano l’azione di un videogioco particolarmente riuscito ed ispirato.

Era questione di tempo insomma, il necessario per trasformare una generazione di ragazzini con la fissa per i videogiochi in adulti economicamente indipendenti, prima che a qualcuno venisse in mente di imbastire autentici concerti, con tanto di direttore e orchestra al seguito, che riproponessero alcuni di questi splendidi brani.

Eventi di questo tipo se ne organizzano diversi, già da qualche anno, un po’ ovunque nel mondo, Italia compresa. Non mancano iniziative meno ufficiali, con una scaletta che spazia in totale libertà da una saga all’altra. Ultimamente, tuttavia, stanno prendendo sempre più piede proposte monotematiche, sponsorizzate, organizzate e desiderate dagli stessi produttori dei videogiochi di riferimento.

Il caso più famoso, e di successo, è senza dubbio The Legend of Zelda: Symphony of the Goddesses, tour che ha fatto tappa anche nel Belpaese, che pesca a piene mani nella trentennale saga di Nintendo, non lesinando sul mescolare la musica a contributi video che contestualizzano ogni brano con il capitolo di riferimento.

Si tratta, naturalmente, di iniziative dal target estremamente ristretto, specifico, relativamente limitato. Il pieno apprezzamento del live, difatti, non può in alcun modo prescindere da quello che è il personale rapporto del singolo fruitore con l’opera da cui è ispirato.

Per quanto alcuni componimenti possano risultare piacevoli, e persino emozionanti, anche per il neofita, totalmente ignaro della provenienza di ciò che sta ascoltando, solo i fan e gli appassionati, ricordando il preciso istante in cui l’azione è accompagnata dal brano in esecuzione, può carpire appieno lo spirito che anima questa tipologia di concerti, sinceri tributi al videogioco stesso, quando non genuini album musicali di momenti nostalgici in cui crogiolarsi.

Oltre a Nintendo, anche il publisher nipponico Square-Enix, famoso per i suoi giochi di ruolo, è piuttosto attivo in questo senso. Dopo il successo mondiale di Distant World, tour dedicato alle musiche di Final Fantasy, e quello di Kingdom Hearts Orchestra – World Tour, il prossimo nove giugno, presso il Dolby Theatre di Los Angeles, debutterà il monografico Final Fantasy VII – A Symphonic Reunion, evento dedicato ad uno dei più famosi capitoli del brand di Square-Enix, occasione ideale anche per pubblicizzare l’ormai prossima uscita del remake del gioco del 1997, originariamente proposto sulla primissima PlayStation.

Iniziative del genere sono destinate a progredire negli anni, sia per frequenza con cui verranno proposte, sia per numero di artisti, publisher, organizzazioni coinvolte. L’ottimo riscontro dei tour organizzati negli anni scorsi, del resto, parla da solo.

 

Lorenzo “Kobe” Fazio

An evening with Manuel Agnelli @ Teatro Fabbri di Forlì

Abituata ai concerti degli Afterhours, in piedi, schiacciata alla transenna, è strano pensare di ascoltare le canzoni che hanno fatto da colonna sonora alla mia adolescenza comodamente seduta su una poltroncina di velluto rosso, in un teatro.

Mentre cammino per le strade che mi portano al Teatro Fabbri di Forlì, in occasione di An Evening with Manuel Agnelli mi chiedo che pubblico troverò. Chi, come me, che ha iniziato ad amarlo durante la sua militanza nelle file del rock indipendente italiano oppure persone che lo conoscono soprattutto per i suoi ultimi trascorsi televisivi? Questa cosa mi spaventa un po’.

Mentre mi accomodo nel mio posto numerato, tiro un sospiro di sollievo. Il pubblico di Agnelli è cresciuto, è diventato più trasversale, ma il clima che si respira è lo stesso che ho incontrato in passato ai suoi concerti. Ci si scambia opinioni sull’ultima volta che lo si è visto live e mi accorgo che in tanti non hanno la minima idea di cosa aspettarsi da questa inedita serata concerto-evento.

La modalità d’impianto teatrale per alcuni musicisti non è però così nuova. Penso alle “Conversations with Nick Cave”, che tanto amo e che probabilmente anche Agnelli segue con interesse. Impossibile credere che non si sia ispirato a lui per questo format che tocca diversi ambiti, dalla conversione al concerto, passando per il reading.

Anche solo la vista del palco fa intuire quale sarà l’atmosfera della serata: un appendiabiti, alcune valigie, due poltrone, un giradischi, dei vinili, un plotone di chitarre pronte per le esecuzioni acustiche.

Rodrigo D’Erasmo e Manuel Agnelli arrivano sul palco alle nove e mezza passate, entrambi indossando un cappotto. Se lo tolgono e senza dire niente partono con il primo pezzo, una cover della canzone The Killing Moon di Echo and the Bunnymen, seguita dal primo dei tanti ringraziamenti al pubblico.

Agnelli sembra rilassato, “con la musica ho trovato il mio linguaggio. Ho iniziato a fare rock contro tutto e tutti, ma ad un certo punto ho perso l’obiettivo. Combattevo per qualcosa, ma non ricordavo più per cosa, così ho scritto questo pezzo“. È Padania la canzone che usa per iniziare a parlare di sé.

 

Manuel Agnelli Nicola Dalmo 2019 002

 

 

Tra una chiacchiera e l’altra si arriva a Male di Miele. Agnelli quando parla dell’album “Hai Paura del Buio?” che li ha consacrati alla storia della musica italiana, racconta con ironia di quei tempi, tutt’altro che facili per gli Afterhours.

La band era indebitata con lo studio di registrazione, nessuno voleva comprare il nastro, Manuel aveva perso il lavoro e la sua ragazza l’aveva lasciato. A quei tempi viveva sopra un negozio di animali che, quando passava davanti, parevamo ridere di lui.

Nonostante questo “ho iniziato a preoccuparmi solo quando i pezzi sono diventati allegri“. La versione di Come Vorrei al pianoforte è ancora meglio di quella in studio. Un pezzo dalle sonorità dolci, ma dal testo disperato.

Anche il successivo, Pelle, viene eseguito al piano, con l’accompagnamento del violino di Rodrigo. Il risultato è un’esecuzione ariosa del brano originale. Ammetto di aver temuto l’effetto nostalgia, ma tutti i brani rieseguiti durante An evening with Manuel Agnelli acquistano una nuova identità, senza per questo tradire quella che già conosciamo.

L’ironia non manca mai, nemmeno quando tocca alcuni dei momenti più difficili della sua vita. È il caso di “Folfiri o Folfox”, l’ultimo album di inediti che racconta della morte del padre. Un lavoro catartico, dove “la musica è venuta in soccorso, per buttare fuori le tossine“.

Curioso pensare che proprio un disco così difficile e pesante, sia arrivato primo in classifica. Quando Agnelli e D’Erasmo eseguono Ti cambia il sapore il palco si tinge di verde e di blu, come se fossero imprigionati dentro un acquario, a fare i conti con il dolore. L’esecuzione è da brividi.

Si apre il momento “miti”, con una cover di The Bed di Lou Reed, tratta dall’album “Berlin“. Questo brano era la colonna sonora dei primi viaggi in giro per l’Europa di Agnelli, e dei suoi primi approcci con il sesso.

Come può un album come questo fare da sfondo a dei rapporti sessuali di un ragazzino di sedici anni? Manuel ha la risposta: “ci si nasce con questa sensibilità. Il sesso allegro non mi è mai interessato. E chissà, forse sono proprio io l’inventore del sesso emo“. Probabilmente l’aneddoto più divertente tra i tanti che Agnelli condivide con il pubblico, e proprio questi racconti sono uno dei tanti elementi che arricchiscono il live.

Bianca ottiene una piccola ovazione. Al termine del pezzo i due vanno a sedersi sulle poltroncine in fondo al palco e mentre bevono un bicchiere di vino Agnelli legge un brano di Ennio Flaiano.  Poi a ritmo serratissimo, eseguono una cover irriconoscibile dei Joy Division. Il pezzo è più simile a come l’avrebbe suonato Nick Drake, che ai suoni graffianti e caustici della band di Ian Curtis.

Uno degli aspetti più interessanti di questo concerto-evento è sentire parlare Agnelli dei suoi miti musicali e riferimenti culturali. E di quelli che, inaspettatamente, non l’hanno mai influenzato nonostante con la loro musica abbiano sancito un periodo storico. È il caso di Kurt Cobain, che oggi sarebbe quasi coetaneo di Manuel.

Erano gli anni Novanta, cadeva il muro di Berlino e in Italia imperversava Mani Pulite. Sembrava che l’onestà e la verità, stessero per vincere su tutto il resto. Il mondo poteva cambiare, finalmente tutto era possibile, nella società, nella Musica, ovunque. Poi, Kurt si suicidò e mise il sigillo a quel periodo storico. Tutto cambia per rimanere uguale.

L’abilità di Agnelli, spalleggiato dal fondamentale Rodrigo D’Erasmo, è di aver messo in piedi uno spettacolo intimo e toccante, delicato e profondo, carnale e leggero. Si passa da una lettura a un aneddoto personale, da una cover a un pezzo storico degli Afterhours, senza quasi accorgersene.

Come quando si è tra amici veri, quelli a cui si vuol bene, che tra un bicchiere di vino e il consiglio di un buon libro o un disco, si finisce a tirare tardi.

La cover di State Trooper di Springsteen è una delle meglio riuscite di tutta la serata. Tra l’urlo riverberato di Agnelli e il violino di Rodrigo, che sembra riprodurre il suono del sistema nervoso, non viene tradita la forza del pezzo che parla di chi non è mai riuscito ad integrarsi, di chi vive ai margini, dei diversi.

Il concerto scivola via, una diapositiva dopo l’altra, con Manuel che si racconta molto anche nel privato, dalla prima telefonata di Mina arrivata quasi per caso nel 1995 agli inevitabili talent. Agnelli dice di essersi liberato, durante quell’esperienza televisiva.

Di aver capito che molta della musica che viene prodotta oggi è “musica di merda“, ma che in mezzo a tutto questo ci sono pezzi interessanti e che, spesso e volentieri, è proprio sua figlia a farglieli conoscere. È il caso di Lana Del Ray. La cover di Video Games è il pezzo che non ti aspetti, eppure sembra essere tutto al posto giusto. Il pubblico ascolta incantato.

Sono passate più di due ore dall’inizio del concerto, ma il ritmo è ancora sostenuto. Nell’ultimo “encore” infila Ballata per la mia piccola Iena, Ci sono molti modi e Non è per sempre con il pubblico che canta – male – insieme a lui il ritornello. Mi scoppia il cuore.

È il momento dell’ultimo pezzo che “servirà a togliervi quello stupido sorriso ingiustificato dalla faccia“, ci dice Manuel con un’espressione da gatto. Parte Quello che non c’è.

Al termine del concerto il pubblico si alza in piedi, Agnelli e D’Erasmo se ne vanno tra gli applausi.

Quello che si è visto sul palco del Teatro Fabbri è un nuovo Manuel Agnelli, più leggero, più risolto forse, che non ha tradito quello che è stato. È una nuova versione che ha portato il musicista ruvido e puro, tutto nervo e rabbia, a una nuova dimensione, colta, irriverente e autoironica.

 

Manuel Agnelli Nicola Dalmo 2019 003

L’impressione che ho avuto è che Agnelli abbia voluto rompere con un certo passato che forse gli stava stretto da un po’. Quello dell’ambiente “indie” che spesso, in Italia, fa rima con snob e autoreferenzialità.

Probabilmente stanco di quel clima asfittico, pieno di limiti, di barricate e di regole, Agnelli durante questa serata ha rivendicato più volte il desiderio e il diritto di fare quello che vuole, di essersi guadagnato la propria libertà.

Anche quella di non prendersi, finalmente, troppo sul serio.

 

Testo: Daniela Fabbri

Foto: Nicola Dalmo

Mahmood @ Venticinque Aprile

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• Mahmood •

+

Dimartino | Radiodervish feat. Massimo Zamboni

Piazza Garibaldi (Parma) // 25 Aprile 2019

 

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La pioggia non ha fermato l’entusiasmo dei festeggiamenti per il 25 aprile a Parma. In attesa di diventare la capitale della cultura del 2020, la città ha ospitato il concerto-evento organizzato dal Comune in collaborazione con il Barezzi Festival.

L’occasione perfetta per elevare la musica a bandiera di libertà, affinché l’arte sia l’unica arma di lotta per il riconoscimento e il rispetto dei diritti.

Sul palco di Piazza Garibaldi si sono susseguiti importanti nomi del panorama musicale italiano.

Dimartino, sulla scia del rilevante successo del nuovo album Afrodite, ha introdotto il brano Niente da dichiarare con una preghiera: “Che i confini possano essere solo montagne e non dogane”. 

L’applauso di tutto il pubblico ha poi accolto Mahmood, che ha scelto Parma come data zero del tour Gioventù bruciata. Il neo vincitore del Festival di Sanremo, visibilmente emozionato, ha ringraziato la piazza gremita: “Che bello vedervi qui, così tanti! Ci esibiamo per la prima volta in palchi così grandi… Siamo abituati a contesti molto più piccoli… quindi grazie!”

A chiudere il set, l’atteso ritorno dei Radiodervish che, con Massimo Zamboni come special guest alla chitarra, hanno presentato in anteprima nazionale l’inedito Giorni senza memoria.

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Grazie a SIDDARTA PRESS

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Testo: Laura Faccenda
Foto: Luca OrtolaniMirko Fava

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Dimartino

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Radiodervish feat. Massimo Zamboni

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Concerto del Primo Maggio 2019, a promuoverlo e raccontarlo ci pensa un videogioco

L’iniziativa, non senza una briciolo di sincera ingenuità ed un pizzico di genuina illusione, tenta di enfatizzare ed individuare un punto di congiunzione tra vecchio e nuovo, tra i nostalgici irriducibili della prima ora ed il giovane pubblico irrimediabilmente ed incolpevolmente slegato alle tradizioni e, soprattutto, agli ideali che costituirono e costituiscono le fondamenta, le basi, il carburante che ancora oggi motiva organizzatori ed artisti a rendere realtà un evento complesso e mastodontico come lo è il Concerto del Primo Maggio.

L’edizione di quest’anno del fiero e famoso evento nostrano, come avrete intuito dal titolo e dalla breve introduzione dell’articolo, si fregia dell’originale ed inaspettata promozione di un piccolo videogioco, Primo Maggio: The Game, gratuitamente fruibile direttamente via browser.

Si tratta, in soldoni, di una breve visual novel interattiva, un’avventura grafica all’acqua di rose per dirla in altri termini, che verte sullo scontro generazionale tra due personaggi che confrontano le diverse, e per molti versi opposte, visioni del mondo che posseggono, utilizzando come campo di contesa proprio il Concertone.

Utilizzando le frecce direzionali della tastiera, potrete muovere il protagonista del gioco all’interno di contenute ambientazioni con grafica 16-bit, giusto per dare quel tocco di irrinunciabile nostalgia al tutto, a caccia di oggetti che daranno il via al successivo dialogo, effettivi protagonisti dell’azione, se così si può dire, nonché fulcro attraverso il quale la produzione si prende la briga non solo di affrontare diverse tematiche, tutte ovviamente votate a sottolineare ed esplicitare i valori fondanti dell’evento, ma anche di introdurre progressivamente cantanti e band che si alterneranno effettivamente sul palco nell’ormai prossima edizione del concerto.

Primo Maggio: The Game, difatti, è un videogioco diviso in episodi, destinato ad aggiornarsi con una certa regolarità, con tanto di concorso a premi annesso. Scoprendo alcuni segreti celati tra i dialoghi del gioco, e comunicandoli via mail, come specificato sullo stesso sito ufficiale, gli utenti avranno la possibilità di vincere pass per il backstage e diversi gadget.

Primo Maggio: The Game non vuole certamente imporsi come un’avventura grafica travolgente, ma riesce brillantemente a mettere a confronto tradizione e trap, senza rinunciare, al contempo, a promuovere il Concertone in modo innovativo, intelligente, piacevole.

 

Lorenzo Kobe Fazio

MARLENE KUNTZ + SKIN • “BELLA CIAO”

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‘BELLA CIAO’

un’inedita versione di un canto popolare, un inno di Libertà e Resistenza umana, sociale e civile

una canzone interpretata da:

MARLENE KUNTZ + SKIN

su 45 giri vinile colorato e numerato in edizione limitata

In doppia versione:
lato A – Marlene Kuntz + Skin lato B – Marlene Kuntz

label: ALA BIANCA distribuzione fisica: WARNER music / digitale: FUGA

Data di uscita: vinile 45 giri > 10 maggio 2019 / digitale > 25 aprile 2019

 

Un video integralmente girato a Riace

 

 

Pochi artisti oggi in Italia possono scegliere di interpretare un canto così conosciuto e profondamente significativo come Bella Ciao e riuscire nell’intento di creare un’opera allo stesso tempo nuova e intensa come hanno fatto i Marlene Kuntz. La loro versione è infatti una canzone che conserva tutta la forza e l’urgenza dell’originale, così come è cantata e amata in tutto il mondo, ma allo stesso tempo si rivela un brano del tutto attuale e profondamente radicato nel tempo presente, sia dal punto di vista musicale che artistico, sociale e culturale. Ne è prova la scelta di Riace come luogo reale e ideale dove girare il video che accompagna questa nuova interpretazione.

Che i Marlene Kuntz abbiano voluto lanciare un segno forte e preciso, così legato ai tempi che viviamo, è evidente. Un segnale all’insegna di senso etico e civico. Ma la loro è anche e soprattutto un’operazione artistica, destinata a rimanere nel tempo.

In trent’anni di carriera la band capitanata da Cristiano Godano ha già dato ampiamente prova di saper arrivare in modo forte e memorabile al pubblico, spesso proprio grazie a singoli che sono penetrati sotto la pelle di una platea che va ben al di là di quella dei fan di più lunga data.

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Lungo il cammino che li ha portati alla pubblicazione di ‘Bella Ciao’, i Marlene Kuntz ritrovano anche la straordinaria collaborazione con Skin. La partecipazione convinta dell’artista britannica al progetto, la sua interpretazione e la sua voce accanto a quella di Godano aggiungono al brano una profondità, un’atmosfera e un impatto ancora più forte, coinvolgente, unico e memorabile.

«Bella Ciao è un canto per la libertà, il canto di tutti. Noi invitiamo le persone ad abbracciarsi, non a dividersi, e la libertà è il presupposto principale per avere lo stato d’animo positivo e buono per farlo. Non si tratta di buonismo, e nemmeno di avere soluzioni in tasca a problemi enormi destinati a diventare sempre più complessi, ma di avere la mente predisposta a sentimenti di pace, a comprendere gli altri, a cercare soluzioni umane per tutti, a mantenere la calma.

“Bella ciao” dunque è l’emblema della resistenza nei confronti di una deriva che consideriamo portatrice di tensioni. E, dal nostro punto di vista, di valori ben poco poetici.
E siccome la poesia piace a tutti, facciamo in modo di essere coerenti con questo slancio poetico insito nell’essere umano.

I Marlene Kuntz hanno sempre voluto contribuire alla diffusione del fare e del vivere poetici, e chi ci segue lo considera un nostro valore riconosciuto e stimabile. Per noi è dunque particolarmente importante sottolineare la radiosa bellezza di un mondo che sia vario, armonioso e melodico, perché varietà, armonia e melodia, sono requisiti essenziali della poesia.

I muri reali o ideologici che vogliono dividerlo di questi tempi paiono voler distruggere queste premesse: pienezza e varietà di volti e parole che nella loro abbondanza creano, ciascuno nel loro ambito, un risultato magnifico e poetico.
Per noi il mondo è magnifico perché è vario, non perché è chiuso in sé stesso e diviso in spicchi non comunicanti fra loro.

Se si guarda il video che ne abbiamo fatto, e che con forza abbiamo voluto girare proprio a Riace, si può arrivare a una conclusione: la successione di volti che esso propone è varia, e rende il tutto armonioso, concorde, melodioso. E’ un mondo ideale, laddove quello reale è più complesso, e lo sappiamo bene, ma vale quanto detto poco sopra: avere lo stato d’animo positivo, mantenendo la calma. Sono volti che raccontano dell’umanità nella sua splendida varietà, fatta di colori diversi, di emozioni diverse, di storie diverse, di sensazioni, odori, sapori, sentimenti, passioni, ognuna preziosa e fondamentale. Questa è poesia. Non può salvare il mondo da sola, ma può contribuire a farlo. Lo pensiamo da sempre. Nel nostro piccolo, devolveremo il ricavato a Riace, che costituisce tutt’ora un modello funzionante di coesistenza fra le genti.».

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MARLENE KUNTZ stanno ora organizzando un importante tour in location prestigiose per celebrare i 30 anni di attività:

MARLENE KUNTZ – TOUR del Trentennale

11.07 Parma, Parma Music Park
12.07 Roma, Teatro Romano di Ostia Antica
14.07 Firenze, Cavea del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino 16.07 Nichelino (To), Stupinigi Sonic Park
18.07 Milano, Carroponte
19.07 Udine, Castello
20.07 Villafranca (Vr), Castello Scaligero
22.07 Bologna, Botanique
24.07 Pescara, Teatro Gabriele d’Annunzio
26.07 Ragusa, Castello di Donna Fugata
18.8 Grottaglie (Ta), Cinzella Festival

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MARLENE KUNTZ

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twitter.com/marlenekuntz

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[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

Dimartino: cantami, o Afrodite.

Dimartino: cantami, o Afrodite.

Il suo esordio da solista risale a quasi dieci anni fa. Il suo atteggiamento non è mai cambiato. Antonio Di Martino è l’artista che attinge dall’autenticità e dallo sguardo attento al mondo che lo circonda. È il cantautore sincero che approfondisce i temi legati alla fragilità umana, ai suoi contrasti e alla possibilità di conciliarli, nei contorni di personaggi estremamente reali. Un’intervista, un viaggio, nei luoghi e nel tempo. Dalle vie di Palermo, al Mar Mediterraneo. Dal tempio di Afrodite alle colonne dell’Olimpo che risuona di melodie dal respiro tanto anni Settanta quanto energico e internazionale.

A due anni dall’ultimo disco, il 25 gennaio è uscito Afrodite. Come è nato l’album soprattutto in riferimento alla dea della bellezza e perché è così diverso da tutti gli altri?

Nei due anni in cui sono stato in tour per il disco precedente ho raccolto molte idee e ne ho sviluppate altre che avevo già per alcune canzoni. Altre sono nate all’improvviso. Riconduco tutto a un’urgenza personale probabilmente. Degli spunti derivano anche da viaggi e dall’avvicinamento alla cultura messicana. I miei dischi nascono così, da stimoli che mi creo e da altri che arrivano fortuitamente. Non dietro a contratti discografici ma per urgenza espressiva, per volontà di raccontare. La diversità, invece, riguarda la produzione. Volevo che pezzi e testi molto intimi fossero prodotti in modo più estroverso, più fosforescente. Poi ho scelto il titolo Afrodite perché, innanzitutto, mi piaceva la parola, il rimando a qualcosa di antico ma allo stesso tempo molto legato al contemporaneo: il collegamento con la dea della bellezza in un mondo dove la bellezza brucia, non viene tutelata o curata. O peggio, viene data per scontata. C’è anche in rimando ad un fatto personale perché la notte in cui è nata mia figlia, dalla finestra dell’ospedale di Trapani si scorgeva il tempio di Afrodite, sul monte Erice. E l’ho visto illuminarsi, in una specie di visione.

Nei testi vengono descritti personaggi, storie, esperienze di vita quotidiana. Come si inserisce in questo contesto il personaggio, il musicista e l’uomo Antonio Di Martino?

Molte volte, quando scrivo, pur utilizzando la terza persona in realtà sto parlando di me. Tutte le canzoni che scrivo mi riguardano…sarebbe difficile il contrario. Altre volte inserisco nei testi momenti e immagini che ho vissuto e che ho visto per strada. La scena del bingo su La luna e il bingo l’ho vista davvero a Palermo. Oppure un pezzo come Daniela balla la samba parla di un frame quasi cinematografico a cui ho assistito: questa ragazza che ballava sul tetto di una macchina con un ritmo che ricordava quello della samba. Dentro quest’ultimo brano, però, penso di esserci anche io in qualche modo. È legato a un senso di sensualità a cui volevo aspirare. In quei personaggi mi ci rivedo molto… Ci sono forse talmente affezionato da immedesimarmi.

Afrodite è anche la dea della navigazione. Tutto l’album si ascolta come un’onda di emozioni contrastanti. Esiste un modo per conciliare la “ricerca dell’amore nel dramma di una vita normale”?

Eh…bella domanda! C’è sicuramente un modo per conciliare la ricerca dell’amore nel dramma di una vita normale. Io sono ottimista in questo. Il problema sta nel fatto che l’uomo contemporaneo non si accontenta più di una sola forma di amore. È come se avesse continuamente desiderio di cambiare, di innamorarsi di nuovo, probabilmente per una insoddisfazione insita nell’essere umano di oggi. Avere mille possibilità non lascia la libertà di apprezzare davvero… e si sfocia sempre in un sentimento vicino alla sofferenza.

Palermo e, in un’ottica più ampia, la Sicilia rappresentano due sfondi costanti della tua musica. Qual è il volto attuale della tua terra?

Palermo è una città molto cambiata, soprattutto negli ultimi cinque o sei anni. Il volto e l’atteggiamento dei palermitani sono mutati in meglio. C’è sicuramente una voglia di riscatto. Le stragi degli anni Novanta hanno provocato talmente tanto dolore fra i miei concittadini che ci son voluti quasi vent’anni per elaborare il lutto. Adesso ci si sta rialzando. Anche la parola antimafia ha assunto altri significati. All’inizio, era un concetto a cui ci si avvicinava per dovere. Oggi, i ragazzi nascono già con una coscienza antimafia, non ci sono dovuti arrivare. Hanno già una visione con gli anticorpi del loro ruolo all’interno della città. Tengo a sottolineare, poi, che Palermo è stata una delle prime città ad aprire i porti. È una prerogativa che risiede nella sua natura, da quando è stata fondata. L’idea del porto aperto rimanda all’antico nome, Panormus, città tutto porto. Un luogo in cui approdavano e convivevano greci, turchi, spagnoli. La città che sogno in questo momento è una Palermo tutto porto.

Mi ha colpito il tema del sogno. Canti di “sogni perduti”, di “sogni da adolescenti”. Che cosa può sognare un musicista all’interno del panorama italiano oggi?

Oggi, un musicista deve sperare di non dover mai scendere a compromessi per andare avanti. Deve fare il suo percorso attraverso la sua arte. Io sono molto legato a quegli artisti con una forte identità e con una grande capacità di mantenerla. Un artista dovrebbe aspirare al racconto del mondo attraverso i propri occhi e, nello stesso tempo, non tentare di cambiarne la visione per attirare più pubblico. Dovrebbe cercare invece di attirare il pubblico alla propria visione.

Per quanto riguarda la dimensione del palco… Come è stato portare Afrodite live?

Questo tour è stato una somma di tutti i dischi precedenti. Oltre ad Afrodite, ho scelto altre dodici canzoni da tutti e quattro gli album. Essendo trascorsi quasi dieci anni dall’uscita del primo lavoro in studio, ho voluto fare una specie di riassunto. Ho guardato queste fotografie in musica e mi sono chiesto se sono invecchiate, come sono invecchiate, se ha ancora senso cantare una canzone del 2010 o se quella canzone non parla più ai ragazzi. È stato bello sceglierle perché, selezionandole, mi sono accorto anche di come sia cambiato il mio modo di vedere il mondo… o di come non sia mai cambiato. Ci sono delle canzoni di dieci anni fa che esprimono gli stessi concetti che vorrei esprimere in questo momento. Da un lato, questa caratteristica mi spaventa perché ho sempre considerato necessario mettere in discussione le proprie idee. Dall’altro, però, mi rincuora perché mi sento una persona che ha portato avanti la propria coerenza.

L’ultima domanda è più una curiosità. Se potessi scegliere un personaggio della mitologia greca, sia divinità che non, chi vorresti essere?

I personaggi che mi vengono in mente sono tutti tragici (ride). Sono tutti veramente tragici. Così, senza pensarci, come scelta inconscia, ti dico Achille.

 

Intervista a cura di Laura Faccenda

Grazie a SIDDARTA 

Elisa @ Teatro Valli

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• Elisa •

 

Teatro Valli (Reggio Emilia) // 23 Aprile 2019

 

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Foto: Mirko Fava

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