C’è una buona e una cattiva notizia sul ritorno dei Cage The Elephant. La buona notizia è cheSocial Cuesè un bel disco. La seconda è che per qualche giorno, da quanto è orecchiabile, sarà impossibile ascoltare altro.
L’ultimo e quinto album della band del Kentucky è uscito il 19 Aprile 2019 per RCA Records. Ad averci messo le mani sopra, questa volta, il Re Mida della produzione: John Hill, già celebre per aver lavorato con Florence + The Machine e Santigold.
I Cage the Elephant hanno alle spalle una carriera decennale, ma sono diventati grandi senza mai farsi notare troppo. Nella loro produzione non esiste qualcosa di assolutamente eccezionale in termini di scrittura o audacia sonora, ma la loro formula è rimasta comunque fortemente caratteristica e piacevole.
Dal 2008 ad oggi hanno attraversato un’enormità di generi: dal blues al garage, passando per il funky con una punta di elettronica. Nelle tredici tracce che compongono Social Cuesla metamorfosi sembra finalmente essersi compiuta: dal rock più sporco e viscerale degli esordi ad un suono più elegante e sofisticato, per un disco di certo meno rumoroso dei precedenti.
Broken Boyè l’urlo iniziale dell’album. Non poteva esserci apertura migliore. Un pezzo abrasivo, con una produzione lo-fi, che piacerà ai fan della prima ora. Tutto il disco sembra convergere sul tema dell’alto prezzo del successo, che spesso viene pagato dagli artisti in termini di ansia, esaurimento nervoso, senso di inadeguatezza e psicopatie varie.
Tutto questo unito a una buona dose di automedicazione messa in pratica da Matthew Shutlz, in seguito al recente divorzio dalla moglie. “Tell me why I’m forced to live in this skin, I’m an alien”, canta Matt. E preparatevi: è solo l’inizio.
Infatti, il testo della canzone successiva che porta il nome dell’album Social Cues recita “sarò nel retro, dimmi quando è finita”, con Shultz che canta “non so se posso interpretare questa parte molto più a lungo”.
Black Madonna, insieme a ReadytoLetGo, è tra i pezzi più pop. Eccessivamente elaborata, ma allo stesso tempo più apatica rispetto al resto. Lo stesso vale per Love’s the Only Way e What I’m Becoming, che sembrano pezzi già sentiti altre volte dai Cage the Elephant. Quello che si avverte è un fastidioso senso di familiarità che contribuisce solo a renderli meno brillanti rispetto al resto dell’album.
Uno dei pezzi migliori è Night Running, con Beck. La canzone ha una vena reggae, sia nel suo backbeat che nella produzione, oscura e con effetti sonori simili a quelli della dub. Il suono è pieno e arioso, e anche il cantautorato richiama alla mente quello più tradizionale dei Cage the Elephant.
Skin and Bonesè seducente e sembra perfetta per diventare un singolo radio.
La vera bomba a mano dell’album però è House of Glass, che al primo ascolto potrebbe essere un pezzo cantato da Tricky. Qui la progressione della chitarra di Brad Shultz, fratello del cantante, sembra abbracciare alla perfezione i testi di Matt sull’isolamento e la mutilazione, e sostenere i suoi continui tentativi di convincersi dell’esistenza dell’amore.
L’album termina con Goodbye, una delle canzoni più tristi e spettrali del disco. “Non piangerò, il Signore sa quanto ci abbiamo provato”, si tratta di una ballata accompagnata da un pianoforte echeggiante, in continuo crescendo.
“Tante cose che voglio dirti, così tante notti insonni ho pregato per te” recita il testo, ed è in questo preciso momento che i Cage the Elephant svelano il loro grande potenziale nel toccare le corde più fragili e commosse della nostra anima.
In Social Cues il suono è molto stratificato, complesso, ma compatto. Tutto ben amalgamato con la voce di Matthew Shultz. I testi sono più oscuri rispetto al passato, complice anche il recente divorzio del cantante, ma nel complesso i Cage the Elephant rimangono gli stessi ragazzoni spavaldi di sempre.
Non siamo di fronte ad un lavoro rivoluzionario o che passerà alla storia, ma allo stesso tempo, di certo, Social Cues non deluderà i fan. Questo album è da intendersi più come colorare fuori dalle righe, anziché inventarsi un disegno nuovo, ma bisogna ammettere che i Cage the Elephant hanno dimostrato di essere, una volta in più, una band tra le più ecclettiche e divertenti in circolazione.
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In un pomeriggio di inizio aprile, mentre il sole brilla su Piacenza e un bel venticello rinfresca l’aria, ho appuntamento con Simone Scrivani.
Una vita all’insegna della musica: dai karaoke ai musical fino al cantautorato. La storia di un ragazzo che vuole raccontare delle storie, facendoci riflettere ma con ironia.
Classe 1990 è un piacentino DOC estremamente legato alla sua città, ai suoi luoghi e ai suoi concittadini.
Ed è proprio da qui, da Piacenza, dai suoi vicoli e dalle sue valli che prende l’ispirazione per le sue canzoni (per chi non lo sapesse Hemingway ha definito la Val Trebbia la più bella del mondo) .
Da cantante di karaoke a cantautore. Raccontaci un po’ la storia che ti ha portato su questa strada.
E’ stata la voglia di lasciare qualcosa di mio alle persone. Cioè è bello anche fare dei karaoke, bisogna pur iniziare da qualche parte.
Prima si inizia con i lavori manuali poi, però, bisogna andare oltre.
Mi piace vedere la costruzione del personaggio musicale come un artigiano della musica. Noi siamo artigiani della musica: ci creiamo, partendo dalle linee base.
Era bello avere il riscontro delle persone che ci ascoltavano e si divertivano. Alla fine non era solo un karaoke.
Ad un certo punto però, facendo musical, mi sono avvicinato di più al mondo dell’arte musicale. Ho incontrato un gruppo di persone molto bello e positivo che mi ha aiutato molto a credere in me.
Avevo già in mente da un po’ di tempo di fare qualcosa di bello con la musica e allora ho pensato di mettermi in gioco. E lo ho fatto con una mia amica, Elisa Dal Corso.
Mi sono messo alla prova e ho scritto una canzone che ha avuto un riscontro abbastanza positivo; è stato un inizio.
Successivamente ne ho scritta un altra Buon Natale per davvero, però che non c’entra nulla con il Natale. E’ una vicenda che mi sta molto a cuore: è dedicata ad una mia amica che ha avuto una storia d’amore un po’ brutta e quindi ho cantato di lei.
E alla fine sono uscito con Supereroi, perché ho pensato fosse ora di mettermi nel sociale. Perché è questo che fa questa canzone: traccia una critica ironica della società attuale.
Supereroi, è il tuo terzo singolo, e si discosta musicalmente dai tuoi lavori precedenti: come mai questo cambio di rotta?
Mi sono dato un nuovo sound perché lo trovo più mio. Mi sono fatto molto influenzare dai cantautori del passato; penso che da loro abbiamo solo da imparare.
Ma in realtà la musica come si sta sviluppando ora, con le sonorità indie e pop è molto bella, da la carica.
E’ una musica non “melensa” alla Venditti o alla Baglioni, che sono i miei idoli, ma riesce comunque a trasmettere moltissimo.
La musica di oggi ha dei messaggi bellissimi nonostante i suoni viaggino e quindi ho deciso di buttarmi su questo stile perché mi da più allegria, riuscendo comunque a trasmettere qualcosa attraverso le parole.
Di cosa parla supereroi? E chi è questo Paolo, che citi più volte all’interno della canzone?
Tutti mi chiedono chi è Paolo…
Supereroi è una visione ironica della nostra società, una società in cui viviamo nel più totale analfabetismo sentimentale.
Siamo in totale crisi di emozioni e di sentimenti e questo va a ripercuotersi sulle scelte politiche e sulle critiche che muovono le persone, spesso non avendo le competenze per farle.
Questi giudizi di solito non hanno una valenza costruttiva. Io sono molto critico dimio ma penso che ci sia modo e modo per muovere una critica. Se è costruttiva è una cosa positiva e bella; ma se è fatta per screditare, per insultare, è una forma di repressione.
Io credo che tutti abbiamo qualche repressione nella nostra vita, è una cosa umana e normale, ma non è positiva. Dobbiamo accorgercene e lavorarci su. Quando questo non viene fatto si tramuta in odio verso qualunque cosa proprio perché non c’è un contatto tra i propri sentimenti e quello che accade fuori. Deve essere ricreato questo ponte.
E’ di questo che parlo in Supereroi, criticando in modo ironico, e spero costruttivo, queste persone. Cerco di dare una forma a questo mio ragionamento, e questo sarà anche il mio cd.
E Paolo?
Paolo è il mio migliore amico. Quello con cui sono sempre in giro a fare i bagordi. Ho scritto questa canzone pensandomi con lui in un bar.
Ho visto la società di oggi come un grande bar dove ognuno ha il diritto di parlare. E alla fine mi sono visto con
Paolo a brindare insieme a tutte queste persone, alzando il calice “alla vostra”.
In che modo, e in che misura, la tua vita, le tue esperienze e la tua città entrano nei testi che scrivi?
Sempre. Io e Paolo eravamo in un bar di Piacenza, il bar che frequentavamo di solito, quando ho scritto questa canzone. Io mi sono visto li con lui. E’ ovvio che questa cosa ci sia in tutta Italia e in tutto il mondo ma Io mi sono visto qua e mi sono immaginato qua.
Quando scrivo mi rinchiudo sempre al Caffè del Tarocco (un bar di Piacenza). E’ in una posizione, in uno scorcio, da cui vedi il centro eppure sei lontano. E’ appartato e c’è un pezzo di cielo, in alto, che si vede sempre…ed è bellissimo.
Oppure scrivo nella Val Trebbia. Ci sarà una canzone, del cd, che parla di una ragazza ed è ambientata proprio in Val Trebbia.
Per me la mia città è importantissima, non solo come ispirazione. Poi mi piace andare in giro eh? Però quando torno a casa sono contento.
Sei la prima persona che sento parlare così di Piacenza…
Credo che sia tutto nel riconoscere un posto come casa. Non solo per il luogo in se ma anche per tutte le cose e le persone che ci sono legate.
Ho visto, sulla tua pagina Facebook, che hai creato una gallery dedicata ad una serie di persone con #supereroiprimaopoi. Com’è nata quest’idea?
Dietro a grandi progetti ci sono grandi squadre. Ho diverse persone che mi aiutano sia per la parte grafica che per quella social.
Sono due mie grandissime amiche, anzi una è mia cugina ma, prima di tutto è la mia migliore amica. Con loro ci troviamo regolarmente a discutere e parlare di come muoverci e promuovere le mie iniziative.
Supereroi è una canzone bella, critica ed ironica verso la società. Però volevamo anche lanciare un messaggio costruttivo e quindi ho cominciato a raccogliere testimonianze e storie di persone che sono davvero supereroi per la nostra città.
Qual è la mia idea di supereroe? E’ chi ha il coraggio di essere normale in una società che impone il contrario.
Quello che racconto è di persone così normali che ci fanno pensare di avere dei superpoteri perché hanno il coraggio di trasmettere le loro emozioni, in quello che fanno, senza avere paura di farlo, senza temere il giudizio degli altri.
E’ nato tutto dalla volontà di valorizzare queste persone per il bene che fanno a tutti.
Cosa rappresenta la musica per te?
La musica in qualche parola…è una domanda molto vasta.
Potrei dirti un banalissimo è la mia vita…ma è vero. E’ una passione che mi tiene vivo.
Il mio sogno sarebbe di vivere di questo ma ora come ora non è così. La musica mi tiene vivo nella monotonia di tutti i giorni, e non è poco.
E’ il mio gancio in mezzo al cielo, come direbbe Baglioni, che è il mio idolo. Sai che è una domanda che mi ha messo in difficoltà? E’ la mia vita, stop.
Come definiresti il tuo stile musicale?
Pop vecchio stile quando la musica non era ancora in 4 K, io dico sempre di me.
Sono sonorità vecchie, ho ripescato un po’ i sint degli anni 80 e li ho rimessi in chiave moderna con delle basi programmate sotto di percussioni. Il vintage è bello però se modernizzato…quindi faccio vintage.
Il 9 aprile uscirà il video di Supereroi. Dicci qualcosa su quello che vedremo, com’è stato girarlo?
E’ stata una delle esperienze che mi ha emozionato di più nella mia vita, per il tema trattato.
E’ un video che ha riprese in due punti. Uno è dentro una sala, con la band, ed è stato girato nella sala prove in cui sto incidendo il disco e da cui è partito tutto.
Qui ho trovato una famiglia, la mia terza famiglia. La seconda sono i Viaggiattori e la prima è la mia: è bello avere diverse famiglie.
Poi ho fatto un evento con dei bambini di una scuola materna. Mi sono presentato da loro vestito come un supereroe, e li ho fatti disegnare.
Gli ho chiesto che cosa farebbero se fossero dei supereroi, che cosa farebbero per Piacenza e quale sarebbe il loro potere per salvare la città.
Era anche per fare un po’ di pressione sulla loro coscienza, che è ancora pulita. Volevo fargli capire che i supereroi fanno del bene a livello base.
E alla fine erano tutti contentissimi di essere anche loro dei supereroi. Ho passato la giornata con loro: li ho fatti volare, li ho fatti disegnare, si sono divertiti tantissimo.
E’ stato bello, mi hanno riempito il cuore.
In questo frangente c’era anche un video maker, Michele Groppi, che ha colto i momenti più belli della giornata. Non era li per fare il video, volevamo creare un documentario di questo evento…alla fine però è diventato parte del video.
Ha molti messaggi secondo me, ma vanno colti.
In supereroi dici Ma l’amore non è un post-it, non è rosa rossa, tonica e gin. Che cos’è allora l’amore?
Prendo in prestito la frase di qualcuno più famoso di me che ha detto questa cosa Tutto quello che ci serve è amore. All you need is love, Beatles.
E’ vero, senza l’amore non c’è niente. Non c’è la passione, non c’è famiglia e non c’è una storia.
Ho iniziato il mio progetto partendo dall’idea che c’è più amore. Ma amore non è solo quello che può esserci tra me e una ragazza, o tra un uomo e un altro uomo, o tra una donna e un’altra donna.
L’amore è quello per me stesso, per quello che faccio, per la mia famiglia e per i mie amici. Ci vuole quello e senza quello non c’è nient’altro. L’amore è importantissimo.
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+ Slimboy
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“Ma con chiunque sappia divertirsi mi salverò Che viva la vita senza troppo arricchirsi, mi salverò Che sappia amare, che conosca Dio come le sue tasche”
Rino Gaetano
Caparezza disse che è sempre stato contrario ai talent show perché la musica non è una gara. Questo pensiero mi ha fin da subito affascinato, un po’ come un coro da stadio riuscito dopo un gol al 90esimo minuto. Rimasi di stucco appena lessi quelle sue parole, cosi semplici se ci pensiamo, ma cosi terribilmente rivoluzionarie in rapporto allo sterile dominio televisivo che ha gradualmente e capillarmente condizionato il palinsesto musicale.
Qualcuno potrebbe dire “ è facile parlare male del main stream quando non ci sei dentro”, giustissimo.
Però, e sottolineo però, bisogna capire la vera logica di un artista, di una band o di un cantautore. Il tipo di contributo che può dare una forma d’arte quando alla base è semplice gioia di creare, andando oltre ad ogni concetto d’ imposizione, oltre ogni numero di graduatoria e oltre a ogni conto in banca.
In sintesi è libertà allo stato puro, impermeabile da tossine, eretta su di un concetto che sosteneva fino a tempi non sospetti le possibilità e le speranze di giovani e meno giovani sognatori di professione, in balia di un settore che ancora consentiva colpi di scena .
Sembra assurdo come la ricerca della libertà espressiva sia deragliata fuori concorso, un presupposto anacronistico che personalmente destabilizza e preoccupa. Nessuno negli anni ’70 avrebbe pensato che in Italia la figura del cantautore avrebbe raggiunto tale resa, un po’ come il tracollo di Blockbuster per fare un esempio pratico, in fondo chi l’avrebbe mai detto?
Si modifica il corso degli eventi, si riduce al minimo lo sforzo per avere accesso alle possibilità, la gavetta è percepita come un gesto di autolesionismo, il paladino armato di chitarra è stretto tra gli slogan e la pochezza di un movimento denominato “Indipendente” o “Indie”, come preferite.
Vera macchina fotocopiatrice che vomita cloni più o meno bellocci da spremere per quel poco di tempo che serve ad alimentare il motore di un mercato sempre più lontano dalla bellezza della musica per quella che è, per quella che ci ha fatto innamorare e credere di poter cambiare le cose, (per lo meno migliorarle).
Da “pischello” i miti del punk rock erano una sorta di miraggio, idoli che spesso portavano alla frustrazione. La California dentro e fuori , il riflettore, la festa perfetta marchiata post America Pie. Bello, figo e allettante. Impazzivo sognando e sognavo impazzendo.
Si suonava, ci si provava e si cadeva spesso fino al punto che però la musica passava in secondo piano. Quando l’apparire diventò più importante dell’essere, inevitabilmente il giochino si ruppe senza possibilità di rimettere i cocci al loro posto.
Un chiaro segnale, molto tenue, ma palese e lungimirante su ciò il futuro avrebbe riservato, come possiamo toccare oggi con mano e orecchi.
Decisi di mollare la presa, lasciando la penna e la chitarra in un angolo per tre anni. Fino al primo viaggio a Dublino, dove l’assenza di pretese e castelli troppo grandi, mescolati alla scoperta di una cultura musicale e umana molto simile a quella del popolo Romagnolo mi hanno spinto a riprendere lo smalto abbandonato.
Reinventarsi con stimolo, sulle macerie di una passione che ha tracciato una cicatrice profonda e dolorosa. Mescolare le carte del passato e dell’imminente scoperta è stata una sfida troppo allettante. Gli astri poi si sono allineati, i compagni di viaggio arrivati come fossero li pronti a rispondere alle armi, inneschi e propositi incastrati come una partita perfetta a Tetris e condivisi dalla gente che gradualmente, aumentava ad ogni concerto.
E dopo appena tre anni di lavoro ho avuto la soddisfazione di poter suonare in molte occasioni, in Italia e all’estero al fianco di artisti che in giovinezza mi avevano condizionato e riempito di inavvicinabili aspettative solo perché io prendevo quello che non andava osannato, la presunzione.
Situazioni che sono arrivate inderogabilmente dal momento in cui l’assillo di arrivare e di dover eccellere non esisteva più. Aver una mentalità flessibile, che si accontenta ma che non si abitua all’ordinario, combattere la noia e consacrare i propri principi, i propri luoghi d’appartenenza, rapportare alla musica uno stile di pensiero e non ragionare solamente sul pentagramma.
Contornarsi di persone che abbiano la veduta semplice, serena e determinata, che sappia ridere e piangere quando è necessario, che ami la natura e per natura ami la vita.
C’è chi i castelli deve costruirseli per arrivare al cielo e chi in un castello vero e proprio ha la fortuna di creare e personalizzare tutto il tempo utile.
La predisposizione di chi ha scritto le pagine felici della storia non sono da ricercare nelle aspettative o nella scaltrezza di saper cogliere il momento giusto per comporre la melodia giusta, tra tenacia e paura lo scalino è breve. L’assillo di convincere la massa senza prima convincere se stessi è un rischio grosso che porta a conclusioni sterili o comunque a un prodotto fasullo.
Apprezzo chi lo fa, l’ha fatto e lo farà per la causa unica, la ricerca spasmodica di qualcosa di puro e personale che sia degno di essere ricordato e che possa rendere un po più semplice la vita di chi non per scelta è costretto a vivere nelle difficoltà.
Scrivo queste righe da persona libera e suono la mia musica da persona libera, per questo sono sereno di dire sempre quel cazzo che mi pare.
Il mondo non lo cambieremo ma per lo meno proviamo a colorarlo, perché in ogni caso le matite funzionano anche con la punta sbeccata.
Non aspettarsi niente, ma essere consapevole di poter dimostrare tutto.
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Ma chi è P0P??
P0P è un personaggio molto misterioso. L’unica certezza è la Tv a tubo catodico che ha al posto della testa
Si narrano storie pazzesche sul suo conto: dalle notti di fuoco con Myss Keta alle giornate afose di agosto passate a giocare a carte con Willie Peyote.
Su Vez Magazine si disegnerà, si parlerà di musica a modo suo.
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Ecco il terzo episodio scritto da BIRØ, cantautore classe 1990 originario di Varese.
Il suo “Capitolo 1: La Notte”(Vetrodischi) è un progetto che mira a coniugare testi propri della tradizione cantautorale italiana con la musica elettronica per raccontare storie attraverso musica e parole. I suoi brani raccontano eventi legati tra loro e come le pagine di un libro seguono uno sviluppo cronologico.
“Capitolo 1: La Notte”è la storia di un uomo che analizza le sue ossessioni, le sue paure e i suoi vizi, ma anche le proprie gioie e fortune, il tutto grazie ad uno stile narrativo personale. Tutti i brani sono ambientati in un’unica notte e questo spazio temporale diventa il filo conduttore tra una canzone e l’altra: i toni crepuscolari dei testi di BIRØ trovano nella commistione tra cantautorato ed elettronica un compagno perfetto per questo viaggio che dura fino all’alba.
Dopo la pubblicazione di “Incipit”, il suo primo EP ufficiale, BIRØ si è fatto conoscere al grande pubblico con un fortunato tour che ha avuto appuntamenti importanti come il Mi Ami 2017 e il Collisioni Festival riscuotendo ottimi feedback di pubblico e critica, candidandosi di diritto quale nome su cui puntare per il futuro.
Biro ci racconta, attraverso tre racconti brevi e inediti, il significato delle sue canzoni in maniera più ampia.
Il racconto è come un’espansione dell’universo narrativo del personaggio protagonista del disco. Mentre nel disco vengono presi in dettaglio certi punti e aspetti, nel racconto questi dettagli vengono messi sotto la lente d’ingrandimento.
La necessità era quella di raccontare il punto di vista del protagonista a partire soprattutto dalla sua solitudine e dalle sue dipendenze. Il disco sicuramente fa ben capire questi aspetti e penso riesca a riportarne una chiara immagine, mi sembrava che però ci fosse l’esigenza di spiegare anche il perché lui si sia ritrovato, le cause e le circostanze. E magari quali potrebbero essere le sue prospettive.
Buona lettura e correte ad ascoltare il suo album!
3 EPISODIO
Suono il citofono. Chi me l’ha fatto fare? Perché? Potevi evitare di fermati a berne un paio prima di arrivare qui.
Sono già brillo e una volta superata la soglia so già che mi butterò a capofitto sul banchetto degli alcolici.
Potresti anche cercare di fare conversazione anziché presentarti ogni volta in queste condizioni.
Che poi con chi parlo? Non parlo con nessuno in ufficio figuriamoci in una situazione così.
Oltretutto saranno tutti ben vestiti, io sono qui con una bottiglia di vino presa in offerta e una camicia che ho stirato seguendo un tutorial di You Tube. Non è nemmeno la più bella che ho. Lei me ne avrebbe dette di tutti i colori, mi avrebbe detto…
Non ci pensare.
Ma che importa? Non ha più importanza lei cosa avrebbe detto.
Guardo nel mio pacchetto di sigarette e constato che ho tredici sigarette in tutto. Tredici. Ne ho fumate tre solo da casa a qui. Non riuscirò mai a sopravvivere.
E’ come la storia della bicicletta.
Mi viene in mente quella storia di Pierino e della bicicletta.
In sostanza Pierino vuol chiedere in prestito la bicicletta a Gianni, il suo vicino. Mentre imbocca vialetto per andare a casa di Gianni comincia a pensare che gli verranno fatte mille raccomandazioni, che le gomme sono appena state gonfiate, che la catena è nuova e che è un ricordo, e che deve trattala bene, di chiudere bene il lucchetto ecc ecc
Così quando arriva a citofonare il vicino si affaccia e tutto quello che Gianni riesce a dirgli è: “Senti Gianni, vaffanculo te e la bicicletta”. E se ne torna a casa.
Ecco, io mi trovo nella situazione: “Vaffanculo te e la tua festa, io me ne torno a casa”.
Sei proprio uno stronzo.
Si, sono uno stronzo. A parte il fatto che avranno messo dell’impegno per organizzare la festa, in fondo il matrimonio dovrebbe almeno essere uno dei momenti di massima felicità per un uomo e io invece me ne sto qui come se non me ne importasse nulla. Anzi, non me ne importa proprio nulla. Io vado con camicie stropicciate alle feste eleganti.
Ad ogni scalino sento il naturale impulso di voltarmi e andarmene, mi dico che sono ancora in tempo, che possono fare tranquillamente a meno di me ma come è ovvio che sia mi trovo davanti alla porta dell’appartamento. Un coglione tutto agghindato mi apre la porta con un sorriso smagliante.
Vaffanculo te e la tua festa
“Ciao! Come va? Auguri, ho portato una bottiglia di vino non so se…”
“Oh grazie mille, sei stato gentilissimo!” Hai visto? Sei riuscito ad essere gentile, ti sei presentato proprio come un ometto
“Vuoi qualcosa da bere?”
No grazie, sono a posto
“Volentieri!”
Bravo, bevine ancora quattro o cinque che diventerai l’anima della festa.
Certo che non è il mortorio che pensavo, in sottofondo sta suonando qualcosa che sembra musica da ascensore che si mescola al chiacchiericcio degli invitati, ciò nonostante l’atmosfera sembra molto vivace. Noto un gruppo di colleghi del reparto grafico intenti a parlare tra di loro, uno mi guarda e alza la bottiglia di birra come a proporre un brindisi accompagnato da un flaccido sorriso. Poi ributta la testa nella conversazione.
Testa di cazzo.
Non è che puoi pretendere…
E basta che cazzo, stai zitta pure te.
Chiedo e mi informano che per fumare bisogna uscire sul balcone. Raccomandano di usare il posacenere.
Tutto quello che ho sono tredici sigarette, tasto le varie tasche della giacca in cerca dell’accendino.
Passo due dita sul livido ingiallito ma ancora decisamente gonfio.
Solo ora mi rendo conto di che immagine potrebbe essersi formata questa gente di me. Uno che non parla mai con nessuno, che tendenzialmente sta seduto al suo computer scorrendo dati di fatturato e che un bel giorno arriva con un ematoma gigantesco sulla mascella.
Sei stanco di mentire
Sono stanco di mentire, soprattutto a me stesso. Non riesco a dirmi e ad accettare le cose come stanno, nascondo la testa come uno struzzo pensando che poi il resto del mondo non mi veda.
Tutto ciò che vorresti è diventare invisibile.
Senza lasciar tracce, fare come se non fossi mai esistito. Senza aver mai fatto del male.
Improvvisamente diventa un ping pong tra le birre e il balcone, parlo poco e ascolto anche meno, guardo le labbra muoversi e semplicemente annuisco con la testa, secco la bottiglia e con una scusa mi allontano per prenderne un’altra che stappo ed esco sul balcone a fumare.
Ripeti l’azione svariate volte. A poco a poco le parole inciampano l’una sull’altra se provi a parlare, le voci attorno si mescolano e anche l’atmosfera sembra più calda. Non sopporti più questo cazzo di jazz in sottofondo, non sopporti più le chiacchiere, non sopporti il fatto di sentirti come se ti avessero fatto l’elemosina, averti invitato qui quando nessuno ti conosce per davvero, nessuno sa chi sei.
Urto contro qualcuno e vengo riportato alla realtà. Cerco di dire semplicemente “scusami”, ma quello che esce sono sostanzialmente solo le consonanti. Non capisco bene cosa mi dice o cosa dice in generale, sento la sua mano che mi batte sul braccio, il suo sorriso che si apre e gli altri attorno a lui che si mettono a ridere. Le loro risate suonano come se fossero moltiplicate per cento.
Vattene, tu non c’entri con tutto questo.
Io non faccio parte di tutto questo.
Vorresti mutare completamente la stanza.
E poi c’è sempre questo cazzo di jazz di sottofondo.
Prendo la giacca e saluto frettolosamente il padrone di casa.
Non mi sento molto bene, ci vediamo lunedì al lavoro.
Esco dall’appartamento. Barcollo. La discesa in ascensore mi sembra eterna e non appena le porte si aprono mi scaravento fuori dal condominio vomitando nella prima aiuola che trovo. Eccolo.
Finalmente, il silenzio mi piomba addosso e per un attimo, per un brevissimo attimo tutto sembra veramente in equilibrio. Forse non necessariamente nel posto giusto ma in equilibrio.
Dura un qualche secondo prima che io alzi la testa.
Prendo un lungo respiro, chiudo gli occhi e mi rendo conto che l’aria è fredda, è gelida. Tiro fuori l’ultima sigaretta. Butto via il pacchetto.
Mi ritrovo a camminare per strada, da solo, cercando di smaltire la sbornia. Sono stanco, veramente stanco. Trascino le gambe, le strade sono deserte. Passa solo un tram che porta qualcuno chissà dove.
Il cellulare vibra.
E’ un messaggio del mio collega che mi chiede se va tutto bene.
Non è mai lei.
Ma vorrei che lo fosse, anche se per mandarmi affanculo, per dirmi che sono stato uno stronzo o anche solo per chiedermi se sto bene e le direi che si sto bene ma cazzo no, non è vero, io non sto bene per niente.
La verità è che ti aspetti una qualche salvezza che ti venga dal cielo.
Si.
E ti aspetti che accada all’improvviso, che come per magia le cose cambino di punto in bianco
E’ così sbagliato?
E’ anche peggio dell’essere sbagliato. Non è possibile.
Credo di non avere più il controllo, né sui pensieri e nemmeno sulle mie azioni. So quello che faccio ma non riesco a fermarmi.
Vorresti dare la colpa a qualcuno…
…ma non c’è nessuno a cui dare la colpa.
Sento ancora di dover vomitare. Mi appoggio alla ringhiera del Naviglio e guardo giù, verso l’acqua buia e silenziosa. Non ne posso più.
Tiro fuori il cellulare e passo il pollice sullo schermo, buio e silenzioso. Come sempre.
Basta, smettila di aspettare
Ma non voglio
Devi. E’ semplice
Davvero è così semplice? Volevo solo essere felice con quello che avevo, e invece ora sembra che tutto quello che avevo è proprio ciò di cui devo liberarmi. Non ci capisco più niente.
Non c’è nulla da capire. Non pensare.
E in fondo….cos’ho da perdere?
E’ questione di un attimo. La mano si apre e non fai in tempo a battere le palpebre che è già successo. Senti solo il rumore del tuffo nell’acqua e se ci provi puoi vederlo scendere verso il fondo mentre il Naviglio inonda la memoria e cancella tutto. L’unico appiglio che avevi oltre ai tuoi ricordi se ne va. Non tornerà più e non tornerai più indietro. Per un attimo ti rendi veramente conto di quello che hai fatto, di quello che è successo e forse di quello che succederà. E’ come un dolore molto forte unito ad un sollievo altrettanto forte. Ti senti come un bimbo che da domani farà i primi passi trascinando un macigno e col tempo ti renderai conto che non è mai stato reale.
Nella suggestiva cornice di Palazzo Medici Ricciardi di Firenze, dal 30 marzo 2019 al 28 giugno, sarà allestita una mostra, curata da Ono Arte Contemporanea, dedicata ad una delle figure più poliedriche della storia della musica mondiale: David Bowie.
Heroes- Bowie by Sukita racconta attraverso 60 scatti un sodalizio artistico, ma anche una profonda amicizia, che ha legato il camaleontico cantante al fotografo giapponese.
La mostra ci restituisce un ritratto di Bowie nel suo momento di gloria, un viaggio tra le sue trasformazioni, tra i suoi outfit memorabili e le sue stravaganze.
Le foto sono scattate da Masayoshi Sukita, fotografo giapponese, che ha immortalato l’artista nel corso di tutta la sua carriera. Sukita, grazie al rapporto che ha creato con il cantante, ci ha regalato foto più intime e personali di Bowie. Dobbiamo a lui la copertina di Heroes, uno dei brani più conosciuti ed iconici del Duca Bianco.
David Bowie oltre che per le sue doti di musicista è famoso per la sua abilità continua nello stupire e nel rompere gli schemi tradizionali.
Se per molti artisti tracciare un profilo può essere facile, per lui non è così.
Una semplice domanda come chi era David Bowie, in realtà, ci metterebbe in grandissima difficoltà.
Nel corso della sua vita ha creato innumerevoli alter ego che, in un modo o nell’altro, hanno contribuito a creare il suo personaggio. Bowie era un trasformista, un camaleonte.
Nonostante la sua carriera sia iniziata nel 1967 con David Bowie il vero successo arriva nel 1972 con l’album The Rise and Fall Of Ziggy Stardust ad the Spiders from Mars.
Qui nasce il suo primo alter ego: l’alieno androgino dai capelli color del fuoco Ziggy Stardust. Nella creazione del personaggio sono stati forti gli influssi di Arancia Meccanica di Kubrik e del teatro giapponese Kabuki.
Ziggy diventa David e David diventa Ziggy; è difficile capire dove finisca uno ed inizi l’altro. Con la sua creatura Bowie è l’antesignano del glam rock che avrà tanto successo negli anni successivi.
La creazione di questo personaggio è stato un colpo di genio che ha lanciato Bowie sulla strada dell’immortalità. Nell’album sono trattati svariati argomenti, scomodi ma anche estremamente all’avanguardia: politica, droghe ed orientamento sessuale.
La vita dell’alieno però è breve. Come ho detto poco sopra Bowie è un trasformista e stare legato troppo a lungo ad un solo personaggio non fa per lui. Così il 3 luglio del 1973 sul palco dell’Hammersmith Odeon di Londra Bowie uccide il suo alter ego. I fan rimangono scioccati, nessuno si aspettava una cosa del genere.
Mentre stava viaggiando in America, per portare in giro la tournée legata all’album, trova l’ispirazione per la sua nuova opera. Nel 1973 esce Aladdin Sane, una sorta di diario di viaggio, ispirato proprio alle esperienze vissute in terra americana.
Alladin, con la saetta dipinta sul volto, è il nuovo alter ego di Bowie.
Il personaggio di Aladdin Sane, potrebbe essere ispirato al fratello a cui venne diagnosticata la schizofrenia. Lo stesso nome, che si potrebbe tradurre come “un giovane folle” (a laid insane), richiama alla mente la malattia mentale, tematica molto cara al cantante.
L’anno seguente esce Diamond Dogs, un album che va controcorrente: mentre nel mondo inizia a spopolare la disco music Bowie se ne esce con questo album complesso. Qui prende vita un nuovo personaggio chiamato Halloween Jack: capelli rossi e benda sull’occhio. Un personaggio che si muove in un futuro post-apocalittico, ispirato dall’opera di George Orwell.
Ma il personaggio per cui Bowie è più spesso ricordato è il Duca Bianco. La creazione di questo alter ego, che prende vita nell’album Station to Station (1976), deriva forse dall’esperienza cinematografica vissuta ne L’uomo checadde sulla terra.
Il Duca Bianco era un personaggio odioso, per stessa ammissione di Bowie, era freddo, ariano quasi ieratico. Nonostante l’album contenga la hit Golden Years, il cantante sta affrontando un periodo buio e difficile dovuto ai problemi legati allo stress e alle tossicodipendenze; insomma non è tutto oro quello che luccica.
Inoltre a causa dell’aspetto ariano e per alcune dichiarazioni, in questo periodo, vienne spesso accusato di fomentare fascismo e nazismo.
Il Duca era un alter ego diametralmente opposto a Ziggy: i capelli erano laccati all’indietro, le tutine erano state sostituite da abiti impeccabili ed eleganti. Il successo però fu travolgente, il pubblico amava il Duca Bianco…non ne aveva mai abbastanza.
Ma è nell’ultimo album, Blackstar, che Bowie si spoglia e ci presenta la sua vera identità: David Robert Jones. Qui è un profeta, cieco, e ci preannuncia la sua morte.
Bowie era malato da tempo di cancro e questo album è il suo epitaffio, il suo addio ai fan. I video che lo ritraggono steso in un letto assumono un significato più profondo che, ad una prima vista, era impossibile cogliere.
Sapeva che la malattia lo stava traghettando verso la fine e, fino all’ultimo, Bowie è stato un uomo di scena. Blackstar è il suo saluto, il suo congedo dal mondo.
Con la sua morte, il 10 gennaio 2016, non abbiamo perso solo Bowie abbiamo perso tutti i suoi alter ego: Ziggie, Aladdin, Jack, Il Duca e, ovviamente, David Robert Jones.
Con il nostro Semprepiùpoveritour facciamo entrare la gente nella nostra musica
Però, ad entrare letteralmente in casa delle persone, in verità, sono proprio loro. Si chiamano Chiara Lobina, in arte Lobina e Jessica De Pascale, detta Jess, e sono le protagoniste del nuovo appuntamento con le scoperte artistiche della Liguria.
Ci troviamo a Genova, dove la splendida cornice della Claque – importante teatro e punto di riferimento per la musica genovese – mi ispira e mette in soggezione allo stesso tempo.
Qui le ragazze mi raccontano di loro, della forte passione per la musica e di quella voglia instancabile che le spinge ogni giorno a lottare affinché quella passione diventi un giorno un vero e proprio lavoro a tempo pieno.
Jess e Lobina sono due giovani e talentuose cantautrici genovesi, diverse e simili al contempo. Che non sono un duo, ci tengono a sottolinearlo: “Abbiamo due progetti differenti – racconta Lobina – e continuiamo a portali avanti singolarmente, ma qualche tempo fa, forti della situazione in cui oggi si trovano moltissimi musicisti, abbiamo deciso di unire le forze per trasmettere un messaggio importante. Basta con questa stupida competizione: siamo artisti, facciamo musica, abbiamo bisogno di collaborare e sostenerci a vicenda”.
Ed è proprio quello che, in modo naturale e spontaneo, stanno facendo le due ragazze attraverso la loro musica. “Ci sono tanti artisti che ce l’hanno fatta – mi spiega Jess – e tanti che sono ancora acerbi. Poi, proprio nel mezzo, c’è una grande quantità di persone brave, determinate e con prodotti molto validi che però, per chissà quale motivo, non riesce a fare il salto di qualità. E se da soli è un viaggio troppo difficile da affrontare, perché non farlo insieme?”
Ora, tra tanti modi per trasformare una critica sociale in qualcosa di unico e divertente, questo rientra sicuramente tra le genialate dell’anno. Stanche dei locali che vedono gli artisti come dei carillon da salotto, stanche di quella considerazione becera e irrispettosa che tanti hanno nei confronti dei musicisti, Jess e Lobina si sono rimboccate le maniche e hanno deciso – in un certo senso – di boicottare e ribaltare completamente la struttura dello show tradizionale che, ad oggi, si riduce meramente in burocrazia spicciola: Quanto dobbiamo pagarvi? Quanta gente portate? Quanto casino fate? E la migliore, che resta l’evergreen per eccellenza, valida un po’ per tutti gli ambiti artistici, nientepopodimeno che l’intramontabile Ti pago in visibilità. Ma come, non lo sapete? La visibilità è la moneta del futuro. Altro che bitcoin!
La loro idea, dunque, è semplice quanto originale: portare fisicamente all’interno delle case di sconosciuti la propria musica, ma non solo. Un secret live di nicchia, dedicato a pochi, sempre diverso e irripetibile. “Siamo esseri umani – mi spiega Chiara – e come tali vogliamo essere…umani! Vogliamo essere compresi, noi con la nostra musica. Quando entriamo a casa delle persone non vogliamo semplicemente suonare, ma instaurare con quei pochi e intimi ascoltatori un rapporto umano, entrando in sintonia con loro”.
Un tour indoor che racconta la situazione dei musicisti emergenti, pieno di difficoltà ma anche di soddisfazioni, un modo per raccontare la competizione e combatterla – metaforicamente, per carità – a colpi di chitarra. Una musica diversa, umana e autentica, un modo per trascorrere del tempo tra una canzone e un bicchiere di vino e, perché no, qualche confidenza. Nessuna interpretazione, nessun filtro, nessuna messinscena.
Il semprepiùpoveritour è, di fatto, una trovata simpatica per sottolineare in modo intelligente la difficile condizione in cui si trovano oggi molti musicisti: da soli, in un mare di squali assetati di sangue, dove chi prima suonava in una fabbrica abbandonata e ora riempie i palazzetti, allora è un figo. Ebbene, nel 2019 – all’alba di un futuro gestito da intelligenze artificiali, macchine che si guidano da sole, assistenti domestici e Auto-Tune che trasformano i cantanti da doccia in pop-star, siamo ancora al punto di contare. Contare qualsiasi cosa: persone ai concerti, visualizzazioni, ascolti, click, like, cuori, case, libri e fogli di giornale. Ma sticazzi non ce li mettete? Eddai regà.