Attraversare Milano è sempre un incubo per me. Traffico lento, strombazzare di clacson, moto che sfrecciano sui marciapiedi. Insomma, un’esperienza tremenda.
Per evitare di dover guidare più del dovuto in quella giungla urbana in cui vige la legge del più forte, decidiamo di parcheggiare ad una ventina di minuti dall’Alcatraz e di farci una passeggiata.
Perchè anche se Milano è famosa per lo smog, con l’arrivo della primavera e dell’ora legale, che ci regala qualche momento di luce in più, tutto sembra più bello.
La nostra meta, come detto prima, è l’Alcatraz dove suonano gli Avantasia, per la loro unica data italiana del Moonglow Tour.
Devo ringraziare il mio amico Alessandro, che eroicamente ha anche fatto da autista durante questo viaggio, per avermi fatto scoprire questa band di cui, fino a qualche mese fa, ignoravo l’esistenza. Anche se siamo solo ad aprile per me hanno già vinto il premio come “scoperta dell’anno”.
Varchiamo le porte della discoteca alle 20.15 e c’è già una folla di gente riunita e scalpitante in attesa che i loro beniamini facciano la loro comparsa sul palco.
Ce la siamo presa comoda perché l’orario d’inizio segnato sul biglietto era alle 20.30…ma quando mai un concerto inizia all’ora prestabilita?
Le luci si abbassano e in sala inizia a risuonare You Shook Me All Night Long degli AC/DC seguita dall’Inno alla Gioia.
Guardo l’orologio: sono le 20.30. Incredibile.
Terminata la musica classica cade il sipario (no, non è un errore di battitura) e lui, TobiasSammet, è li, in posa plastica, avvolto nella penobra.
Non si parla, niente presentazioni, si parte subito: Ghost in The Night.
Rimango folgorata, è nato un amore.
La voce di Tobias è un qualcosa di indescrivibile. Potente e avvolgente: da brividi.
La prima cosa che noto dopo la mia folgorazione iniziale è la bellissima scenografia: sullo sfondo c’è la copertina di Moonglow, che ricorda le immagini di Tim Burton, mentre alberi con lanterne e cancellate, che richiamano alla mente un maniero vittoriano in rovina, incorniciano il tutto.
Ma non c’è tempo per perdersi dietro alla scenografia.
La voce e il modo in cui Tobias si muove sul palco sono magnetici e continuo a seguirlo con gli occhi.
Al termine della canzone prende il microfono e ci preannuncia che lui e i suoi Avantasia ci faranno compagnia per le tre ore seguenti.
Il pubblico a quel punto impazzisce e tutti quelli presenti nel locale iniziano ad urlare e a chiamare “Toby”, come si farebbe con un vecchio amico che non vedi da anni e incontri dall’atro lato della strada.
E così una dopo l’altra gli Avantasia ci regalano le canzoni del nuovo album e i successi del passato, quelli che da vent’anni a questa parte li hanno resi un gruppo che vale la pena di conoscere.
Ma non è solo un concerto, è una festa sul palco accanto a Tobias oltre ai tre coristi (Adrienne Cowan, Ina Morgan e Herbie Langhans) duettano, alternandosi Ronnie Atkins, Jørn Lande, Geoff Tate, Eric Martin e Bob Catley.
Tutti fanno parte della grande famiglia che sono gli Avantasia, una realtà nata da un’idea di un ragazzo, poco più che ventenne, che è stato in grado di coinvolgere artisti di ogni livello.
Tobias Sammet ama il suo pubblico, parla con lui e lo coinvolge; ride e scherza con quelli che condividono il palco con lui perché è questo che la musica dovrebbe essere: divertimento (per chi la esegue e per chi la ascolta).
Alle 23.30 dopo Farewell (da brividi cantata con la corista Adrienne Cowan) tutti quelli che hanno preso parte allo spettacolo salgono sul palco.
Li contiamo: sono in 14.
L’ultima esibizione è un pezzo corale. Tutti cantano, tutti gli artisti che hanno preso parte a questa serata magica ci regalano un ultimo pezzo di loro, prima di salutarci, esibendosi in Sign of the Cross/The Seven Angels.
Quando ci apprestiamo ad uscire sono ancora sotto l’effetto dell’incantesimo della loro musica.
Le tre ore del concerto non ci sono bastate e gli Avantasia ci hanno accompagnato anche nel viaggio verso casa, per farci sognare ancora un po’.
Se vi dico Walt Disney, quale immagine si forma nella vostra mente?Prima di tutto, sicuramente, vi strapperei un sorriso.
Dopo di che la vostra fantasia inizierebbe a viaggiare, toccando gli angoli più vivi e colorati dell’infanzia, guidata da quella magia eterna che, oggi come ieri, rende la Walt Disney Company sovranaindiscussa dell’intrattenimento.
Ebbene, per quanto possa sembrare pacifico e prospero tutto questo, anche la Disney ha attraversato un periodo buio causato, nel 1966, dalla morte del suo iconico papà, Walt Disney.
Tra alti e bassi l’azienda non tornò a galla fino al 1989 quando un’idea pazza, quanto efficace, rivoluzionò la storia del cinema: costruire la narrazione dei lungometraggi animati esattamente come quella di un musical di Broadway.
Infatti, il 15 Novembre 1989, uscì nelle sale cinematografiche statunitensiil 28° Classico Disney: La Sirenetta.
Il lungometraggio presentava tutte le caratteristiche che un musical di successo dovrebbe avere: numeri di ballo, canzoni indimenticabili e una capacità d’intrattenere incredibilmente efficace.
L’incredibile struttura che riproduce l’albero della nave del Principe Eric, da “The Little Mermaid” a Broadway
Inutile dirlo, questo schema ebbe così tanto successo che la Disney tornò sulla cresta dell’onda e ci rimase producendo quei capolavori che insieme vengono chiamati ancora oggi “il leggendario trio” ovvero La Sirenetta, La Bella e la Bestia e Aladdin.
Fu così che si entrò in quel florido periodo conosciuto come il “Rinascimento Disney”.
Non passò molto tempo, però,prima che il leggendario trio sentisse il richiamo delle proprie origini. Nel 1993 nacque la Disney Theatrical Production, con l’intento di portare sui palchi di Broadway il successo planetario di Beauty and the Beast.
Ma come tramutare quelle incredibili animazioni in spettacolo, senza correre il rischio di rendere il tutto un gigantesco flop?
Inevitabilmente fu necessario sbattere la testa sul fatto che il musical è si una forma d’arte meravigliosa e complicata, ma soprattutto costosa. La mediocrità è facile da sfiorare quando scegli la strada del musical.
Precedentemente abbiamo parlato di quanto sia difficile produrre un musical tradizionale, soprattutto in Italia, poiché il denaro da investire per questo tipo d’intrattenimento scarseggia e l’incognita successo è parecchio determinata dal prezzo del biglietto.
Raccontare allo spettatore la difficoltà di produzione, esaltandone impegno e virtù, è il primo passo per riempire i teatri.
L’esempio di Mary Poppins, il musical italiano che ha fatto sognare adulti i bambini riscuotendo un enorme successo, vi sembrerà ridondante maci serve per capire che l’amore tra il musical e l’Italia è davvero possibile.
Numero musicale tratto dal musical Disney “Newsies”, in cartellone al Teatro Nazionale di Milano prima del successo di “Mary Poppins”.
Potremmo chiederci però cosa porta le persone ad assistere ad un musical Disney, quando la storia è la medesima, vista e rivista da generazioni di bambini ed adulti sulle VHS ed al cinema.
Sì, è vero, quando Disney porta sul palco le proprie storie queste non hanno bisogno di presentazioni. Per prima cosa la musica viene utilizzata per dare definizione e carisma allo spettacolo e per portare qualcosa di nuovo al pubblico, che sia in linea però con il lungometraggio omonimo.
Infatti è tradizione che siano aggiunte canzoni create appositamente per le versioni teatrali della storia; fortunatamente la Disney può permettersi di chiamare a raccolta lo stesso team che precedentemente ha lavorato al film.
Dopo la riuscitissima realizzazione sperimentale di musical come Beauty and the Beast e TheLittle Mermaid, fu proprio con Aladdin che la Disney celebrò maggiormente il legame originario tra musical e lungometraggio. In questa storia lo schema del musical è molto più marcato, rispetto a quello dei suoi fratelli maggiori, proprio per celebrare il fatto che fu la scelta di questa tipologia di narrazione a salvare la Disney dai suoi anni bui.
Trasformare Aladdin in spettacolo fu come riportarlo alle sue origini: un gioco da ragazzi, si può dire. Friend like me, il brano cantato dal Genio della Lampada, ormai fa parte del DNA di Broadway.
I suoi genitori, il compositore Alan Menken e il paroliere Howard Ashman, sono i creatori delle canzoni che resero “il leggendario trio” il perfetto esempio di spettacolo allo stato puro.
Per loro, tornare a lavorare per Broadway, dopo Sister Act e La Piccola Bottega degli Orrori fu come tornare a casa dopo un lungo viaggio nell’animazione.
Per renderlo ancor più spettacolarizzabile Menken pregò i dirigenti di liberare Aladdin il Musical dai diritti d’autore, consentendo alle scuole di metterlo in scena senza problemi.
Sta di fatto che Disney portò Broadway sul grande schermo e ne fece un’infallibile ricetta per il successo.In seguito, riconsegnò quella ricetta al palcoscenico.
Da qualche anno a questa parte, iniziando con La Bella e la Bestia, dato il trionfoillimitato dei suoi musical teatrali, la Disney sta riportando Broadway sul grande schermo, continuando quest’anno con l’uscita nelle sale cinematografiche dei musical in live action di Aladdin e de Il Re Leone.
Broadway/cinema/Broadway/cinema. Mio Dio, un Inception Disney.
Un giovane Simba sale sulla Rupe dei Re, dal musical “The Lion King” a Broadway.
Spesso il successo di uno spettacolo dipende anche dalla qualità degli effetti speciali che devono essere convincenti per sbalordire il pubblico.
La magia, in un musical come Aladdin, è una prerogativa così, per i suoi effetti speciali, Disney si rivolse al maestro dell’illusionismo Jim Steinmeyer, che divenne membro attivo del team creativo.
Per le scenografie, le luci ed i costumi l’intero team intraprese un viaggio in Marocco, per rubarne le atmosfere e le tradizioni.
Così, da 8 anni a questa parte, ogni replica di Aladdin è un tributo a tecnici, artisti, costruttori e supervisoriche hanno lavorato senza sosta per una ragione soltanto: estasiare noi, i loro spettatori.
Numero musicale “Arabian Night” tratto dal musical “Alladin” nel West End di Londra
Per quanto il teatro possa essere appagante e liberatorio per un artista, lo spettacolo è, in realtà, confezionato per il pubblico: occorre affinare il più possibile la capacità di carpirne sogni e bisogni, se si vuole arrivare ad un prodigioso successo.
Per quanto possa essere complicato mettere in scena una rappresentazione stabile in un teatro, lo è ancor di più pensare ad uno spettacolo di questa portata che possa spostarsi da una città all’altra.
Quando nel 1991 Rob Roth, veterano regista di Broadway, vide al cinema La Bella e la Bestia, impazzì per il film perché, nel vederlo, si accorse di quanto fosse comparabile ad un vero e proprio musical.
Quando Disney gli chiese di dirigerne la versione teatrale, esplose di felicità.
Insegna del musical Disney “Beauty and the Beast”
Poi, dopo mesi di pre-produzione ed il successo di Beauty and the Beast a Broadway, gli venne chiesto di riadattare la sua creatura ad un musical da tournè. La cosa non fu affatto semplice:
Abbiamo portato lo show in tutto il mondo, ho volato personalmente in Australia, Giappone, Vienna, Los Angeles e Germania, per ricercare in loco il perfetto team creativo. Per me è stato un onore lavorare con così tanti artisti ed attori nel mondo, ho imparato che le emozioni sono un linguaggio universale.
Ma, ogni volta che lo spettacolo si vestiva di un nuovo teatro, in una nuova città, le modifiche da apportare erano troppo numerose. Le luci, le scenografie, le scelte stilistiche, tutto completamente da rifare..
Per noi, c’era solo una strada: tornare alla pre produzione e reinventarsi, così da creare uno spettacolo su misura per ogni nuova location.
Per rendere giustizia alla sua opera Roth fece un’ accuratissima ricerca, prese aerei e passò notti intere, insieme ai suoi tecnici, a modificare lo spettacolo senza danni far danni. Tutto, perché la magia creata dal team non si disperdesse.
Pensate un attimo a quanto un musical da tournè perda di qualità nel passare da un teatro all’altro.
In Italia, questo succede ogni volta. Le luci, i colori, le scenografie, il sonoro, l’impostazione dei performer sul palco, ovvero il lavoro di tantissimi professionisti che hanno studiato giornate intere, tutto sarebbe da rifare e, vi assicuro, il pomeriggio che si ha a disposizione non è per nulla sufficiente.
Come risolvere l’eterna lotta tra la ricerca della qualità e l’enorme investimento economico e creativo necessario per portare sui palchi italiani un vero musical tradizionale?
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G U A D A L U P E T O U R
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Monk (Roma) // 30 Marzo 2019
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Grazie a L’Eretico Booking
C’era una volta Avalon, un’isola misteriosa avvolta dalla nebbia e dal mistero. Le sue sponde erano abitate da creature magiche e sfuggenti: fate, maghi, cavalieri, re e regine.
Avalon era la patria di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda, di Merlino e Morgana; una terra lontana e incantata che ha sempre suscitato un fascino viscerale tra scrittori e artisti.
Nel 2000 un giovane cantante tedesco Tobias Sammet, frontman degli Edguy, ha un sogno; quello di creare un super gruppo metal che riunisca insieme alcuni dei più grandi nomi del panorama internazionale. Ed è da questa idea e da una crasi tra le parole Avalon e Fantasia, che nascono gli Avantasia.
Nel loro primo album intitolato The Metal Opera Part I, del 2001, Avantasia, traccia numero 9 del cd, viene presentata come un mondo al di la’ dell’imaginazione umana in cui si svolgono le vicende raccontate nei 13 brani che compongono l’opera.
La band nata come un side project degli Edguy ad oggi è forse la creatura più riuscita di Tobias, quella a cui dedica più tempo e sopratutto quella in cui riesce ad esprimere al meglio le sue doti sia di polistrumentista che di autore.
La formazione attuale comprende oltre al cantante Tobias Sammet, Sasha Paeth alla chitarra, MiroRodenberg alla tastiera e Felix Bohnke alla batteria. Accanto a loro però nel corso degli anni, e degli album, si sono avvicendati tutti i grandi nomi del panorama metal mondiale: da Alice Cooper a Michael Kiske ( degli Helloween), da Rudolph Schenker (degli Scorpions) a Marko Hietala (dei Nightwish) per citarne alcuni. Gli Avantasia ci propongono un metal di tipo operistico con brani spesso lunghi, che a volte superano i 10 minuti, e che ci proiettano in un mondo fiabesco e fatato. Ogni concept album ci racconta una storia diversa ed ha un suo filo conduttore.
Quello che li rende un unicum nel panorama musicale mondiale è l’abilità di spaziare da un genere ad un altro regalandoci un carosello di sonorità che vanno dal power metal al symphonic, dal folk all’hard rock, senza però stranire l’ascoltatore.
L’alternarsi continuo di generi infatti si sposa con il cambio di cantanti e di timbriche, con l’introduzione di un coro o di una voce femminile, che va a rendere la musica di Tobias non solo armonica ma anche ipnotica.
Le canzoni dei loro album si susseguono in un turbinio di generi ed emozioni che ti prendono e ti trasportano in un mondo magico al di là dello spazio e del tempo.
Dal 2001 ad oggi gli Avantasia hanno prodotto 8 album l’ultimo dei quali, Moonglow, é uscito lo scorso 15 febbraio ed è accompagnato da un tour mondiale.
Secondo Sammet Moonglow, che è costato alla band due anni di fatiche, sarebbe l’album più dettagliato che abbiano mai prodotto; non solo ambizioso ma ricco di amore per i particolari.
Come si può evincere dal titolo le canzoni prendono spunto dalla luna e dalla notte. Si tratta di 12 tracce piuttosto cupe che si ispirano ai romanzi di matrice vittoriana e che parlano di creature che si muovono nelle tenebre in cerca di qualcosa.
C’è chi ispirato dalla luce lunare abbandona le proprie convinzioni per inseguire i propri sogni, chi aspetta un segno e chi vuole ritrovare se stesso.
La notte e la luna, che dall’alba dei tempi sono fonte d’ispirazione per gli artisti, sono riuscite a catturare l’attenzione del frontman tedesco che con questo album, ha dato il meglio di sè.
Per tutti gli amanti del genere, ma anche per gli appassionati di fantasy, gli Avantasia saranno all’ Alcatraz di Milano il 31 marzo per l’unica data italiana del Moonglow Tour. Un appuntamento da non perdere per chi vuole farsi trasportare dalla loro musica; per chi vuole chiudere gli occhi e immaginare di trovarsi tra le Nebbie di Avalon.
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L A M U S I C A A T T U A L E
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Auditorium Parco Della Musica (Roma) // 30 Marzo 2019
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Grazie a OTR Live
Lo sguardo scettico e il ghigno beffardo, classici di chi ha la certezza di essere in procinto di vivere un’esperienza deludente, tragicomica e trash, si spengono inesorabilmente all’ingresso della struttura che contiene, espone ed insieme cela lo spettacolare Rock ‘n’ Roller Coaster Starring Aerosmith, periferica attrazione che fa sfoggio della sua strepitosa scenografia tanto al Disney’s Hollywood Studios di Bay Lake (in Florida), quanto al Walt Disney Studios di Disneyland Paris.
Abituati come siamo ai simulatori di Formula 1, l’iSpeed di Mirabilandia, a quelli di jet supersonico, l’ormai antiquato Blue Tornado di Gardaland, e a cannoni capaci di lanciarci nel cuore di una battaglia spaziale contro l’Impero di Star Wars, la famosa Space Mountain anch’essa situata nel parco di Topolino della capitale francese, può involontariamente sorgere un sorriso carico d’ironia nel sentir parlare di un’attrazione che tira in ballo la band il cui frontman è l’istrionico Steven Tyler.
Se la musica è un fattore che può incrementare l’adrenalina, e lo fa alla grande, come diremo in seguito, la contestualizzazione di una rock band in un rollercoaster pare ardua, pretestuosa, azzardata.
Nulla di tutto ciò. Per accorgersi dell’errore, per pentirsi del pregiudizio, dicevamo, basta immergersi nel finto studio di registrazione che introduce all’attrazione vera e propria. Una cura del dettaglio made in Disney e una lunga serie di oggetti storici, quali chitarre e dischi firmati da artisti di tutto il globo, non solo distolgono l’attenzione dall’inevitabile fila che si crea sin dall’apertura del parco, ma aiutano il pubblico a calarsi nello scenario, nel mood, nel personaggio imposto dagli artisti ed ingegneri che hanno concepito il Rock ‘n’ Roller Coaster Starring Aerosmith.
Finalmente seduti e assicurati al proprio posto, non prima di aver ricevuto un saluto virtuale dalla band stessa, tramite un simpatico video proiettato all’interno di una sala di registrazione perfettamente riprodotta, si intuisce e si accetta l’efficacia e tutta la potenza di un concept nato ormai diversi anni fa, in Florida l’attrazione ha aperto i battenti addirittura nel 1999, inspiegabilmente non cavalcata o riciclata in nessun’altra forma, né contesto.
Ogni carrozza che compone il rollercoaster ha la sua personalissima colonna sonora, una o più tracce che vengono “pompate” dalle casse poste sopra la testa del passeggero. Si tratta, naturalmente, di hit degli Aerosmith, una sorta di medley in onore della loro carriera per intenderci, con testi opportunamente e scherzosamente riadattati per l’occasione. Un esempio? Love in Elevator diventa Love in a rollercoaster.
Non è l’unico elemento musicale dell’attrazione, visto che l’intera esperienza è modellata attorno all’illusione di vivere, in prima persona, le emozioni e le sensazioni di una vera rockstar alle prese con un concerto live. Non appena il countdown raggiunge lo zero, si viene proiettati in un tunnel che avvolge il passeggero con luci abbaglianti. Non fosse per il giro della morte che segue immediatamente dopo, non fosse per l’adrenalinica velocità e spinta con cui si attraversa il passaggio, si potrebbe davvero giurare di aver percorso a perdifiato la scaletta che collega le quinte al palco vero e proprio, un palco che, per l’occasione, si attraversa tutto d’un fiato, da parte a parte, tra avvitamenti, paraboliche e scintillanti giochi di luce.
Complice l’oscurità, che avvolge il resto dell’edificio entro cui è contenuto il rollecoaster, fari e musica, che avviluppano il partecipante alla lisergica festa su binari, incrementano il divertimento, l’euforia, il desiderio di averne ancora e ancora.
Scesi dalla giostra e recuperata la capacità di pronunciare parole di senso compiuto, è inevitabile chiedersi come mai Rock ‘n’ Roller Coaster Starring Aerosmith rappresenti un caso praticamente unico nel suo genere, piuttosto che una consuetudine da declinare in decine di modi diversi.
Una casa stregata a tema Iron Maiden? Sarebbe un’idea semplicemente pazzesca. Un cinema 4D in compagnia degli assoli esaltanti dei Dragon Force? Non vediamo già l’ora. Una torre a caduta libera a ritmo con le hit dei Queen? Probabilmente sarebbe troppo, ma saremmo ugualmente curiosi di vederla in azione.
Musica, performer affermati e attrazioni è un connubio che funziona alla grande. Lo stesso Rock ‘n’ Roller Coaster Starring Aerosmith ci ha fornito la controprova, quando abbiamo deciso di concederci l’ennesima cavalcata e, per un problema di natura tecnica, la musica di sottofondo era disattivata. Le sole luci, il semplice percorso confezionato dagli ingegneri, non bastava, non era più sufficiente per l’estasi, l’esaltazione, l’apoteosi.
Il ghigno beffardo con cui mi sono avvicinato per la prima volta all’attrazione di Disneyland Paris, qualche settimana fa, al termine del percorso si è tramutato in un sorriso d’ebete stupore. Sì, perché adesso pretendo un parco a tema musicale quanto prima.
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8 5 t h A n n i v e r s a r y T o u r
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Campus Industry Music (Parma) // 29 Marzo 2019
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Grazie a Barley Arts
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L O S P I R I T O C H E S U O N A T O U R
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Locomotiv Club (Bologna) // 29 Marzo 2019
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Grazie a Zamboni53 Store
• Il fascino dell’Oriente da Debussy ai Cavalieri Jedi •
Immaginate per un attimo, nei panni di un artista europeo del 1867, di attraversare i grandi cancelli dell’Esposizione Universale di Parigi.In questa edizione gli argomenti trattati sono l’agricoltura, l’industria e le arti.
A costo d’essere scontati, entrando, cercherete con lo sguardo l’area dedicata alle avanguardie artistiche. Incuriositi dal padiglione del Giappone ne varcherete la soglia ignari che, di lì a poco, sarete inondati da qualcosa che cambierà per sempre il modo in cui l’occidentale concepisce l’arte.
Alzando gli occhi li sgranerete entrando in contatto con qualcosa di così extraterrestre, da farvi sentire insieme spaventati e meravigliati: le stampe giapponesi, pregne di un fascino tanto ignoto e misterioso, conquistano immediatamente i nostri cuori e le nostre menti avide di sconosciuto.
Katsushika Hokusai, “Vento del Sud, Cielo sereno” anche noto come “Fuji Rosso” dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji”.
In occidente, vi assicuro, nulla del genere si era mai visto poiché il Giappone, per preservare la sua identità, fino a quel momento visse nel più totale isolamento.
Uno tsunami incontrollabile svegliò voci nascoste nei cuori degli artisti; la rivoluzione creativa fu inevitabile e da questa nacque quel pregevole dono per il quale saremo per sempre debitori all’Oriente: l’Art Nouveau.
Manifesto dell’Esposizione Universale di Torino del 1902
Oggi, nel 2019, dopo secoli di conoscenza ed istruzione, ciò che noi europei potremmo provare davanti alle opere giapponesi dovrebbe tradursi in un sentimento edulcorato e sbiadito.
Invece, entrando nel Museo Civico Archeologico di Bologna, ci ritroviamo tutti con le mani appoggiate sul viso e gli occhi sgranati, mentre ci godiamo quella sensazione aliena che proviamo noi occidentali quando si tratta d’Oriente.
Questa roba fa paura, giuro, perché vorresti capirla anzi, credi di capirla ma non è così, non è possibile, è di un altro pianeta. E questo, irrimediabilmente, ci attira spaventandoci ora come 150 anni fa.
Katsushika Hokusai, “Kajikazawa nella provincia Kai”, dalla serie “Le Trentasei vedute del Monte Fuji”.
La mostraHokusai Hiroshige – Oltre l’Onda si fa traghettatrice di un viaggio attraverso l’arte della stampa giapponese, arte che necessita di una disciplina ed di una concentrazione unica.
L’allestimento è davvero intelligente, non solo perché finalizzato alla comprensione dei due maestri dell’arte Ukiyo-e, ma perché porta il pubblico a confrontarne le opere, individuandone sì le uguaglianze e le differenze, ma anche le motivazioni che hanno portato ad esse.
Utagawa Hiroshige, “Ōhashi. Acquazzone ad Atake” dalla serie “Cento vedute di luoghi celebri di Edo”.
Ma che cos’è l’arte Ukiyo-e? Letteralmente il termine significa “dipinto del mondo fluttuante” e per i buddisti rappresentala fugacità e la precarietà delle cose terrene, dalla quale il saggio doveva allontanarsi il più possibile.
Nel Seicento il significato del termine venne rovesciato poiché furono proprio quei desideri effimeri e fluttuanti a rendere preziosa la vita terrena.
La pittura giapponese, infatti, era fatta di attimi fuggenti: immobilizzava con strumenti inspiegabili un istante nel tempo e nello spazio, rendendolo eterno, evanescente e fluttuante.
Il più grande maestro che l’Ukiyo-e conobbe fu Katsushika Hokusai(1760-1849) che definì se stesso “solo un vecchio pazzo per l’arte”. Anche noi siamo pazzi per l’arte, la sua.
Katsushika Hokusai, “Nakahara nella provincia di Sagami” dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji”.
Nelle sue opere il maestro riesce a creare qualcosa di eccezionale e mai scontato, nonostante lo schema sia sempre il medesimo: in primo piano la vita quotidiana dell’uomo, sullo sfondo la natura potente e spaventosa, seppur spesso silente ed addormentata.
La mostra, dopo averci presentato Hokusai e le sue trentasei vedute del monte Fuji, ci guida davanti alla vera protagonista dell’esposizione: La Grande Ondapresso la costa di Kanagawa.
Katsushika Hokusai, “La [grande] onda presso la costa di Kanagawa”, dalla serie “Trentasei vedute del monte Fuji”.
Una giornata, per ammirarla, non sarebbe bastata.
Per quanto possa essere minacciosa la natura per Hokusai, rappresenterà sempre l’armonia, la pace e l’eterna costante dell’uomo.
Il sentirsi impotenti davanti alla furia della natura, secondo la filosofia giapponese, è una certezza rassicurante. Accanto a lei, in una teca gemella, troviamo una stampa del più giovane Utagawa Hiroshige (1773–1829) che rappresenta un’onda ispirata a quella del grande maestro Hokusai, chiamata Il Mare a Satta nella provincia di Suruga.
L’Onda di Hokusai, a differenza di quella di Hiroshige, urla, ruggisce e assale le fragili navi con i suoi schiumosi artigli di drago, creando uno spettacolo drammatico.
Utagawa Hiroshige, “Il mare di Satta nella provincia di Suruga” dalla serie “Trentasei vedute del Fuji”.
L’Onda di Hiroshige, invece, capovolge l’inquadratura portando l’umano sullo sfondo ed il mare in primo piano.
Rappresenta una natura pacifica e materna, nella quale le navi viaggiano serene dove il pericolo è lontano. Entrambi gli artisti, inconsapevolmente, aprirono la strada all’invenzione dei celebri manga giapponesi.
Hiroshige si lasciò influenzare dall’arte occidentale, abbandonò la concezione d’istante fluttuante ed immobile di Hokusai, destando i suoi soggetti, animandoli, rendendoli gioviali ed espressivi, in stampe che paiono appena uscite dagli studi di Hayao Miyazaki.
All’Occidente Hokusai regalò, Hiroshige rubò. In più, è evidente che l’avvento della fotografia colpì fortemente il giovane artista, e lo si legge nelle splendide stampe che trasforma in profonde inquadrature fotografiche.
Dopo aver sconvolto i sentimenti di Monet, la tecnica di Van Gogh ed il tratto di Degas,l’arte giapponese proseguì la corsa alla conquista del cuore occidentale.
Anche la musica, arte sempre assetata d’influenze, si fece sedurre dal Giappone in una danza misteriosa e fluttuante.
L’amante più devoto fu Claude Debussy, che rimase tanto coinvolto dalla visione de La Grande Onda di Hokusai da comporre, nel 1905, un’incantevole raccolta di schizzi sinfonici a lei dedicata: la celebre Le Mèr. Sulla copertina della prima edizione, per sua scelta, volle proprio l’immagine de La Grande Onda.
“La musica è un’arte molto giovane, sia nei suoi mezzi, sia per la conoscenza che ne abbiamo”, disse Debussy al suo editore dopo aver compreso quanto basti poco per cambiare irreparabilmente ilmodo di vivere le piccole e grandi cose.
Dopo di lui tantissimi musicisti cavalcarono quell’Onda misteriosa, come Igor Stravinsky e Maurice Ravel, lasciandosi trascinare in un mare di profondi gorghi, di misticismo e di tensione.
Giacomo Puccini scelse di rappresentare in musica la storia di Madama Butterfly, una delle opere ancora oggi più famose, proprio perché come ogni altro artista del tempo era desideroso di toccare e plasmare la cultura giapponese, come argilla tra le sue mani.
Attraversando la classica e quella jazz, ancora oggi la musica occidentale porta i segni dorati delle influenze orientali che, inconsapevolmente, peschiamo in grande quantità anche nella cultura popolare.
Basti pensare al wagneriano John Williams che, dopo 50 anni di carriera hollywoodiana, si lascia ancora influenzare da Debussy e, indirettamente, dall’Ukiyo-e.
Per la colonna sonora della saga di Guerre Stellari, sua figlia prediletta, ha scelto quelle atmosfere ascetiche e vaporose tipiche della musica e della filosofia giapponese. Sulle dune di Tatooine o circondati dai Jawa, è inevitabile sentirne la presenza, il profumo, il tocco.
Utagawa Hiroshige e Utagawa Kunisada I, “Veduta con la neve”.
La verità è che molto dell’iconica saga di George Lucas abbraccia caldamente l’Oriente. In fondo, cos’è la filosofia dell’Ukyio-e, se non qualcosa di incredibilmente rassomigliante alla filosofia dei Cavalieri Jedi?
Malto Beer Expo: un nuovo evento all’Unipol Arena Sabato 6 e domenica 7 aprile 2019 Bologna
Nasce Malto International Beer Expo, il nuovo format di Unipol Arena destinato a diventare la più grande esposizione italiana sulle birre artigianali. Sabato 6 e domenica 7 aprile, sbarcheranno per la prima volta in Unipol Arena le migliori birre artigianali italiane e internazionali.
Malto si pone infatti l’obiettivo di creare un punto di connessione tra i migliori birrifici artigianali, accuratamente selezionati con Brewberry e Ales & Co., e il grande pubblico, passando per le vere star della manifestazione: i mastri birrai.
Saranno più di 50 i birrifici artigianali presenti a Malto, di cui 40 italiani e 12 da tutto il mondo, fra questi anche l’iconico BrewDog; oltre 250 i tipi di birra da poter degustare e oltre 500 le referenze acquistabili allo shop.
Malto sarà anche l’occasione per partecipare a masterclass nell’area Citizens of Every- where by Moor dove i protagonisti dell’arte birraria nazionale e internazionale sveleranno i segreti delle loro più celebri creazioni facendole gustare ai partecipanti.
Per i curiosi ci sarà anche la possibilità di partecipare a tasting experience guidate organizzate a cura di Unionbirrai per scoprire al meglio tutti i diversi aspetti e tipologie di questo prodotto.
Nell’area Cooking Show invece numerosi chef e food blogger si cimenteranno in preparazioni di ricette con le birre protagonista di Malto. Saranno con noi Simone Finetti (Master- chef), Davide Campagna (Cotto al Dente), Irene Tolomei e Tony (Bake Off Italia), Riccardo Facchini (Opificio Facchini) e molti altri.
Un grande percorso gustativo quindi, con un Beer Shop situato poco prima dell’uscita, dove poter acquistare in tutta calma le birre assaggiate durante la visita, e molto altro.
Ma non finisce qui, all’interno di Unipol Arena, si terrà infatti durante i giorni di Malto Beer Expo, un vero e proprio festival: Beered Music Festival.
Non solo birra quindi, ma anche tanti artisti, sabato 6 aprile saliranno sul palco del Beered Music Festival: Atlantico, Claver Gold, Johnny Marsiglia, Osc2x, Sem&Stènn, Teppa Bros (Lo Stato sociale dj set), The Andrè, Viito.
Mentre domenica 7 aprile toccherà a: A Toys Orchestra, Husky Loops, Mokadelic, Pun- kreas, Omar Pedrini in TIMORIA Viaggio Senza Vento, Skiantos, Soviet Soviet, Twist & Shout.
L’ingresso a Malto avrà un costo di 8,00 € + diritti di prevendita, il biglietto garantirà il bicchiere brandizzato con porta-bicchiere, la guida dell’evento, un buono acqua e la possibilità di accedere a masterclass e laboratori.
Tutta la lista dei birrifici e maggiori informazioni su www.maltobeerexpo.com
Biglietti in vendita su www.boxerticket.itmalto-international-beer-expo/
ORARI Sabato 6 aprile dalle 15:00 alle 01:00 Domenica 7 aprile dalle 11:30 alle 23:30
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Locomotiv Club (Bologna) // 26 Marzo 2019
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row css=”.vc_custom_1552435940801{margin-bottom: 20px !important;}”][vc_column][vc_column_text]Per molti è stata la rivelazione della scorsa edizione del Firenze Rocks, altri lo seguono dai tempi delle sfuriate punk rock dei Gallows e dalle distorsioni elettriche dei Pure Love. Frank Carter torna in Italia con i suoi The Rattlesnakes, progetto nato nel 2015, in costante ed eclettica evoluzione.
Dopo l’appuntamento alla Santeria Social Club, la data del 26 marzo vede come scenario il Locomotiv Club di Bologna. L’atmosfera familiare e raccolta del locale riceve con entusiasmo la band di apertura.
Sono giovani, sono inglesi, sono i King Nun. I quattro londinesi suonano forte, hanno pezzi di qualità, si divincolano sul palco con scoordinata energia.
Guardandoli, sembra di avere davanti una vecchia foto anni ’70: i classici rampolli britannici di buona famiglia e l’unico neo di aver scelto la strada del rock ‘n’roll. Per fortuna.
Giusto il tempo di posizionare la pedaliera di Dean Richardson, lo sgabello di Gareth Grover e il basso di Tom ‘Tank’ Barclay che il palco è pronto ad accogliere Frank Carter. I tatuaggi in vista dalla canotta traforata, i pantaloni della tuta rossi sgargianti, come i suoi capelli. Ci si scalda sulle note di Crowbar, primo singolo estratto dal nuovo album End of Suffering, in uscita il 3 maggio 2019. Con le sembianze di un folletto gabber, il cantante salta, corre, sorride in ghigni espressivi.
Il pubblico, esaltatissimo, non aspetta altro che uno dei suoi famosi crowdsurfing che arriva già alla terza canzone, finendo con una perfetta verticale sulla folla.
Tra circle pit, teste che si scuotono a ritmo e sudore, il live si infuoca. Un concerto che riecheggia delle note e delle parole di sentite dediche.
Se Fangs è un ringraziamento a Matt Cabani di Hellfire per aver creduto in lui fin dagli esordi, Heartbreaker è l’occasione per manifestare contro ogni forma di violenza, soprattutto contro quella sulle donne.
Il frontman ne ricorda il ruolo fondamentale, si scusa a nome del genere maschile per averle offese in qualsiasi modo e invita le ragazze ad arrivare sino al palco, passando di mano in mano, senza che nessuno si permetta di toccarle.
Anxiety è anticipata da una confessione: “Circa due anni fa, quando ho iniziato a comporre i nuovi brani, stavo attraversando un momento davvero difficile. La musica, le persone care, la mia famiglia, il mio lavoro non riuscivano a farmi dimenticare il mostro che si presentava allo specchio, ogni mattina. Mi sentivo profondamente solo. Poi ho intrapreso una battaglia. Ed è stato anche per merito dei miei amici e compagni di band che ho scelto di lottare. È una fortuna e una benedizione averli al mio fianco. Perché se la depressione appartiene al passato e l’ansia per quello che verrà al futuro, ciò che conta è vivere questo momento, insieme”.
Alla figlia, invece, è dedicata Lullaby, una ninna nanna molto alternativa che precede i ringraziamenti di rito e il gran finale.
“Grazie a chiunque si trovi qui, oggi. Grazie a voi che, a miglia e miglia da casa mia, cantate le mie canzoni. Sì, sto parlando a voi, a degli uomini. Uomini che affrontano guerre contro i propri demoni perché siamo costantemente spinti ad essere guerrieri. Sapete, però, che il nobile traguardo di un guerriero è quello di morire? Desidero, invece, che ogni singola persona qui viva una lunga, fottuta vita per i propri genitori, partner, figli e famiglie. Voglio soprattutto che lo faccia per se stessa. Parlate, apritevi. E ascoltate chi chiede il vostro aiuto”.
La chiusura con il classico I hate you, dall’album Blossom, è una festa. I King Nun si uniscono ai Rattlesnakes, in una pioggia di champagne e grida con il poco fiato rimasto.
Sì, perché a un concerto di Frank Carter non si va per l’impeccabilità della voce o per la perfetta esecuzione.
Quello a cui si assiste è l’espressione di un’urgenza artistica ed emotiva che evade ogni assolo di chitarra, ogni colpo di batteria, ogni nota urlata al microfono. Il significato che racchiude va oltre, come quello che custodisce l’inchiostro di un tatuaggio.
“If you are struggling with the weight of the world around you, please talk to someone. Embarrassment breeds Shame, shame breeds loneliness and loneliness will kill you if you let it. You are not alone.”
– Frank Carter[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]
SETLIST:
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Grazie a Hellfire Booking Agency
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Testo: Laura Faccenda
Lupo è il progetto acoustic-folk di Enrico (Chicco) Bedogni, polistrumentista reggiano ex voce, chitarra e synth della band post-rock AmpRive (Fluttery Records, USA), da cui fu costretto ad allontanarsi per un problema all’udito. Inizia così per Chicco Bedogni un periodo di sofferta astinenza dalla musica che lo conduce proprio alla realizzazione di questo EP solista To the Moon. La paura di non poter più far parte del fascinoso mondo musicale si riflette in queste sei ballad songs, contorniate da un’aurea lenta e malinconica. Tra folk americano e bluesman meravigliosi e tormentati ci si ritrova coinvolti nello sfogo dell’autore, in un lamento disperato ad una luna distante ed assente.
Il nome stesso del progetto riecheggia il concetto, coinvolgendo gli ascoltatori in questo ululare notturno, cupo ed inquieto, invocato da un’umanità impaurita e troppo sola. Gli individui si ritrovano abbandonati a se stessi in un mondo insensibile che non lascia scampo. L’unica via di fuga sembra essere la musica con il suo immenso potere di infondere la speranza di un riscatto. Un nuovo inizio per gli individui di cui narrano le canzoni e allegoria di una rinascita personale e professionale per l’artista. “La musica era il mio rifugio. Ho potuto strisciare nello spazio tra le note e dare la schiena alla solitudine” (Maya Angelou).
L’EP comincia proprio con Brother and I, che porta a riflettere su come la condivisione di un’origine e di una fine comuni non basti a rendere gli uomini fratelli. Rimaniamo uomini soli e impauriti, gettati in un mondo privo di compassione. La nostra inadeguatezza e debolezza di fronte alla perfetta immensità dell’universo viene ribadita in Slow Big Crunch. La voce potente dell’artista, accompagnata dalla chitarra e dal suono originale del banjo, si rivolge al cielo colmando un infinito imprevedibile e spaventoso.
Allo stesso modo The Bluesman Blues toglie dal disincanto giovanile, peccatore ma ingenuo allo stesso tempo, svelando la verità di una vita futura piena di insidie. Il brano, duro e diretto, enfatizza l’essenza folk dell’EP grazie all’energia trasmessa dall’armonica.
Una critica verso la sterilità dell’animo umano prosegue in Whispers To The Wind, in cui si considera come l’altezzosità e l’orgoglio, perseguiti tanto spesso dagli individui, conducano solo a solitudine ed inquietudine.
Uomini, sempre più distanti tra loro e distratti da una vita troppo frenetica e caotica, caratterizzano il mondo di oggi: emarginazione, superficialità e distacco vengono continuamente giustificati dalla convenienza e dalle circostanze portando ad una società in cui, sempre più, si perdono i veri valori umani. Proprio in questo modo, in Like a Picture, un padre egoista e assente si trasforma in un professionista impegnato e devoto, da rispettare e prendere a modello. Dove ci sta trasportando questa vita frenetica e imperturbabile? Che futuro avràun’umanità così viziata ed instabile? Un sentimento di insoddisfazione si libra nell’aria, trasformandosi in un lamento cupo e straziante come il pianto di una bambina capricciosa raccontato in Blue Inside.
Le ballate, con grande forza e folklore, conducono l’ascoltatore ad una forzata presa di coscienza e una profonda riflessione sulla condizione umana, nelle sue debolezze e insicurezze. Un EP da ascoltare con una forma mentis aperta a nuovi orizzonti ed interpretazioni della realtà. Accettate la sfida?