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Tag: Band

Diario di una Band – Capitolo Quattro

“Con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia, ma colpisco un po’ a casaccio perché non ho più memoria

E a un Dio senza fiato non credere mai”

 

F.De Andrè

 

 

Contaminazioni. La vera storia, il vero percorso musicale di una persona nasce in tempi remoti, laddove la memoria del soggetto in questione probabilmente non riesce ad arrivare, se non scavando veramente a fondo, rosicchiando forse quei primi passi che i timpani assorbivano, zampettando dolcemente nella più totale e caotica beatitudine che un pargolo può avere.

Una spugna che assimila le influenze dai genitori, dai fratelli maggiori o dagli zii. Molte volte è un concorso di colpe che crea veri e propri “mostri” di personalità, a volte arroganti, a volte riflessivi, a volte melanconici, a volte trascinatori inesauribili o testardi senza freno inibitorio.

Quando l’ascolto e la passione per l’ascolto diventano uno stile di vita, quando si scalfisce in maniera preponderante il peso specifico caratteriale andando cosi a contemplare la potenza della magia del pentagramma.

La colonna sonora di una vita è costellata di periodi più o meno lunghi e più o meno stratificati, più o meno incisivi forse, ma ognuno lascia un segno, un particolare che rende unico e originale ogni persona che vede la musica come un’autostrada da percorrere giornalmente.

A volte su una fuoriserie sportiva, a volte andando al galoppo di un drago, a volte semplicemente passeggiando sotto la neve. La cosa bella è che ognuno ha la libertà di scegliere la strada musicale da percorrere e corredare a proprio piacimento i dettagli, decidere se sacrificarli, se farli esplodere, se crederci o meno, per l’appunto, ai dettagli, vero ago della bilancia in questione.

Tutto ovviamente in base alle esigenze mentali e fisiologiche del caso. Il contorno che avvolge le proprie intenzioni durante il viaggio è un gioco di specchi che riflette ogni sfaccettatura caratteriale di un individuo andando a consacrare cosi una statua granitica di melodie.

Mia madre mi dice sempre che sono un “giovane vecchio”, come biasimarla. Sono riuscito nell’intento, senza nemmeno volerlo, di imparare ad amare tante tipologie di musica, figlio della curiosità, ho solo una sola certezza in questa vita, ovvero i miei antagonisti acerrimi: la noia e la soffocante routine.

Ho fatto un gioco, un piccolo esperimento che al fine risulta anche simpatico. Ho provato a scavare nel baule del tempo i primi tre dischi che ho ascoltato all’esasperazione, scarnificato, spolpato. Dopo averli focalizzati, ho provato a capire se hanno inciso sui gusti, su l’attitudine, su la personalità, tratti identificativi che oggi compongono il MIO essere, musicale e non.

Col massimo stupore il rapporto si sostiene bene. Gioco che invito ogni lettore a provare, sicuro che il collage dei ricordi sarà più amplio del solito, sicuro del fatto che si apriranno automaticamente tante piccole finestre sul passato.

Ci rimasi di stucco quando, una volta composto questa particolare graduatoria ho realmente appioppato un peso equilibrato ai tre dischi in questione plasmati alla mia vita.

Dookie dei Green Day fu un regalo di mio fratello Mattia nel lontano luglio del 1995. Ho compiuto dieci anni e come prima cosa, arrivato in doppia cifra ho scoperto il punk rock.

Mi innamorai istantaneamente della disinvoltura come respiro primario, mi innamorai della chitarra distorta, folgorato da quell’ approccio sfrontato al quotidiano che rimbombava come uno “WOW” interminabile e di quella vena ribelle che ovviamente ai tempi non potevo conoscere e concepire, ma quel lenzuolo di stoffa ruvida me lo sentivo veramente comodo sulle mie piccole spalle.

Resta l’album che ha spalancato le porte della rozza vena che amo ancora mettere davanti a ogni mio proposito musicale. Un disco che scivola via dalla prima all’ultima canzone.

Oggi come ieri un rifugio di immagini e ricordi, di campeggi con le chitarre acustiche scordate e l’avvento dei primi sogni di gloria, quando per sfida o presunzione cercavo di assomigliare a Billy Joe, recependo gli input della sua immagine come una vera e propria figura mistica.

Credo di essere una persona del tutto propensa al divertimento, tentando di sorridere al massimo delle possibilità, cercando sempre di prendermi poco sul serio quando può giovare chi mi circonda e godendo in compagnia, facendo dell’auto ironia un’arma di condivisione di massa. Questa attitudine jokeristica la devo senza a dubbio all’album di Elio e le Storie TeseEat The Phykis 1996.

Togliendo il fatto che la suddetta band è una vera officina di tecnica e precisione, accademia pura per ogni tenace ascoltatore, volevo focalizzarmi su un’altra sfaccettatura. Ciò che prendo in esame e che ora posso vedere in maniera più cristallina è la delicata causa dell’ironia, della metafora e della denuncia mai diretta, ma velata e nascosta dietro all’aneddoto e alla similitudine.

“La terra dei cachi” nel suddetto anno fece la fortuna e scalfì la sfumatura un po’ eversiva del Festival di San Remo, fin li rimasta abbastanza sterile di personalità dai tempi di mostri sacri come Rino Gaetano e Luigi Tenco.

Lo dimostra il fatto che, nella finale, agli artisti veniva concesso un singolo minuto di tempo per poter convincere il pubblico a spingerli verso la vittoria. La logica e l’ordinario, il canonico e conseguenziale pensiero strategico metteva questo minuto a disposizione dello spezzone più incisivo del brano, in linea di massima il ritornello governava questi 60 secondi di “dentro o fuori”.

La follia o la prospettiva, non so come chiamarla, ma Elio e Co. presero la loro canzone, raddoppiarono la metrica, suonarono “la terra dei cachi” in maniera impeccabile e velocizzata, restarono dentro il minuto disponibile. Per me, undicenne fu epico. Sconvolto!!!

Un messaggio chiaro, affascinante, ero divertito, stregato. Mi feci comprare il cd dai miei vecchi che ai tempi ordinavano spesso dischi e quant’altro su di un catalogo musicale che si chiamava “OK MUSIC”. Volevo saperne di più, volevo capire cosa potesse esserci dietro a quegli “scappati di casa”.

Quello che venne in futuro in compagnia dei dischi di Elio e le Storie Tese è semplicemente storia.

La bellezza del rischio, di osare, di vedere un finale diverso e perché no, un finale ontologico, mantenendo il sorriso e il coraggio. Senza dubbio virtù trasmesse alla leggera dagli zii di Milano.

Ultimo ma non ultimo, sempre nello stesso periodo, forse l’anno dopo, scoprì la bellezza e l’ammirazione che provo con rinnovato affetto anch’oggi per la rima. Divenuta in seguito una compagna fedele, amica sempre pronta alla “battaglia” che pareggia ogni mio stato d’animo quando ne percepisce l’affanno.

Iniziai a scrivere molto presto, e ricordo che la prima canzone che buttai giù, per esigenza, rigorosamente in rima e senza sapere minimamente tenere in mano una chitarra fu un inno all’Uomo Ragno, potevo avere 9 anni, non di più. Mia nonna Clara e mio nonno Mario tenevano un’edicola a San Carlo, il mio paese di nascita.

Avevo a disposizione una vasta gamma di fumetti, ma Peter Parker aveva qualcosa che andava oltre gli altri paladini dell’universo Marvel. Il mio super eroe al fianco di Dario Hubner e Marco Van Basten. Quindi tra un fumetto e un giornaletto porno che di soqquatto finiva nel mio Seven assieme ai libri di scuola, (mossa faceva le gioie dei miei compagni di classe ovviamente), scoprì l’amore per la scrittura e di conseguenza per le donne.

In quel periodo storico esplose la melodrammatica guerra giovanile nella mia zona tra chi ascoltava il Rap e chi ascoltava il Punk California modalità skate. A me il rap ha sempre destabilizzato, se non qualche sberla del primo Neffa e dei Sangue Misto, o di precursori come I Cavalieri della notte, altri tempi.

Però esplodeva a livello commerciale e radiofonico in quel periodo il successo nazionale degli Articolo 31 e Così com’è mi ha insegnato quella linea di scrittura martellante, incalzante, accattivante, rigenerante.

Ai tempi non scriveva cazzate J AX e per un adolescente brani col ritornello che fa “Con le buone si ottiene tutto” era un monito chiaro. E’ ovvio che bisogna avere la scaltrezza e la fortuna di assorbire e apprendere certi segnali dall’universo, ma quella frase, di una canzone che poi è passata in tempo celere nel dimenticatoio, mi ha sempre battuto sulla spalla, come un soffio di educazione mai svanito.

Ho scritto una canzone rap nella mia vita e mi ha pure soddisfatto ma prendo da quei tempi passati la voglia e la necessità di non banalizzare una canzone con testi scontati, frivoli o poco significativi, per lo meno per me.

Cosi come un tatuaggio, una canzone credo vada fatta per necessità interiore, per un tangibile sostentamento emotivo. Scrivere per trasmettere credo debba valere come cicatrice che nel bene o nel male farà sempre parte di te, parlerà sempre di te.

Fatevi un giro nel passato, tirate fuori le vecchie foto dagli album di famiglia, mettetevi intorno a un tavolo con amici e parenti e aprite il baule magico del passato, della spensieratezza, del collaudo verso la vita.

Son sicuro scoprirete più sensazioni e propositi che sono stati sepolti per anni, e che nella frenesia di oggi porteranno una boccata d’aria senza dubbio rigenerante.

 

Vasco Bartowsky Abbondanza

Diario di una Band – Capitolo Due

“Ma con chiunque sappia divertirsi mi salverò
Che viva la vita senza troppo arricchirsi, mi salverò
Che sappia amare, che conosca Dio come le sue tasche”

Rino Gaetano

 

 

Caparezza disse che è sempre stato contrario ai talent show perché la musica non è una gara. Questo pensiero mi ha fin da subito affascinato, un po’ come un coro da stadio riuscito dopo un gol al 90esimo minuto. Rimasi di stucco appena lessi quelle sue parole, cosi semplici se ci pensiamo, ma cosi terribilmente rivoluzionarie in rapporto allo sterile dominio televisivo che ha gradualmente e capillarmente condizionato il palinsesto musicale.

Qualcuno potrebbe dire “ è facile parlare male del main stream quando non ci sei dentro”, giustissimo.

Però, e sottolineo però, bisogna capire la vera logica di un artista, di una band o di un cantautore. Il tipo di contributo che può dare una forma d’arte quando alla base è semplice gioia di creare, andando oltre ad ogni concetto d’ imposizione, oltre ogni numero di graduatoria e oltre a ogni conto in banca.

In sintesi è libertà allo stato puro, impermeabile da tossine, eretta su di un concetto che sosteneva fino a tempi non sospetti le possibilità e le speranze di giovani e meno giovani sognatori di professione, in balia di un settore che ancora consentiva colpi di scena .

Sembra assurdo come la ricerca della libertà espressiva sia deragliata fuori concorso, un presupposto anacronistico che personalmente destabilizza e preoccupa. Nessuno negli anni ’70 avrebbe pensato che in Italia la figura del cantautore avrebbe raggiunto tale resa, un po’ come il tracollo di Blockbuster per fare un esempio pratico, in fondo chi l’avrebbe mai detto?

Si modifica il corso degli eventi, si riduce al minimo lo sforzo per avere accesso alle possibilità, la gavetta è percepita come un gesto di autolesionismo, il paladino armato di chitarra è stretto tra gli slogan e la pochezza di un movimento denominato “Indipendente” o “Indie”, come preferite.

Vera macchina fotocopiatrice che vomita cloni più o meno bellocci da spremere per quel poco di tempo che serve ad alimentare il motore di un mercato sempre più lontano dalla bellezza della musica per quella che è, per quella che ci ha fatto innamorare e credere di poter cambiare le cose, (per lo meno migliorarle).

Da “pischello” i miti del punk rock erano una sorta di miraggio, idoli che spesso portavano alla frustrazione. La California dentro e fuori , il riflettore, la festa perfetta marchiata post America Pie. Bello, figo e allettante. Impazzivo sognando e sognavo impazzendo.

Si suonava, ci si provava e si cadeva spesso fino al punto che però la musica passava in secondo piano. Quando l’apparire diventò più importante dell’essere, inevitabilmente il giochino si ruppe senza possibilità di rimettere i cocci al loro posto.

Un chiaro segnale, molto tenue, ma palese e lungimirante su ciò il futuro avrebbe riservato, come possiamo toccare oggi con mano e orecchi.

Decisi di mollare la presa, lasciando la penna e la chitarra in un angolo per tre anni. Fino al primo viaggio a Dublino, dove l’assenza di pretese e castelli troppo grandi, mescolati alla scoperta di una cultura musicale e umana molto simile a quella del popolo Romagnolo mi hanno spinto a riprendere lo smalto abbandonato.

Reinventarsi con stimolo, sulle macerie di una passione che ha tracciato una cicatrice profonda e dolorosa. Mescolare le carte del passato e dell’imminente scoperta è stata una sfida troppo allettante. Gli astri poi si sono allineati, i compagni di viaggio arrivati come fossero li pronti a rispondere alle armi, inneschi e propositi incastrati come una partita perfetta a Tetris e condivisi dalla gente che gradualmente, aumentava ad ogni concerto.

E dopo appena tre anni di lavoro ho avuto la soddisfazione di poter suonare in molte occasioni, in Italia e all’estero al fianco di artisti che in giovinezza mi avevano condizionato e riempito di inavvicinabili aspettative solo perché io prendevo quello che non andava osannato, la presunzione.

Situazioni che sono arrivate inderogabilmente dal momento in cui l’assillo di arrivare e di dover eccellere non esisteva più. Aver una mentalità flessibile, che si accontenta ma che non si abitua all’ordinario, combattere la noia e consacrare i propri principi, i propri luoghi d’appartenenza, rapportare alla musica uno stile di pensiero e non ragionare solamente sul pentagramma.

Contornarsi di persone che abbiano la veduta semplice, serena e determinata, che sappia ridere e piangere quando è necessario, che ami la natura e per natura ami la vita.

C’è chi i castelli deve costruirseli per arrivare al cielo e chi in un castello vero e proprio ha la fortuna di creare e personalizzare tutto il tempo utile.

La predisposizione di chi ha scritto le pagine felici della storia non sono da ricercare nelle aspettative o nella scaltrezza di saper cogliere il momento giusto per comporre la melodia giusta, tra tenacia e paura lo scalino è breve. L’assillo di convincere la massa senza prima convincere se stessi è un rischio grosso che porta a conclusioni sterili o comunque a un prodotto fasullo.

Apprezzo chi lo fa, l’ha fatto e lo farà per la causa unica, la ricerca spasmodica di qualcosa di puro e personale che sia degno di essere ricordato e che possa rendere un po più semplice la vita di chi non per scelta è costretto a vivere nelle difficoltà.

Scrivo queste righe da persona libera e suono la mia musica da persona libera, per questo sono sereno di dire sempre quel cazzo che mi pare.

Il mondo non lo cambieremo ma per lo meno proviamo a colorarlo, perché in ogni caso le matite funzionano anche con la punta sbeccata.

Non aspettarsi niente, ma essere consapevole di poter dimostrare tutto.

 

Vasco Bartowski Abbondanza

Diario di una band – Capitolo Uno

“Caselli d’autostrada tutto il tempo si consuma ma Venere riappare sempre fresca dalla schiuma 
la foto della scuola non mi assomiglia più  ma I miei difetti sono tutti intatti.
E ogni cicatrice è un autografo di Dio nessuno potrà vivere la mia vita al posto mio.
Per quanto mi identifichi nel battito di un altro sarà sempre attraverso questo cuore.
E giorno dopo giorno passeranno le stagioni ma resterà qualcosa in questa strada. 
Non mi è concesso più di delegarti I miei casini. Mi butto dentro vada come vada.”

Jovanotti

 

Capitolo Uno

 

Abbiamo sempre bisogno di attaccarci a qualcosa, per esigenza, per noia, per paura, per sfida, per non sentirsi dalla parte di un’utilitaria da rottamare. Massimo rispetto sia chiaro, a chi macina chilometri in maniera incessante, riconoscendo i propri limiti che spesso sono dettati dalle possibilità e non dalle intenzioni.

Fare parte di una band è un po’ cosi, un crocevia tra l’officina di un meccanico e la potenza di un decollo di un 747, avendo ovviamente il controllo della cloche.  La parola “band” parla di tutto e parla di niente, può prendere le sfumature più improbabili come può cadere nella banalità più sgretolante. Chiunque può utilizzare il termine band, non tutti però hanno il privilegio e la credibilità di poterla rapportare alla concretezza della vita vissuta.

Un po’ come se la musica ad un certo punto passi in secondo piano, un po’ come se la musica stessa sia a decidere come comporre la tua vita e quella dei tuoi compagni di viaggio. Una rovesciata come stile di vita, un capovolgimento di fronte, talmente incisivo che ti permette di sederti, di metterti comodo e farti scegliere dalla musica stessa senza temere paure verso il futuro.

Alchimia che si sviluppa in base a quello che hai voluto diventare fino al punto di incontro indissolubile con la musica, come un rito pagano, come un matrimonio, una promessa: “Musica ho scelto te in ogni momento, cercando di metterti al centro di ogni mio stato d’animo… ora tocca a te prenderti cura di me perché ho bisogno di risposte dalla vita e tu sei stata sempre presente nel bene e nel male, mi fido”.

Chi può conoscerti come ti conosce la musica?  Forse la mamma, forse un fratello o una sorella, forse la tua band.

Diventare parte di un meccanismo, abbattere il ponte del tempo, abbandonare lo smarrimento esistenziale e non aver paura di rischiare quel qualcosa in più che ti ha tenuto per troppo tempo per le palle. Mettersi in ballo con le scarpe più comode e decidere di ballare fino a quando le gambe avranno la forza di sorreggerti. Insomma, siamo tutti bravi a raccontarci le favole, a perdonarci la pigrizia e a mollare alle prime difficoltà.

Vero e per nulla sbagliato, però la vita all’interno di una band è un concorso di colpe e di coscienze, di pacche sulle spalle e calci in culo costruttivi, di risate e discussioni, atte sempre al fine massimo ch’è costruire una storia che meriti la pena di essere vissuta. Ne deve valere la pena, ne deve valere soprattutto l’allegria.

Vivere all’interno di una famiglia ti mette di fronte a scelte, a caratteri distinti e a sacrifici.

Quando capisci che una band funziona? Lo capisci quando ti puoi scornare prima e dopo un concerto per dei punti di vista distanti, ma riesci con senso del dovere a mantenere senza sforzo l’integrità umana basilare, il dire “grazie” o  “per piacere”, rispetto sacrale verso gli addetti ai lavori, vero tappeto fatto di storie e persone che permette lo scorrimento giusto di uno show. Questo è quello che fa dei componenti di una band degli uomini e non delle comparse senza luce.

Concetto scontato? Purtroppo no, negativo.

Se nella musica di inizio anni 2000 si poteva ancora parlare di politica, di voglie impresse e di straordinari concetti corali appoggiati su di una base etica solida, ora non abbiamo la stessa stabilità di appoggio. Lo stiamo dando per scontato, la stiamo dando come una banale circostanza quella dell’educazione, la sua assenza è il vero cancro sociale, supportato in malo modo da una popolazione che si è abituata a guardare solo i colori del proprio giardino e disposto a tutelare spesso nemmeno i colori del proprio recinto ma accontentandosi in maniera remissiva di fiori in scala di grigio.

Suonare in una band e viverla ai miei giorni è un atto di responsabilità verso me stesso in primis, è un atto di responsabilità verso chi spende il proprio tempo ad ascoltare la mia musica e venire ai miei concerti, e terzo, è un atto di responsabilità verso chi ha formato la tenacia e la paura della mia penna e della visione del mio mondo.

Suonare in una e per una band è un atto d’onore, di rivoluzione, un atto d’amore verso la vita. Per questo ora soffro nel vedere la scena musicale italiana trasformarsi in “o-scena” musicale italiana. Senza presunzioni, né autocompiacimenti sia chiaro, non risiede nel nostro DNA questa triste attitudine, non siamo nati per le auto-celebrazioni, né per dissetarci con le nostre stesse lacrime.

Quello che vorrei fosse rispolverato è che l’ascoltatore accenda la lampadina della curiosità, della ricerca. Tralasciando la tecnica o il virtuosismo, ma ricercando artisti che mettono cuore e sentimento, che abbiano speranza nella gente e un senso di comunità genuino che possano fare di tre accordi banali una nave da crociera che porta in lidi sconfinati. Utopia o banale speranza, chiamatela come volete ma poco importa, suonare in una band deve essere equilibrio, come lo deve essere il rapporto con il  proprio partner.

Voglio che si torni a trovare equilibrio non come premio straordinario da privilegiati, nemmeno imporlo come un fottuto bilanciamento necessario, voglio che l’equilibrio sia una scelta perché non è per tutti ed è maledettamente giusto sia cosi. Voglio che l’equilibrio sia una scelta di essere. Voglio essere uno zaino protonico che cattura i fantasmi della gente, li trasporta dentro a un amplificatore che di conseguenza li scaraventa fuori, finalmente innocui.

Suonare in un band per come la vivo io è credere nelle persone, credere che si possano annullare le distanze, credere nel rispetto verso la penna, la vera arma che deve sancire un ritorno alla serenità e all’indipendenza intellettuale.

Confido in me, nella musica e soprattutto nella mia band, la famiglia che mi sono scelto perché mi da l’equilibrio necessario che mi tiene vivo.

 

Vasco Bartowski Abbondanza

 

Faccia a faccia con gli All But Face

E’ un nebbioso pomeriggio di dicembre e dopo aver attraversato stradine dissestate e aver incrociato un paio di cerbiatti sono finalmente arrivata all’Elfo Studio di Tavernago.

Ad aspettarmi li c’erano gli All But Face, impegnati in una seduta di registrazione per incidere il loro nuovo singolo.

La band piacentina ha accettato di adottarmi per un pomeriggio per permettermi di vedere come lavorano e per fare quattro chiacchiere insieme.

L’atmosfera è la stessa che c’è quando un gruppo di sei amici si riunisce in un bar per bere una birra e parlare del più e del meno: allegra e distesa.

Mi spiegano che durante il pomeriggio avrebbero registrato la parte di Fabio Riccò, il cantante, perché la base musicale l’avevano già incisa nelle sedute precedenti.

Mentre Fabio va nella stanza insonorizzata per registrare l’audio io rimango in sala di registrazione con il resto della band e trascorro li il mio pomeriggio tra una battuta e l’altra.

Il pezzo, che ho ascoltato in anteprima, si chiama Cavehouse e posso garantirvi che è una bomba!

Per chi non li conoscesse gli All But Face sono: Fabio Riccò (voce), Gianluca Bolzoni (chitarra), Andrea Bocelli (batteria), Matteo Losi
(console), Vincenzo Ferrari (basso) e Andrea Chicchi (chitarra).

 

Partiamo dal nome, che è piuttosto singolare, da dove viene?

All But Face deriva da una storia molto stupida. Si parte con una ragazza che si era invaghita del chitarrista che però era un po’ restio a darle corda perché lei era tutta perfetta…a parte la faccia. Quindi gran fisico, simpatica, però la faccia…proprio no. Quindi All but face.

 

Al momento vi appoggiate a qualche etichetta? Cosa ci dite dell’esperienza in sala di registrazione?

Stiamo lavorando con la Tanzan Music, anche se non siamo sotto contratto con loro. Dopo questa esperienza in sala di registrazione oggi siamo più coscienti di quello che vogliamo e come lo vogliamo. Oggi siamo decisamente più preparati rispetto a 5/6 mesi fa. Prima, avevamo meno esperienza e facevamo molta più fatica. Lo studio di registrazione è una grande palestra che ci ha insegnato molto. E’ un qualcosa che ti sbatte in faccia quello che ti manca. Tu vai in studio, pensi di sapere come si fanno le cose e invece, dopo due ore capisci che le cose non vanno, e le devi rifare. E’ stata un’ esperienza molto importante per noi.

 

La formazione è sempre stata quella che ho conosciuto oggi? E come vi siete incontrati?

La composizione del gruppo è un po’ variegata. Fabio è arrivato dopo ma ci siamo conosciuti tutti per passaparola diciamo. Il gruppo si è evoluto nel corso degli anni. Abbiamo avuto diversi nomi e diversi componenti. Questa formazione è stabile da un paio d’anni, da quando è arrivato Fabio. Il gruppo ha questo nome dal 2015 quando sono arrivati Matteo e Andrea. Però comunque ci conoscevamo già anche prima di iniziare a suonare insieme.

 

Chi si occupa di scrivere i testi? E come nascono i vostri brani?

I nostri pezzi sono tutti inediti, scritti da noi, e tutti in inglese. Generalmente si parte con un’idea di elettronica, a cui pensa Matteo. La
seconda fase di arrangiamento e di scrittura, o di completamento avviene in sala prove. Ad ogni modo cerchiamo di riunirci tutti e di confrontarci. All’inizio i testi li scrivevo io (Vincenzo, bassista), invece ora li scrive Fabio.

 

Quali sono le vostre influenze musicali?

La base di partenza è il metal core ma abbiamo anche influenze di elettronica e alternative metal. Il fatto di cantare alcune parti in
melodico ci differenzia dal metal core tradizionale. E’ tutto un ricongiungersi di varie influenze. Gruppi come i Bring Me the Horizon, gli
Architectes, gli Eskimo o gli I See Stars fanno parte del nostro backround. Sono tutti gruppi che come noi mescolano l’elettronica ad altri generi, soprattutto gli ultimi due che abbiamo citato. Forse noi stiamo insistendo ancora di più sul discorso dell’elettronica rispetto a questi gruppi; ma ad ogni modo sono loro che ci hanno fatto da base.

 

A gennaio uscirà il vostro nuovo singolo Dark Angels. Dobbiamo aspettarci qualcosa di diverso da Steel?

Quello che volevamo ottenere con Steel era un impatto forte, con un ritornello orecchiabile suonato a tutto volume e con degli scream
abbastanza accentuati. Dark Angels invece, pur non essendo una ballad, assume toni un po’ più riflessivi. Pur avendo delle componenti di scream e un’elettronica abbastanza forte è un brano più morbido di Steel, con un testo più profondo e più pensato.

 

Vincenzo, visto che sei tu che ti sei occupato dei testi, dove hai trovato l’ispirazione per scriverli?

Si tratta di testi (parliamo di Dark Angels e Steel) che prendono spunto da episodi o da sensazioni che fanno parte del mio passato. Steel per esempio si riferisce a un particolare periodo della mia vita, Dark Angels a un particolare episodio che mi ha colpito, anche se non direttamente. Nonostante questo però io preferisco sempre fare dei testi un po’ generali perché mi piace pensare che chi legge un testo, o ascolta un brano, si possa in qualche modo immedesimare in quello che ho scritto. Per questo li lascio sempre un po’ aperti… Perché ognuno possa vedere qualcosa di suo e quindi non risulti essere una cosa totalmente personale. Anche perché non sono sempre felicissimo nel raccontare certe cose della mia vita, ovviamente.

 

Quali sono i vostri programmi per i prossimi mesi?

Cercheremo di essere più presenti sulle piattaforme come Spotify e YouTube. Cercheremo di essere il più regolari possibili con le pubblicazioni. Il 20 dicembre uscirà Steel su Spotify. E a gennaio, verso la metà del mese, rilasceremo il video di Dark Angels. Con il nuovo anno ci saranno tante novità, anche dal punto di vista del live. La musica va molto in giro su internet ma c’è bisogno di suonare dal vivo, di confrontarsi con il pubblico.

 

Saluto gli All But Face e me ne torno verso casa.

Ricordatevi che il 20 dicembre Steel verrà rilasciato su Spotify.

Io andrei ad ascoltarlo perché questi Vez spaccano davvero!

 

Laura Losi

Finley // Vanilla Sky

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Finley & Vanilla Sky @ Vidia Club // October 31, 2017

 

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E se dobbiamo scegliere due canzoni simbolo della serata, per prima viene Distance, perché “I know you hide something inside, you never tried to get the chance to fit it” nel 2004 sembrava essere rivolta a tutti noi, “adolescenzialmente” adolescenti e un pochino persi.

Poi scegliamo 7 miliardi dei Finley. Perché più attuale delle sue parole e del videoclip, non c’è nulla: “Tu, fra 7 miliardi di pezzi diversi, Le mani sugli occhi per riuscire a trovarsi”.

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Intro / Invincible / Dinstance / Giving back / Just dance / The world is yours / Ten years / The longest winter / Stranger things / Break it out / Devastante / Your words / Umbrella

Scaletta Finley

Armstrong / Gruppo Randa / Ad occhi chiusi / Diventerai una star / La fine del mondo / Domani / Il tempo di un minuto / Sole di settembre + Dentro una scatola / Keep calm and carry on / Meglio di noi non c’è niente / Sempre solo noi / Ricordi / Benzina sul cuore / Adrenalina / Scegli me / Odio il Dj / Fumo e cenere / Can’t stop the Finley + I gotta Finley / 7 miliardi / Tutto è possibile

 

 [/vc_column_text][/edgtf_elements_holder_item][/edgtf_elements_holder][vc_empty_space][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Testo: Sara Alice Ceccarelli

Foto: Luca Ortolani[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

Levante

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Levante @ Sulla Sabbia (Beky Bay) – Bellaria // July 21, 2017

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Scaletta:

CAOS monologo

Le Mie Mille Me

Non Me Ne Frega Niente

Le LAcrime Non Macchiano

Sentivo Le Ali

Ciao Per Sempre

1996

Io Ero Io

Mi Amo

Sbadiglio

Pezzo Di Me

Cuori D’artificio

Diamante

Lasciami Andare

Contare Fino A 10

La Scatola Blu Acoustic

Non Stai Bene Acoustic

Abbi Cura Di Te Acoustic

Santa Rosalia

Duri Come Me

Memo

Di Tua Bontà

Bis:

Alfonso

Io Ti Maledico

Gesu Cristo Sono Io

CAOS outro

 [/vc_column_text][/edgtf_elements_holder_item][/edgtf_elements_holder][vc_empty_space][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Testo: Sara Alice Ceccarelli

Foto: Luca Ortolani[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

NOFX

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NOFX + Strung Out @ Bayfest // August 14, 2016

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Foto: Luca Ortolani[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

The Offspring // Pennywise // Good Riddance

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The Offspring @ Rimini Park Rock // June 15, 2016

+ Pennywise // Good Riddance

 

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Foto: Luca Ortolani[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

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