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Tag: film

Oasis, Knebworth 1996

This is history, right here, right now!

 

Non capitava, da troppo tempo. Percepire quell’impulso di imprimere, anche soltanto con una parola chiave, una scena, una nota, un’espressione dal potere immaginifico che nasce in un frangente lontano ed unico, ma plasma e modella l’attimo presente. Correre, scorrere su una linea del tempo che tiene insieme una generazione, più di una generazione: quella che ha vissuto di cuore, di pancia agli anni Novanta e quella nata nella stessa decade. Anime benedette e maledette, alcune, per vibrare di un lascito passionale, impetuoso, idealista, fatalista. C’è chi può raccontare, con occhi orgogliosi, l’aver assaporato un’epoca nel suo gusto più autentico e chi può assistere ad un carosello di ricordi a bassa definizione, potentissimi in ogni pixel sgranato, in ogni chitarra distorta.

Non capitava da tempo, da troppo tempo. Perché è la sensazione che ha sempre contraddistinto lo stare in piedi di fronte ad un palco, con la transenna conficcata tra sterno e stomaco, quasi a sorreggere l’apparato dell’emotività. In questo caso, un concerto c’è ma su pellicola, sotto forma di documentario, di gioiello d’archivio. Musica e cinema, due dimensioni al limite del fantascientifico — oggi — in un 2021 post apocalittico in cui il sovvertimento pandemico e planetario ha tracciato un confine netto tra ciò che era prima e ciò che sarà. Ma nessun anacronismo, nessuna nostalgia ingiallita, soltanto verità leggendaria e testimonianze da pelle d’oca in Oasis, Knebworth 1996, il film documentario diretto da Jake Scott sui due concerti biblici della band inglese, nell’area verde dell’Hertfordshire, raggiunta — il 10 e l’11 agosto di venticinque anni fa — da 250.000 persone.

Location battezzata da nomi sacri – Led Zeppelin, gli ultimi Queen di Freddie Mercury – e da subito riconosciuta per quel qualcosa di “aristocratico”. La sfumatura complementare di un gruppo nato tra i quartieri popolari di Manchester, tra le mura intrise di birra e frustrazione dei pub, e giunto a distanza di ventiquattro mesi dall’esordio all’apice della propria carriera e del rock planetario. Un record firmato fratelli Gallagher, capaci di radunare una folla oceanica tanto eterogenea quanto accomunata da un’unica missione: vedere gli Oasis. Ed è proprio sulla prospettiva dei fan che viene incentrata la narrazione, non soltanto dell’evento ma anche di tutto quel corollario di esperienze, di avventure che lo precedono e lo seguono. Capitoli di uno dei tomi dell’enciclopedia della vita, quello relativo alla giovinezza, alla leggerezza, alla speranza. Quello che sporge sempre qualche centimetro in più sullo scaffale. La copertina consunta, il tratto inossidabile delle impronte che, pagina dopo pagina, hanno fatto la storia. Una storia pronta ad essere riletta, riguardata, riascoltata.

 

 

“The best of all things that come our way” — La corsa ai biglietti e l’attesa

Nessuna news virale, nessun annuncio ufficiale su siti o social, nessun tweet lanciato alla velocità della luce. Nel 1996, la due-giorni di Knebworth venne accennata da Noel Gallagher durante un’intervista promozionale e, da lì, rimbalzò su cartelloni, riviste musicali, tg nazionali. Il giorno della messa in vendita dei biglietti è riportato alla mente da coloro che parteciparono come un tripudio di sveglie programmate, attese interminabili al telefono, file chilometriche fuori dalle sedi dei circuiti ufficiali, voli dall’Italia con il sogno di due ticket fortunati. Stringerli in mano, vederli arrivare per posta, riceverli in regalo da qualcuno di speciale significava cerchiare in rosso quella data sul calendario. Avere qualcosa di incredibile da attendere. Da organizzare. Non importava quale fosse il modo per raggiungere la distesa più desiderata del Regno Unito (il 5% dell’intera popolazione nazionale tentò in quell’occasione di acquistare i biglietti): a bordo di un’auto sgangherata, di un bus carico di sorrisi e droga o zaino in spalla in direzione di una stazione dei treni dimenticata. Una volta arrivati lì e sicuri che il pass per il paradiso non venisse strappato malamente dagli addetti, tutto ciò che rimaneva fare era correre, correre, correre verso il pit, verso uno scenario in cui tutto era ancora possibile, faccia a faccia con il volto più florido della Cool Britannia e le pose di Liam Gallagher (e magari, prima dello scoccare dell’ora X, assistere all’apertura di band del calibro di Chemical Brothers, Ocean Colour Scene, Manic Street Preachers, Charlatans, Kula Shaker, Cast e Prodigy non troppo valorizzate dalle riprese).

 

“Maybe you’re the same as me” — Le voci

Oasis, Knebworth 1996 è un’opera di elettricità orchestrale di voci. I video dei live sono accompagnati, o meglio guidati, dal parlato fuori campo dei protagonisti del pubblico che rivivono la storia della musica –  “This is history, right here, right now”, per dirla alla Noel – attraverso la loro storia e attraverso le canzoni del cuore della loro band del cuore, quella per cui alla domanda “che cosa regalereste ai vostri idoli?”, qualcuno rispondeva “regalerei anche me stesso”. Dichiarazioni come “Sono fiera di essere loro fan”, “Gli Oasis parlano per noi. Loro sono lì sopra, noi qua ma sono come noi” attivano un effetto di transfert che supera l’ammirazione artistica. Succede quando tra i versi, gli accordi, le pause, le riprese di alcuni brani che hanno rappresentato la colonna sonora di un periodo si intersecano passaggi, tappe e riflessi di chi canta e di chi ascolta. Alla base, un unico comune denominatore: la sincerità. Così con Supersonic ci si elevava allo stato di rockstar, Cigarettes and Alcohol era la fotografia di anni di disoccupazione e tormenti affogati nelle nell’amicizia e nell’eccesso, The Masterplan divenne il manifesto a cogliere le occasioni che l’esistenza riserva come doni, come attimi irripetibili da trascorrere con qualcuno prima che, per la crudeltà del destino, se ne vada per sempre. “È stata l’ultima giornata che trascorsi per intero con mio fratello. Dopo pochi mesi se in andò a causa di un tumore”, confessa una delle fan coinvolte nel progetto. “Alcune ore prima del concerto, scoprii che la mia ragazza era incinta. Sarebbe cambiato tutto. Con la pioggia che scese durante I Am the Warlus venne lavata via anche la mia giovinezza. Non lo dimenticherò mai”, è l’istantanea di un altro speaker, dietro le quinte.

 

 

E poi le voci che animarono il palco. Liam Gallagher che poteva permettersi qualsiasi cosa, avvicinandosi al microfono, digrignando i denti, allungando foneticamente i vocaboli, incrociando le mani dietro la schiena. Lo stato di grazia del miglior frontman del momento. Un timbro nitido, acido e possente che rispecchiava una classe, la working class settentrionale, e un genere, l’indie, che, con loro, diventò a tutti gli effetti mainstream. “Tutto cambiò dopo Live Forever”, ammette Noel Gallagher, autore del singolo spartiacque. Lui, cinque corde, voce e soprattutto penna della band, capace di miracoli – “Scrissi Wonderwall e Don’t Look Back in Anger in una settimana” e che, con quegli stessi capolavori, fece cantare 250.000 anime che si sentivano a casa in quelle melodie, con la cieca fiducia che la modifica del testo fosse il sigillo di un patto rischioso ma autentico: “But please don’t put your life in the hands of a rock and roll band / Who’ll never throw it all away”.

Provando a sorvolare sul peso specifico pressoché inesistente riservato nel film al bassista Paul Guigsy McGuigan e al batterista Alan White, oltre alle suddette voci, risuonano anche echi di personaggi altisonanti, presenti ed assenti. Richard Ashcroft, “l’uomo senza ombra”, a cui venne dedicata una Cast No Shadow da brividi (ed un “Ripigliati cazzo!”). Il chitarrista Bonehead che sottolinea quanto lo avesse stupito assistere ad un sussulto tangibile di Liam su “Now that you’re mine” di Slide Away (scena che mi ha incollato alla poltrona del cinema). John Squire, chitarrista degli Stones Roses, che salì sul palco per Champagne Supernova, quei 7 minuti della tracklist che tutti aspettavano. Un iconico passaggio di testimone – “Il testimone ce lo eravamo già preso nel ’94″, puntualizza Noel –  ed una scia colorata di azzurro che nacque dagli occhi del cantante per accarezzare le lacrime del pubblico. Quei 7 minuti, quell’intro-mantra che, un paio di sere fa, durante la proiezione, tutta la sala attendeva. Atterrita, impaziente ed emozionata.

 

“You’re gonna be the one that saves me and after all” — Wonderwall 

Trai i racconti che si intersecano nel documentario, uno si distingue per lo spazio in cui vennero vissuti i concerti. È quello di un fan che, il 10 e 11 agosto 1996, chiese ai genitori di non essere disturbato, in quella determinata fascia oraria. Nella sua camera, delle audiocassette vergini, pronte per registrare il live dalla radio che lo trasmise in esclusiva. I tre secondi del “cambio lato”, misurati con il cronometro. “Ho portato con me quei nastri per anni, conoscevo a memoria ogni battuta di Liam”. La sua figura malinconica, ma comunque appagata, appoggiata alla colonna vintage di uno stereo ha racchiuso una delle immagini da Wonderwall, da muro delle meraviglie, al cui contatto tutto sembra possibile. Una superficie di sicurezza che svetta fino al cielo. Può essere la spalla di un amico che canta a squarciagola lì vicino, il compagno di avventure incontrato qualche ora prima dell’apertura dei tornelli, la donna che si abbraccia come se quel brano fosse stato scritto per lei. Oasis, Knebworth 1996 si chiude, inevitabilmente, con Wonderwall, una canzone destinata a diventare un inno al di là delle generazioni. Un inno al potere salvifico della condivisione, della musica e dell’amore. E dell’amore per la musica, quello che supera le differenze, le distanze, le difficoltà. Quello che unisce “after all”, nonostante tutto. Quella matrice di cui oggi, soprattutto nel nostro paese, si sente così tanto la mancanza. Quel motore che non ha bisogno di alcun filtro (neppure di quelli degli smartphone, per fortuna assenti all’epoca). Non necessita di alcun compromesso per rendere realizzabile l’impensabile, per sgranare gli occhi di fronte a Liam Gallagher che scende dal palco e regala il tamburello proprio a te, perché te lo aveva promesso. È ciò che fa le storie. È ciò che fa la storia. 

 

Laura Faccenda

Altra Fedeltà

Nick Hornby, negli anni novanta, riuscì a raccontare le sue passioni usando strumenti non convenzionali: il suo essere incredibilmente british, con tutti i pro e contro che questo comporta, l’ammettere candidamente le proprie debolezze, manie, fobie, idiosincrasie e anzi, farne materia per libri. Ci univano già un paio di elementi: l’amore per l’Arsenal — in quegli anni il calcio inglese era ammantato da un’aura di follia e romanticismo, e i miei Gunners erano fisici, scarsi e picchiatori, perfettamente rappresentati da capitan Tony Adams, un uomo che ha vestito di biancorosso per tutta la vita, lanciando più palloni in tribuna che in campo, anche in riscaldamento… ma questa è un’altra storia! — e ci univa l’amore per la musica e il tentativo di navigare in quel mare magnum dandosi un’idea, anche falsa, di ordine, di possesso. Fu lui che introdusse nella mia vita l’orrida idea di stilare classifiche.

Era il 1995, avevo divorato, qualche anno prima, Febbre a 90′, e adesso avevo per le mani Alta Fedeltà. 

High Fidelity è da poco anche una serie TV, dicono più vicina al testo originale rispetto al film con John Cusack del 2000 e spero arrivi fino a noi, quanto prima.
Nel libro, il protagonista Rob Fleming stila classifiche di cinque posizioni su tutto lo scibile di cui ha avuto esperienza, nel tentativo di rimettere ordine nella sua vita.
Ecco. L’altra sera, mentre scrivevo della colonna sonora di Singles, mi sono trovato in difficoltà nella scelta della canzone da aggiungere in coda alle poche righe di accompagnamento. Quel disco ha almeno cinque tracce che sfiorano la sacralità.
Il pensiero è allora andato a quegli anni e a quelle colonne sonore e ho scoperto di avere anche io una classifica delle migliori colonne sonore dei film degli anni novanta, a insindacabile (seppur sempre opinabile) giudizio del sottoscritto.

Non mi scuso per omissioni o per esclusioni, questo è.

 

10. Natural Born Killers (Oliver Stone, 1994)

Nine Inch Nails su tutti, ma con incursioni anche degli attori: Tommy Lee Jones, Robert Downey Jr., Juliette Lewis, che ai tempi cantava davvero, con tanto di gruppo ed EP.
Colonna sonora schizofrenica, per un film che è un pugno nello stomaco, che è la quintessenza della spettacolarizzazione della violenza, fuori e dentro la pellicola. Il pezzo in cui Bombtrack dei RATM sale a far vibrare i nostri divani è l’inizio della fuga di Mickey dal carcere. Il pezzo parte subito dopo la Danza della fata confetto di Čajkovskij. Contrasti a pioggia, anche a gamba tesa, come il basso di Timothy Commerford che polverizza la fatina mentre Woody Harrelson inizia il massacro finale. 

 

 

 

9. Velvet Goldmine (Todd Haynes, 1998)

È la storia e la caduta di un’icona del glam rock e il film stesso è la celebrazione del mito di quegli anni, a partire dalla swinging London fino al crollo del personaggio/cantante. Ispiratissimo a quel Bowie di Ziggy Stardust, il titolo stesso è riferimento diretto a una canzone del Duca Bianco. Il film in sé non è pezzo da cineteca, ma suona dannatamente bene, sembra una festa di compleanno per celebrare un’epoca: venne creato un supergruppo per realizzare parte della colonna sonora, con membri degli Stooges, dei Sonic Youth, dei Gumball, dei Minutemen, dei Mudhoney. I Placebo reinterpretano 20th Century Boy dei T-Rex, mentre Thom Yorke da voce al gruppo Venus in Furs per celebrare i Roxy Music.
Insomma, Todd Haynes ci regala un finto biopic pochi anni prima del suo capolavoro Io non sono qui, dedicato a(i) Bob Dylan. 

 

 

 

8. Judgment Night (Stephen Hopkins, 1993)

La quota tamarra me la gioco all’ottavo posto. Il film pare un pretesto per avere una colonna sonora che è un monumento al cafone che vive in noi.
Accadde che a vari gruppi hip-hop vennero affiancate band metal/grunge/rock.
Erano anni di crossover volontario e sperimentale, ma qui tocchiamo vette altissime. Altro che ananas sulla pizza. Un paio di esempi: Sonic Youth conditi con Cypress Hill, Helmet e House of Pain, Faith No More avec Boo-Yaa T.R.I.B.E. Nacque quella notte il Nu Metal? Ai posteri l’ardua sentenza. 
Potente. Geniale. 

 

 

 

7. Io ballo da sola (Bernardo Bertolucci, 1996)

Qui c’è stata battaglia. Avevo un clamoroso Empire Records, uno scontato Reality Bites, alla fine vince l’underdog. Qui è la bellezza tra immagine e colonna sonora a portare a casa il settimo posto. Liv Tyler era da arrossire, la colonna sonora, molto femminile, portava nelle cuffie del mio walkman Hooverphonic, Hole, Portishead, Liz Phair.
Riti di passaggio. 

 

 

 

6. Romeo + Juliet (Baz Luhrmann, 1996)

Premi a pioggia per un’opera geniale di un regista che adoro. Colui che pochi anni dopo avrebbe dato vita a quel capolavoro che è Moulin Rouge! recupera qui il testo (quasi) originale di Mr. Shakespeare e lo aggiorna, o meglio, ci mostra come il bardo fosse un genio senza limiti di tempo o di luogo. Verona diventa Verona Beach e da lì in poi è puro spettacolo.
Radiohead, The Cardigans, Garbage, ma soprattutto un Mercuzio da applausi.

 

 

 

5. Trainspotting (Danny Boyle, 1996)

Altro giro, altro regista di livello altissimo, altra colonna sonora da record (mamma mia il 1996!).
Presentato fuori concorso al Festival di Cannes, nello stesso anno di Fargo dei Cohen e di Crash di Cronenberg, fu un immediato successo. Diamo per scontata la visione, è programma istituzionale.
Iggy Pop, New Order, Primal Scream, Blur, Lou Reed, e soprattutto quella Born Slippy degli Underworld che diventò una cosa sola con le immagini finali del film. Generazionale? Di sicuro è diventato un cult.
But, that’s gonna change – I’m going to change. This is the last of that sort of thing. Now I’m cleaning up and I’m moving on, going straight and choosing life”.

 

 

 

4. Singles (Cameron Crowe, 1992)

Un film che è una colonna sonora.  Un tributo a Seattle a e al suo sound, alla nascente scena grunge, a una generazione di musicisti che negli anni novanta hanno segnato un solco nella storia della musica.
I Pearl Jam e Chris Cornell recitano attivamente nel film, sono le spalle di Matt Dillon, aspirante cantante e moderno bohémien.
Nell’elenco degli artisti coinvolti troviamo anche Alice in Chains, Mother Love Bone, Mudhoney, Screaming Trees, The Smashing Pumpkins tra i più noti.
È un manifesto, impossibile escluderlo, anche se, per salire sul podio, serve un quid in più.

 

 

 

3. The Commitments (Alan Parker, 1991)

Lo so. È una debolezza. O forse no.
Ma è una storia di redenzione, di resistenza, di amore per la musica, che ci ricorda di come tutte le periferie del mondo siano uguali e che si può fare Soul and R&B nella periferia di Dublino, allora possiamo spiegarci tutto, da Springsteen ai Fontaines D.C. .
Cito un personaggio, che riassume il concetto di sopra: “Gli Irlandesi sono i più negri d’Europa, i Dublinesi sono i più negri di Irlanda e noi di periferia siamo i più negri di Dublino, quindi ripetete con me ad alta voce: “Sono un negro e me ne vanto!””. È la vittoria di ogni processo di integrazione. È l’abbattimento di ogni differenza, sono i Blues Brothers, ma irlandesi e della working class.
Passo indietro: Alan Parker è un signore che ha donato all’umanità Pink Floyd The Wall,  Birdy – Le ali della libertà e Mississippi Burning.
Passo avanti: Glen Hansard è il chitarrista del gruppo. Quindi The Commitments merita il terzo posto solo per i riccioli di zio Glen. 

 

 

 

2. Pulp Fiction (Quentin Tarantino, 1994)

Ecco, questo Cannes lo vinse.  E non solo: diventò genere, diventò testo sacro, citato, recitato, evocato in tutto il mondo. Personaggi perfetti, maschere geniali, dialoghi scritti in stato di grazia, in cui non esiste neanche una pausa fuori posto. Capolavoro.
E a condire questa meraviglia troviamo una colonna sonora che si intreccia nel film, che diventa strumento narrante e che sostiene e accompagna lo spirito di fondo della storia raccontata. È eclettica, come lo sono i personaggi, è di nicchia, come la cinematografia evocata dal regista, e che, come il genere e il film stesso, invece diventerà mainstream. La surf music che sorregge il tutto sarà il genere più utilizzato dai pubblicitari americani, per vendere…qualunque cosa.
Ah, dimenticavo: il podio consideratelo valido per qualunque film di Tarantino.

 

 

 

1. The Crow (Alex Proyas, 1994)

James O’Barr, autore della graphic novel che è alla base della storia del film, perse la fidanzata in un incidente. Per riuscire a superare il dolore accese lo stereo e prese matite, penne, pennelli e creò The Crow.
Il primo numero è dedicato a Ian Curtis, cantante dei Joy Division, scomparso a 23 anni.
Questo primo posto è alla colonna sonora, non al film. Anche se la pellicola è un’altra icona degli anni novanta, anche se la scomparsa di Brandon Lee durante le riprese ha reso lui e il personaggio ancor più un’icona, anche se.
La musica del film fu un colpo al cuore, perché era perfetta, perché era scritta nella storia stessa di James O’Barr.
The Cure, Stone Temple Pilots, Nine Inch Nails, Rage Against the Machine, Helmet, Pantera, The Jesus and Mary Chain solo per citare I principali.
Album sacro, via il cappello, podio e inno, grazie.

 

 

 

Andrea Riscossa

[Video] Thom Yorke ha suonato “Daily Battles” live per la prima volta a Los Angeles

Il brano è tratto dalla colonna sonora del nuovo film di Edward Norton Motherless Brooklyn.

Il frontman dei Radiohead è attualmente in tournée da solo negli Stati Uniti a sostegno del suo recente album ANIMA, e ha suonato Daily Battles per la prima volta durante il suo concerto al Greek Theater di Los Angeles il 29 ottobre.

Guarda il filmato della performance di seguito.

 

 

La carriera solista di Thom Yorke:

Il 7 luglio 2006 è uscito il suo primo album da solista, The Eraser (anticipato dal singolo Harrowdown Hill), prodotto con la collaborazione di Nigel Godrich, produttore di tutti gli album dei Radiohead da OK Computer. Analyse, secondo singolo estratto, accompagna i titoli di coda del film The Prestige, diretto da Christopher Nolan.

Nel 2009 ha partecipato alla colonna sonora di The Twilight Saga: New Moon con il brano Hearing Damage.

Il 26 settembre 2014 pubblica a sorpresa il secondo album da solista, Tomorrow’s Modern Boxes. Il disco, composto di otto tracce, e prodotto con l’aiuto di Nigel Godrich, viene venduto al costo di 6 dollari attraverso una inedita interfaccia di BitTorrent ed è accompagnato dal video di A Brain in a Bottle. In meno di 24 ore, l’album viene scaricato più di 100.000 volte nel mondo e secondo Yorke l’innovativa modalità di vendita e distribuzione diretta rappresenta una nuova via per i musicisti di ottenere un maggior controllo sulle proprie opere.

Nel 2015 ha composto un brano, Subterranea, per la mostra a Sydney dello storico collaboratore per artwork e copertine dei Radiohead Stanley Donwood, che ha fatto molto parlare di sé. La cosa sorprendente su di esso è la sua durata, di ben 18 giorni, cioè esattamente la durata dell’esposizione, di cui, inoltre, nessuno dei 25.929 minuti è uguale all’altro.

Viene annunciata per il 26 ottobre 2018 l’uscita di Suspiria (Music for the Luca Guadagnino Film) per XL Recordings. L’album contiene 25 brani composti per il film Suspiria di Luca Guadagnino. Il disco è stato anticipato dal singolo Suspirium, premiato come miglior brano originale alla 75esima Mostra del Cinema di Venezia.

A metà Giugno 2019 annuncia il nuovo lavoro solista, iniziandone la promozione stampando e affiggendo alcuni volantini in giro per Milano, contenenti un numero verde e la scritta “Hai perso i tuoi sogni? Non disperare. Qui ad ANIMA abbiamo costruito una Camera dei Sogni. Chiama il numero verde e troveremo i tuoi sogni per te.” O altri con la scritta: “Perché non possiamo ricordare i nostri sogni? È sempre la stessa storia. Notte dopo notte viaggiamo verso terre lontane, meravigliose e insolite. Ma alla mattina facciamo fatica a ricordare i dettagli. O persino i contorni. Ma ora quei giorni sono passati. Qui ad ANIMA abbiamo costruito una camera dei sogni. Chiama il numero verde e i tuoi sogni saranno tuoi da rivivere ancora e ancora.” Chiamando il numero si poteva ascoltare in anteprima la traccia. Ha inoltre realizzato un cortometraggio diretto da Paul Thomas Anderson e prodotto da Netflix, il cui trailer è stato pubblicato su YouTube il 20 Giugno 2019.

IRIS: A Space Opera by Justice

IRIS: A Space Opera by Justice – è questo il titolo dell’esordio sul grande schermo del duo francese composto da Gaspard Augè e Xavier de Rosnay, adattamento dello spettacolo dal vivo Woman Worldwide da parte dei due registi Andrè Chemetoff e Armand Beraud.

I Justice non hanno bisogno di presentazioni: sulle scene dal 2005 hanno composto moltissime canzoni di grande successo che tutti più o meno consapevolmente abbiamo ballato almeno una volta.

Il film, diviso in due parti, inizia come un vero e proprio documentario dove Gaspard e Xavier spiegano la decisione di andare controcorrente: in un mondo musicale, infatti,  dove gli artisti cercano sempre di più il contatto con il pubblico, loro lo eliminano completamente dando una nuova dimensione al loro live. 

 

Cover 0

 

Nella prima parte i due protagonisti spiegano il perché di alcune scelte, raccontando la difficoltà della realizzazione alternandosi alle voci dei due registi e di alcuni addetti ai lavori, tra cui il vero protagonista di questo film, Vincent Lerisson, il tecnico luci che ha seguito tutto il loro Woman World Tour e che a tutti gli effetti potrebbe essere considerato il terzo membro della band.

Ma perché A space Opera?

Il film è concepito come un’esperienza sensoriale, con incastri di immagini perfetti: alle immagini del live si alternano quelle del cosmo, con pianeti e costellazioni che creano una vera opera d’arte.

«Dovrebbe essere proiettato su una cupola mentre uno sdraiato sull’erba lo guarda.»

 

Cover 3

 

Safe and Sound dà inizio al live. Le atmosfere del film sono decisamente anni ’80, le luci perfette di Vincent danzano attorno al duo francese creando veri paesaggi fatti di geometrie perfette e colori, tutto molto ipnotico.

I due DJ, grazie alla superficie riflettente del pavimento, sembrano sospesi nello spazio, le luci che rimbalzano creano distorsioni visive che normalmente avrebbero bisogno di effetti di postproduzione, ma qui è tutto in presa diretta.

Le inquadrature decentrate e le carrellate creano dinamismo e non fanno assolutamente sentire la mancanza del pubblico. 

 

Cover 2

 

Genesis, Stress, Love S.O.S., We Are Your Friends: i Justice lanciano bombe in successione. Heavy Metal è l’episodio che ho apprezzato di più, dove le luci stroboscopie diventano le protagoniste, sicuramente più nel loro stile.

Una traccia dietro l’altra, in un mix che ti prende, ti mescola e ti lancia a forte velocità in un tunnel fatto di luce.

Tuttavia, terminata la visione del film, sono uscito dalla multisala in cui è stato proiettato convinto che il contesto migliore per apprezzarlo e rendere giustizia alla musica della band sarebbe di guardarlo proiettato non su una cupola, ma ballando con un cocktail in mano ed il naso all’in su con lo sguardo perso nel cosmo.

 

Grazie a Spin Go

Testo di Luca Ortolani