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Tag: Live

Declan McKenna @ Circolo Magnolia

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• Declan McKenna •

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Circolo Magnolia (Milano) // 05 Luglio 2022

 

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Achille Lauro @ Ippodromo Snai San Siro

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• Achille Lauro •

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Ippodromo Snai San Siro (Milano) // 05 Luglio 2022

 

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Roskilde Festival 2022

Da dove iniziare a parlare del Roskilde Festival, istituzione danese dal 1971, quest’anno alla sua 50ª edizione (posticipata dal 2020)?

Partiamo dall’inizio: è l’una di pomeriggio di mercoledì 29 Giugno, fa un caldo terribile per la Danimarca, sono schiacciata da 12 kg di zaino sulle spalle pieno di macchine fotografiche e obiettivi, il computer, annessi e connessi, ho due braccialetti al polso che mi daranno accesso al festival e ai palchi e sto camminando in salita.

Ma chi me lo sta facendo fare?!

E poi, inizia a vedersi un pinnacolo arancione in mezzo agli alberi, sto arrivando da dietro l’iconico tendone arancio dell’Orange Stage, simbolo del festival dal 1978 quando l’organizzazione lo comprò di seconda mano da un tour dei Rolling Stones, e mi rendo conto di starmi avviando verso una cosa forse più grande di me, un’emozione intensa mi prende alla gola sapendo chi è passato su quel palco e tristemente la tragedia che ci si è consumata davanti. È difficile spiegare a parole la sensazione allo stesso tempo di timore reverenziale dettata da un posto che mi ha sempre fatto molta paura (nel 2000 avevo circa l’età dei ragazzi che sono rimasti schiacciati dalla folla, il pensiero va sempre lì: e se fosse capitato a me?) e di pura gioia e senso di appartenenza. Come due poli uguali di una calamita che generano due forze tanto opposte quanto potenti, una paura inconscia e il richiamo affascinante di un’esperienza nuova ancora tutta da vivere, è bastato un passo verso le cancellate per sbilanciare questo stallo emotivo e farmi attrarre dal magnetismo che un evento del genere esercita su chi, come me, è affamato di musica.

Dopo vari tentativi e km camminati a vuoto per trovare il backstage village, è stato il momento di andare a perlustrare il festival prima dell’apertura al pubblico, letteralmente la quiete prima della tempesta. L’area dove si svolge il programma musicale del festival è grande, circondata da aree altrettanto grandi adibite a campeggio, piccoli villaggi con altri palchi, aree ricreative, installazioni artistiche e altro ancora, tant’è che nella settimana del festival la città di Roskilde da decima, diventa la terza più popolosa del Paese.

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È surreale passeggiare in questi grandi spazi, sfilare davanti ai palchi ancora silenziosi e immaginare quanto sarà calpestato il terreno tra poche ore.

A quanto pare c’è un rituale che assomiglia più ad una spedizione di caccia grossa che ad un festival: i fotografi si vestono con delle pettorine ben visibili, si vanno a posizionare in punti strategici, possibilmente al riparo di qualcosa per non essere travolti, e cercano di catturare questa specie di migrazione di gnu hippy. Allo scoccare delle cinque in punto del mercoledì pomeriggio, si aprono i cancelli che separano i campeggi dall’area del festival e c’è “la grande corsa” per accaparrarsi un posto in prima fila al proprio palco preferito.

Il mercoledì è una giornata breve ma intensa, si apre con Fontaines D.C. e in poche ore si alternano sui palchi nomi come Robert Plant, Post Malone e Biffy Clyro. Il mio Tour de Force, in parallelo al Tour de France che si svolge su suolo danese in questi stessi giorni, inizia quindi con un giro di ricognizione: cerco di capire come muovermi tra un palco e l’altro, i percorsi più brevi, gli ingressi ai pit, le posizioni strategiche e quali obiettivi montare sulle macchine.

Alla fine della prima giornata, dopo solo sei concerti, i piedi bruciano come se avessi camminato sui carboni ardenti, ma sono solo 13 km in scarpe da tennis: come faccio ad arrivare a sabato?

Qualche ora di sonno, un’occhiata veloce alla foto e giovedì ricomincia la rumba con un programma ancora più fitto di quello del giorno prima. Oggi tappa crono, nel senso che ho i minuti contati: dalle 16:00 in poi ad ogni scoccare dell’ora un nuovo concerto da fotografare, spostarsi da un palco all’altro attraverso fiumi di gente e birra, ma nonostante tutto riesco a vedere un pezzo di redivivo indie rock direttamente dal mio amato Pacific Northwest, Modest Mouse, e a seguire una reminiscenza adolescenziale, le TLC, per poi saltare da Jimmy Eat World e tornare ad una musica più pacata ma non meno energica con The Whitest Boy Alive, forse uno dei gruppi che più di tutti stuzzicavano il mio interesse. Pausa. Ora di tirare fiato prima della reginetta pop Dua Lipa sull’Orange Stage ma soprattutto, molto più intrigante per me, la dolcissima Phoebe Bridgers con la sua banda di scheletrini a suonare all’Avalon. Atmosfera, delicatezza, un tocco di malinconia intimista molto più nelle mie corde delle ballerine scosciate viste poco prima.

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Quattro giorni di festival sono lunghissimi, come un weekend con tre venerdì, ma il venerdì quello vero arriva e porta con sè The Smile, il neonato progetto di Thom Yorke e Jonny Greenwood presto anche in Italia, e Arlo Parks, energica poesia R&B. Venerdì è la tappa di montagna, come ben rappresentato dalla scenografia che Tyler, the Creator fa installare sull’Orange Stage, e lui così tanto nel ruolo dello stambecco che giustamente si fa fotografare solo da lontanissimo. Venerdì porta anche la pioggia, un paio di scroscioni brevi ma intensi che purtroppo liberano nell’aria quegli odori acri e fermentati tipici di festival, sopiti i giorni precedenti dal terreno secco e assetato di birra (più o meno processata dal corpo umano). Un festival non può considerarsi tale se non ti prendi almeno due gocce d’acqua: è chiaramente indicato nello statuto dei festival nordici, capitolo “avversità inutili per il gusto di dar fastidio”. Adesso, quindi, siamo in regola anche con questo.

Sabato: arriva il Tour de France, per davvero, che chiude le strade dalle sette di mattina e mi obbliga ad una levataccia se voglio essere presente al rituale giornaliero della distribuzione dei pass per l’Orange Stage, che oggi ha il programma più ciccio dei quattro giorni: St. Vincent, Haim e The Strokes.

Ma come dice il detto, il mattino ha l’oro in bocca e in particolare a queste latitudini, dove già alle 5:30 è giorno fatto da un pezzo, mi dà l’occasione di vedere un altro aspetto del festival altrimenti non celebrato abbastanza: il lavoro incredibile che fa il personale – esclusivamente volontario – per rendere possibile il tutto. Per la rubrica Non Tutti Sanno Che, infatti, il Roskilde Festival è un evento non-profit; si basa ogni anno sul lavoro di circa 30,000 volontari che montano, smontano, puliscono, gestiscono, sorvegliano e aiutano e chi più ne ha più ne metta in modo che, al netto delle spese vive, il ricavato della settimana vada a supporto di iniziative umanitarie e culturali a beneficio di bambini e giovani.

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Tornando a noi e alla mia passeggiata tra prati che venivano ripuliti dall’immondizia del giorno prima, strade spazzate e facce assonnate, mi ritrovo a far colazione con kanelsnurrer appena sfornate (ci sarebbe da scrivere un articolo solo sulla varietà e la bontà dell’offerta culinaria) ad un tavolo condiviso con tanti altri mattineri come me, baciata dal sole mentre guardo il tendone dell’Avalon vuoto e silenzioso, ignaro – ed io con lui – di quello che avrebbe visto da lì a poche ore durante il live indemoniato degli Idles. 

La giornata scorre piuttosto veloce, tra Big Thief e St. Vincent – da oggi in poi anche detta Barbie Rockstar, grazie ad una performance impostata e plasticosa – e finalmente arriva il momento: The Strokes come ultimo headliner. Aspettative altissime, soprattutto memore del live sorprendente al Primavera Sound del 2015, ma… il “momento” si è fatto attendere ben mezz’ora – cosa che ai festival proprio non si fa – e forse visto il disastro che si è svolto sul palco forse era meglio che il momento non arrivasse mai. Julian Casablancas è stato a dir poco imbarazzante nella sua performance, stonato, fuori tempo e apertamente senza voglia alcuna di intrattenere le decine di migliaia di persone che si aspettavano di chiudere il festival con il nome più atteso dei quattro giorni.
“Siamo qui, dobbiamo ammazzare il tempo” – non esattamente la dichiarazione di un frontman carismatico; il resto del gruppo nel frattempo faceva il suo sporco lavoro, ma senza particolare coinvolgimento nè nei confronti del suo cantante nè nei confronti degli astanti. Uno spettacolo così misero e un meltdown così pesante non lo vedevo da anni, davvero un peccato e un po’ una vergogna che sia successo nel momento più alto di quello che altrimenti sarebbe stato un festival delizioso.

Lasciandomi alle spalle una Last Nite che da lontano sembrava vagamente meno massacrata di Reptilia, ho salutato il festival grande grosso e che mi faceva paura solo pochi giorni prima con un sentimento di affetto e gratitudine, promettendogli di tornare ancora. Qui lo chiamano orange feeling e adesso capisco a cosa si riferiscono.

Francesca Garattoni

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• Day 1 •

• Day 2 •

• Day 3 •

• Day 4 •

Cigarettes After Sex @ Sequoie Music Park

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• Cigarettes After Sex •

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Parco delle Caserme Rosse (Bologna) // 29 Giugno 2022

 

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Foto: Luca Ortolani

 

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Pixies @ Roma Summer Fest 2022

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• Pixies •

+

Gomma

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R O M A  S U M M E R  F E S T

Auditorium Parco Della Musica (Roma) // 27 Giugno 2022

 

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GOMMA

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Rise Against @ Circolo Magnolia

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• Rise Against •

+

Trash Boat

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Circolo Magnolia (Milano) // 27 Giugno 2022

 

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TRASH BOAT

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Myss Keta @ Oltre Festival

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• Myss Keta •

+

Big Mama

Lahasna

Gente

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Parco delle Caserme Rosse (Bologna) // 25 Giugno 2022

 

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Foto: Lucia Adele Nanni
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BIG MAMA + LAHASNA + GENTE

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Pearl Jam @ Autodromo Imola

The waiting drove me mad
you’re finally here and I’m a mess

 

Tier I

Tutto sta nei primi dieci secondi di concerto.

“L’attesa mi ha fatto impazzire,
Finalmente sei qui e io sono un casino”

Due anni di attesa per tantissimi presenti, ben quattro dall’ultima apparizione in Italia dei Pearl Jam. Alla fine ci siamo ritrovati, un po’ rotti, un po’ incerottati, un po’ stanchi.
Una setlist corta, farcita di pezzi scontati, eseguita in una location che fonti interne e vicine ai nostri hanno definito “worst location ever”. Ever, sia messo agli atti.
Loro sono ormai anziani, Vedder non si appende più neanche agli stipiti delle porte, e ormai riconosciamo il pezzo che sta per essere eseguito dalle chitarre che vengono distribuite.
Il pit, che ricopriva la stessa superficie della Val d’Aosta, non aveva pavimentazione. Abbiamo visto il concerto su tacchi da sei. Docce chiuse alle diciotto, birra a otto euro, oppure due token, ultimo ritrovato per evitare di usare una carta come, che so, due giorni prima a Zurigo.
Vedder ha interrotto lo show almeno quattro volte, salvando più vite di David Hasselhoff in Baywatch, e giuro, non ho mai visto tanta gente andare per terra a un concerto. Un ritmo assurdo, con un lavoro incredibile della security. 

Il deflusso è stato completamente autogestito, abbiamo calcolato la rotta seguendo l’Orsa Maggiore vagando come zombie in una puntata automobilistica di The Walking Dead. E siamo arrivati ai comodi parcheggi, in provincia di Modena.

Sì, siamo messi malino. Anzi, male. Ho sentito mugugni preventivi, lamentele pretestuose, critiche inamovibili senza neanche i White Reaper sul palco.
Eppure siamo lì.
E quando Eddie ci urla che l’attesa ci ha reso pazzi, mi si dipinge un sorriso sul volto. Centro, Mr. Edward Louis Severson III, centro perfetto.
Fa tutto schifo, siamo un po’ impresentabili anche noi, tu, poi.
Però siamo tutti qui, in sessantamila, a cantarci in faccia il nostro amore.

Take my hand, not my picture.
Ecco. Dio quanto siete mancati. 

 

Tier II


If man is 5, then the devil is 6, and if the devil is 6, then God is 7
(
Pixies, Monkeys Gone to Heaven)

 

La vera notizia è che sul palco, a partire dalle 18.00 è anche successo qualcosa.
I White Reaper hanno dato il via allo show, e mentre a Zurigo avevano patito un mixaggio fatto al buio, temo invece che ieri la colpa fosse proprio loro. Sia chiaro, de gustibus, ma stanno ai Pearl Jam come American Pie sta a Goodfellas.
Per fortuna i Pixies sono i gran ciambellani dell’indie, IL gruppo che anche Bartezzaghi usa per la definizione di “seminale”. Tanto seminali e tanto degni di rispetto che a destra del palco, primo tra i primi del pit, c’era un certo Eddie Vedder a ciondolar la testa.
Guardare, ascoltare, imparare. Come tanti anni fa.
E i nostri?
La setlist è figlia della location, e del numero folle di presenti. Ed è giusto così.
Sedici pezzi direttamente dagli anni novanta, quasi tutti gli inni presenti. Una scaletta ad alto tasso di partecipazione, come è giusto che sia per una festa di massa.
E così, oltra alla già citata Corduroy, si susseguono senza sosta Even Flow, Why Go ed Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town, pezzo in cui Vedder, all’attacco iniziale, spara un basso così basso e una nota così precisa che mi ha curato il male alle caviglie, di colpo.
E poi arriva la doppietta da Gigaton, Dance of the Clairvoyant e Quick Escape. Funzionano, che dire di più. E movimentano la setlist, che altrimenti rischia di diventare un omaggio alla nostalgia. I Pearl Jam, da sempre in cinque, sei con Boom Gaspar, ora sono sette con Klinghoffer, che, nascosto e nelle retrovie, gioca a fare l’artigiano tra chitarre, percussioni e cori. C’è e si sente, in alcuni pezzi.
Eddie racconta delle sue gite in auto, anni fa, mi illude che suoni Untitled e poi invece attacca MFC.
Jeremy fa tremare l’autodromo, mentre Eddie commuove tutti raccogliendo la richiesta di un ragazzo italiano che, attraverso pearljamonline, aveva chiesto di suonare Come Back in onore del fratello recentemente mancato.
Direi che sì, era lì con noi.
Eddie sfonda la quota-fanculo della serata con Save You, mentre il duo Wishlist – Do The Evolution fa perdere la voce al mio vicino, che, per la cronaca, non aveva centrato una nota neanche per errore. Grazie ragazzi, missione compiuta.
Seven O’Clock perde un po’ di potenza dal vivo, tende al liquido nel finale.
Daughter è sacra, Given to Fly anche. Mi rallegro, gioisco e ringalluzzisco con Superblood Wolfmoon, dove realizzo il sogno proibito di piazzare ravanèi remulass, barbabietole e spinass nel ritornello. Sogghigno. Sardonico.
Lukin e Porch a seguire sono la scarica finale prima della pausa.
L’encore è all’insegna del “suoniamole proprio tutte”, così i nostri inanellano State of Love and Trust, Black, Better Man, Alive, Yellow Ledbetter. Da svenimento.
Luci, saluti, palco vuoto.
Alla prossima.

 

Tier III

Freedom is a Verb

Il concerto però non è fatto solo di canzoni. Eddie parla, e lo fa spesso.
Insomma, conta anche cosa accade quando le chitarre sono ferme.
Aborto. Ricordi. Sogni e realtà. Morte e fratellanza. I Pearl Jam sono militanza, sono azione aldilà dei dischi e dei concerti. Chi canta sotto palco è giusto che si ricordi, ogni volta che compra un biglietto, che sta anche premiando una linea, delle idee e una visione. Non sono solo canzonette. 

Eddie Vedder non sa leggere, ma sa comunicare.
E i Pearl Jam sono una macchina perfetta, che si muove con esperienza e sicurezza.
E poi c’è Mike McCready.
Mike McCready al secondo pezzo suonava la chitarra con la bocca.
Al-secondo-pezzo.
Mike McCready ha maltrattato così tanto la chitarra durante l’assolo di Black che Eddie Vedder pare fosse pronto a interrompere il concerto per salvare anche lei.
Mike McCready in assolo è metafisica applicata.  

È sempre più una liturgia, sempre più catarsi collettiva, sempre più condivisione. Ieri sera, mentre Eddie parlava, mi è balenato un desidero segretissimo: vorrei un Vedder on Broadway. Come Springsteen. Magari tra vent’anni, quando DAVVERO non potrà più reggere certi ritmi, certe note, ma avrà dalla sua la saggezza e un pezzo di ricetta per la redenzione da realizzare con una chitarra in mano.
Mike no, lui ascenderà al cielo durante un assolo, perché qualunque dio alberghi l’alto dei cieli si merita un po’ delle sue chitarre. 

 

Tier IV

We Belong Togheter

Eddie Vedder confonde sogno con realtà.
“È reale?” Ci chiede.
“Sono qui? Voi ci siete?”
Eravamo in sessantamila a rispondere di sì.
Dopo due anni di attesa, in sessantamila a sopportare il caldo e la sete.
Eravamo così tanti che anche loro, lassù, si sono lasciati andare. E per quanto sappiano seguire dei binari sicuri, ho visto, come a Zurigo, un’urgenza e una voglia contagiose. Proporzionale al numero di persone davanti a loro. Ieri c’era emozione sul palco, Eddie lo ha ammesso, o almeno i peli delle sue braccia hanno parlato per lui.
E allora forse, aldilà delle polemiche, delle setlist, delle durate, forse basterebbe saper godere di questo. Dell’ appartenenza. Il che, per altro, risponde alla semplice domanda: alla fine, perchè sei qui?
Io sono tornato a rinnovare un legame.
Anche se sti bolliti non mi hanno suonato Rearviewmirror.

E questa storia finisce mentre dondolo marciando sulla pista dell’autodromo, mentre usciamo con lentezza.
Sorrido, perché nella tasca destra mi sono avanzati dei token, come da previsione. Ma nella sinistra sento un paio dei biglietti sgualciti, che sono già diventati storie da raccontare e ricordi da conservare. 

 

Andrea Riscossa

 

SETLIST

Corduroy
Even Flow
Why Go
Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town
Dance of the Clairvoyants
Quick Escape
MFC
Jeremy
Come Back
Save You
Wishlist
Do the Evolution
Seven O’Clock
Daughter
Given to Fly
Superblood Wolfmoon
Lukin
Porch

State of Love and Trust
Black
Better Man
Alive

Yellow Ledbetter

Anderson Paak @ La Prima Estate

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• Anderson Paak •

+

Frah Quintale

Joan Thiele

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LA PRIMA ESTATE

Lido Di Camaiore (Lucca) // 24 Giugno 2022

 

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Foto: Letizia Mugri

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FRAH QUINTALE

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JOAN THIELE

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Chet Faker @ Sequoie Music Park

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• Chet Faker •

+

Godblesscomputers

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Parco delle Caserme Rosse (Bologna) // 23 Giugno 2022

 

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Foto: Siddharta Mancini
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GODBLESSCOMPUTERS

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Pearl Jam @ Hallenstadion

Scrivo appunti sul telefono.
Che tanto poi non riesco mai a tradurre,
vocaboli a caso, riferimenti che sfumano nel giro di tre ore.
Mancano due anni e cinque minuti.

Ascolto discorsi insensati alle mie spalle.
Controllo i compagni di avventura.
Osservo chi mi sta vicino, almeno adesso.
So che la geografia del pit è instabile.
Mancano due anni e un minuto. 

Il palco adesso è vuoto.
Io non mi commuoverò.
No.
Quella è la testa di un batterista.
Mancano due anni e un Matt Cameron intero.

Dissolvenza.
bella lunga, però.

Sono a pochi metri dal palco. Mentre sento una nota, giusta o sbagliata che sia poco importa, uscire dal mio petto e unirsi al coro dell’intro di Release, al mio fianco un padre solleva la figlia dodicenne sopra di sé. 

Oh, dear Dad, can you see me now?

Lei appoggia i piedi sopra le spalle e sale con la testa a tre metri.

I am myself, like you somehow

Le mani lungo i fianchi. Immobile. Una statua greca.

I’ll ride the wave where it takes me

È davanti a Eddie, alla stessa altezza del palco. 

I’ll hold the pain, release me

Da sotto la scena ha qualcosa di surreale. E di bellissimo. La gente sotto di lei tende le mani, a proteggere un’eventuale caduta. Sembra una processione spontanea. Santa bambina del pit di Zurigo.
Termina il primo pezzo, lei scende, alle nostre spalle arriva la security che con gentilezza chiede di non farlo mai più. Ma proprio mai, in generale, per sempre.
Grazie
A lei, si figuri
Buon concerto.
Buon lavoro, e scusi. 

E così è iniziato il concerto ieri sera, all’Hallenstadion di Zurigo.

E poi.

Corduroy.
Immortality.
Present Tense
In Hiding
Crazy Mary 
Smile

Cosa accade quando una setlist sembra diventare un dialogo personale tra te e la band? Cosa succede quando senti, anche dopo tanti anni, che quelle parole hanno un nuovo peso, un nuovo colore, una nuova prospettiva?
E allora eccola. Parte dalle gambe, questa volta. E sale. Prende la spina dorsale, alza i peli delle braccia, centra la nuca. Scodinzolerei, potendo. E invece mi ritrovo a commuovermi. Senza pensieri a figlia, podi olimpici o Buffa che legge me. Semplicemente sbraco, passatemi il termine. Perché me lo sono concesso, ho stretto pugni e chiappe per due anni, per essere qua, ora, e adesso mi prendo questi venti secondi di debolezza e me li godo pure. Poi li condivido, perché a Imola, e ovunque sarete, se dovesse capitare anche a voi, sappiate che è parte dello show. Sta nel biglietto. Godetevelo.
Nella setlist c’è tutto. Un mosaico di vita e di note, di anni, di viaggi in auto di notte a urlare come fossi a due metri dal palco. Ogni concerto dei Pearl Jam è un nuovo segnalibro, serve a mettere un punto a un capitolo, mentre cerchi il titolo per quello successivo. 

Dissolvenza.

Colui che nel 1992 mi mise in mano una copia di Core degli Stone Temple Pilots, ieri sera mi ha passato, a fine concerto, la scaletta della serata. L’evento conferma la regola che chi regala musica ha capito quasi tutto di come si sta al mondo con decoro e saggezza.
La setlist in questione, se fosse mai stata eseguita così come scritta, sarebbe stata epocale. E invece ha avuto buchi, cali di tensione e di densità. E meno male, perché ho buone ragioni per tornare là sotto, tutte le volte che potrò. E intanto si è aperto il dibattito interno se una Black valga una State of Love and Trust + una Rivercross.
Caricatevi di speranza, oh voi che entrate domani a Imola. Intanto io ieri ho visto cose che voi umani…

Ho visto Mike di nuovo appeso alle sue note, immobile, occhi chiusi sul palco.
Ho visto Boom e Mike giocare in una sfida infinita sulla coda di Crazy Mary .
Sono quasi certo che Stone mi abbia sorriso. Proprio a me. Mi ha detto che regge Eddie da troppi anni, di stare tranquillo, sa come tenere insieme la baracca.
Rideva, Jeff.
Rideva anche Matt. Boom cazzo ve lo dico a fare, è la versione felice di Babbo Natale.
C’era un Josh anche, ieri sera. Che si sentiva, seminascosto. Spero si veda anche, in futuro, ma comprendo le dinamiche di spogliatoio.
Avevano fame i ragazzi. Avevano fame di palco, di cori, di suonare. Avevano voglia di essere nuovamente lassù, li ho visti divertiti, felici, sereni. 

Dissolvenza. 

È stato un gesto, questa mattina, a farmi tornare subito alla sera prima. Infilo l’orologio sopra il bracciale del Ten Club. Alla faccia della metafora, si torna alla vita. O meglio, sorrido e penso che l’orologio, gli impegni, il lavoro, la QDC (quotidiana dose di cacca) potranno anche tener nascosto il bracciale verde, ma quello lì resta, attaccato al polso, sulla pelle, prima di ogni cosa.
Bentornato, bentornati.
Siamo cellule dormienti che si riattivano a ogni tour, che mettono l’orologio nel cassetto e che tornano sotto un palco. Sempre.
La strana tribù ieri sera si è nuovamente ritrovata, come in Olanda e a Berlino pochi giorni prima. È un rito, è un bisogno. Dall’ultima volta è accaduto di tutto, adesso è arrivato finalmente il momento di farsi trappare quei biglietti vecchi di due anni, lasciare il mondo fuori dalle transenne e riprendersi la dimensione dei concerti.

Due anni, una notte e un viaggio.

Makes much more sense to live in the present tense

 

Andrea Riscossa