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Tag: Live

Tigran Hamasyan @ Teatro Olimpico

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• Tigran Hamasyan •

+

Doctor 3

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Teatro Olimpico (Vicenza) // 19 Maggio 2022

 

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Se è vero che la musica è il traffico dei nostri pensieri, non oso immaginare cosa posa passare per la mente di Tigran Hamasyan.

Fatto sta che nel dirigermi verso il teatro, mi sono imbattuto in un incredibile traffico (urbano questa volta, meno poetico me ne rendo conto) e l’avvicinamento al Teatro Olimpico di Vicenza è stato alquanto rocambolesco, quasi propedeutico a quello che mi sarebbe aspettato.

No!!! Non dirò math-prog-jazz o similari, questa volta non è così e comunque non mi piace per niente definirlo con questi composti! Facciamo piuttosto un passo indietro. Tigran l’avevamo lasciato in Levitation 21, un infinito ipertesto ritmico che trova sintesi in una rocambolesca creatività priva di gravità (scusate il gioco di parole). Trattasi di una composizione inusuale e inarrestabile, dove la narrazione viene stravolta con spaventosi cambiamenti chiave in cui viene eviscerato il tempo di 21/8, si, ho detto 21/8..da rimanere a bocca aperta, lo so. 

Ma questa volta no, non mi attendo una performance labirintica a base di arrangiamenti convulsi e drammatici, dettati da tempi ultracomposti e scale mediorentali.

Questa volta mi aspetto qualcosa di diverso, perché Tigran si è messo in gioco in qualcosa per lui nuovo, dando forma a StandArt, Il suo primo album di cover, nel quale traduce un materiale noto se non familiare, realizzando, infatti, un personale manifesto espressivo sugli standard jazz del Great American Songbook.

È proprio sulle fondamenta di questi standard che Tigran libera una comunicatività nata sì con i classici a cui rende omaggio, ma con una lucentezza moderna e con un’onestà artistica che si manifesta in un’espressività senza risparmio, libera da archetipi e frasi fatte.  

Il nome di Hamasyan è balzato all’attenzione nella scena per la complessità del lessico musicale che lo caratterizza a più strati. Il suo personale eclettismo così libero richiama certe atmosfere norvegesi di Jan Garbarek, alternate a frangenti musicali metallici, industriali, dalle sfumature teutoniche di vent’anni fa. 

Forse potremmo decodificare la sua arte in due grammatiche compositive coltivate assieme, dove una fa da stampella all’altra. 

Il primo linguaggio sicuramente più d’atmosfera, riscontrabile nelle appoggiature cortesi e nel suo canto solenne, negli schizzi sulla tastiera, negli andamenti cromatici delicati, un flusso introspettivo e lieve dove jazz, ambient e classica vengono avvolti da folate di vento armene.

L’altro intento comunicativo, certamente più impetuoso, di contraltare è composto da una granitica e titanica robustezza, dove continui capovolgimenti melo-ritmici sconfinano tra progressive rock e jazz contemporaneo, andando a braccetto con soluzioni tipicamente metal djent e incastri ritmici non soliti. 

L’articolazione ritmica dei brani di Hamasyan si accosta infatti ai contorsionismi poliritmici di pilastri dello djent come Meshuggah e Tool, già da tempo ispiratori del musicista. Ma non è tutto qui, nel pianismo di Hamasyan è palese un ulteriore parabola estetica condivisa sottotraccia da queste due categorie, qualità che lo rende velocemente riconoscibile in entrambe le situazioni.

E dopo questo “Spiegone” in stile Marco Damilano in Propaganda live, eccoci quì: Tigran Hamasyan è lì, sopra il maestoso palco palladiano del Teatro Olimpico di Vicenza, e davanti a quelle quinte cinquecentesche in prospettiva sembra aver raggiunto il suo momento perfetto.

Personalmente, ogni concerto ha un punto di beatitudine oltre al quale desidero tornare a casa: beh, questa volta ho la sensazione che non sarà possibile enuclearlo. 

Veniamo al dunque, provando a rispolverare qualche vago concetto di tre anni di pianoforte ormai passati da un po’.

Tigran parte quasi in sordina con note ribattute alla mano sinistra, mentre le mani dei presenti, si congiungono e i nostri occhi fissi su di lui cominciano a creare un pianeta nuovo. Il suo suono ha un corpo imponente, sacro e mai oltraggioso.

In un pianissimo, le sue dita piangono su un pianoforte tonalmente non facile da definire. Introduce un piccolo tema che attraverso trasposizioni, va a creare tensione. 

L’ascolto, a partire dalla cellula melodica, pian piano cambia e diventa sempre più ricco di cromatismi ed arpeggi nell’ordine acuto, con molti strati di umori, sentimenti, sguardi ed espressioni.

Il trio suona dinamiche stop-start con tempi che mutano in continuazione e con battute molto misurate della sezione ritmica, a rinforzano la narrativa del concerto.

Sia nel caso di interplay o unisoni, il dialogo è sempre suddiviso in parti uguali e rari sono i momenti esclusivamente solistici. 

L’estetica del suono dei tre è fondata su schemi metrici maniacali. Ossessivi diventano i giochi d’incastro sbattuti senza indugi in primo piano, evitando manierismi tecnici per mero piacere estetico. Piuttosto risale una certa autenticità nel sottotesto narrativo del loro suonare. 

Tigran gioca con i suoni, con le loro altezze, sforzando i ritmi per una resa di rara efficacia emotiva. 

D’un tratto, nell’ordine acuto del pianoforte si manifestano arpeggi diminuiti, in un flusso interiore che sintetizza l’universo emotivo che lo circonda. 

Hamasyan con la mano sinistra tiene bordone con note ribattute e martella incessantemente la melodia con grappoli cromatici di note. Allo stesso tempo insiste sulla parte centrale della tastiera. Ricchi artifizi armonici creano un’atmosfera maestosa e solenne, mentre Justin Brown alla batteria detta un hip-hop dal groove rilassato.

Tigran graffia il pianoforte, si muove con grande teatralità e un’espressività impensabile anche ai più audaci dei tempi dispari. 

Il pianoforte di Hamasyan balza e rimbalza sul ritmo costantemente ribollente che Matt Brewer al contrabbasso e Justin Brown impongono.

Borwn articola complesse linee bebop in stile Parker nel bel mezzo di un improvviso cambio di tempo che va dal jazz 4/4 veloce al funk spezzato. 

Per Tigran esiste uno stato di ebrezza che coincide con uno stato di grazia: riesce a massimizzare il suo rendimento, la sua ispirazione, e quando suona gli riesce quasi tutto, ecco cosa è accaduto questa sera.

Quasi a ringraziare il suo strumento per averlo redento, Tigran Hamasyan si inchina davanti al suo pianoforte, dimostrandogli profonda gratitudine e amore. Gli applausi del pubblico ammaliato lo avvolgono e ringraziano per averci ospitato tra il traffico dei suoi pensieri. 

Quando tutto finisce, non vorrei più tornare nel (mio) traffico e rientrare a casa.

 

Testo e Foto: Massimiliano Mattiello
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DOCTOR 3

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Yungblud @ Carroponte

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• Yungblud •

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Nova Twins

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Carroponte (Milano) // 18 Maggio 2022

 

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NOVA TWINS

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Litfiba @ Tuscany Hall

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• Litfiba •

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Tuscany Hall (Firenze) // 16 Maggio 2022

 

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Prato a Tutta Birra 2022

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11 Maggio 2022

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Bengala Fire

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Manitoba

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14 Maggio 2022

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Cara Calma

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Ministri

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15 Maggio 2022

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ROS

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Sophia @ Locomotiv Club

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• Sophia •

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Locomotiv Club (Bologna) // 14 Maggio 2022

 

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L’ultimo album dei Sophia, Holding On/Letting Go, è uscito ormai da due anni e finalmente Robin Proper-Sheppard ha potuto portarlo sui palchi. Certo, il gruppo aveva riacceso gli amplificatori qualche volta dall’inizio della pandemia, a Bruxelles per le Nuits Botaniques o a un festival a Leffinge, in Belgio, lo scorso Settembre, ma ma non in un tour vero e proprio, quello che era già stato posticipato due volte. Il gruppo si mette dunque, finalmente, sulla via di un tour che li porta in Germania, Svizzera, Italia e Belgio, tre paesi dove il pubblico della ex testa pensante de The God Machine è tra i più densi. Le valigie si sono così posate stasera a Bologna, splendida città medievale della regione dell’Emilia Romagna straordinariamente ben conservata e dove il caldo in questo mese di Maggio è già soffocante. 

I Sophia suonano al Locomotiv Club, una sala concerti gestita da un’associazione locale che ha anche uno studio di registrazione e detiene un’etichetta. Il luogo si trova all’interno di un deserto ferroviario trasformato in un luogo culturale alternativo. È attraverso l’Associazione Italiana Cultura Sport che entriamo nella sala a misura d’uomo che può ospitare circa duecentocinquanta persone e che hanno visto passare gruppi come Swans, Deerhunter, St Vincent. Ambiente minimalista: il luogo è pieno di belle vibrazioni.

Le note sintetiche di Strange Attractor risuonano quando il gruppo arriva sul palco con un applauso particolarmente intenso, con la stanza ragionevolmente piena. Il basso distorto dà il tono della serata, che sarà posta sotto il segno della potenza. Robin è accompagnato stasera da sei musicisti. Chi è venuto a vedere i Sophia in versione acustica avrà le orecchie in fiamme.

Le chitarre ci sono, violino e sassofono completano il quadro. Questo primo pezzo è compatto, incisivo, mostrano un lato dei Sophia emerso negli ultimi anni, quello di un gruppo molto rock, in grado di combinare passaggi di una violenza gioiosa con momenti più intimi. Siamo onesti, ci sono momenti in cui la filiazione con The God Machine è inquietante e toccante. La giovinezza del gruppo che accompagna Robin non è certamente estranea a questo slancio energico, Robin si diverte regolarmente a sottolinearlo sotto forma di scherzi. Il gruppo prosegue con Undone. Again., piccola perla dell’ultimo album. Robin, come al solito canta a occhi chiusi. Ha un sorriso costante, prova della sua felicità di essere lì. E dopo tutto, non c’è bisogno di cantare canzoni di infinita tristezza facendo il broncio.

Questo concerto è iniziato molto bene, la band rilassata, molto al suo posto. Un’atmosfera particolarmente calorosa regna sul palco tra i musicisti. Le prime note di I Left You ci travolgono: brano che faceva inizialmente parte dell’album live De Nachten, fu in seguito ripreso nel lavoro del 2004, People Are Like Seasons. Grande colpo di fulmine, questo pezzo è un condensato di bellezza. La band prosegue con Alive, dall’ultimo album, quando Robin si ferma. “I forgot the lyrics” dice, un po’ contrariato. “Qualcuno potrebbe aiutarmi, ma senza cercare su internet”, dice al pubblico, senza allontanarsi dal suo umorismo caustico. Questa non viene proprio, abbandona. Il gruppo, gentilmente divertito, prosegue con Wait, tutti i musicisti che accordano i cuori all’inizio del titolo. Per il momento all’ultimo album è stata resa giustizia, con Robin che risponde presente per difendere questa eccellente opera.

Testardo e conoscendo l’enorme potenziale del titolo lasciato a riposo, Robin ritorna su Alive. Per fortuna: il brano termina con un assolo epico di sassofono, portando tensione, vibrazione, un taglio che non lascia il pubblico indifferente. Nessuna incongruenza nella presenza sul palco di questo elemento che si potrebbe pensare lontano dall’universo dei Sophia. Un soffio magnetico ci ha appena sfiorati.

Il gruppo prosegue con Birds, apparso su Technology Wont Save Us (2006), con ancora dei bei passaggi di sassofono. Robin indossa i vestiti di un crooner su questo titolo, con i suoi baffi elegantemente fini. Ne aveva parlato con umorismo al concerto di Francoforte, precisando di aver esitato a tenerli ma il gruppo lo aveva dissuaso dal raderli, probabilmente per deriderlo alle sue spalle. Autoironia, sempre e comunque.

Il violinista suona le prime note di Desert Song no2, brano di eccezionale forza e che viene a dimostrare che il gruppo attualmente intorno a Robin è probabilmente la migliore formazione che l’abbia mai accompagnato fino ad oggi. Momento di rara intensità. Il pubblico è pieno di ammirazione. Il gruppo alza un po’ i piedi dai pedali di distorsione per suonare la bella Ship In The Sand poi due titoli emblematici dei primi album, If Only e So Slow. E qui succede qualcosa di completamente nuovo in un concerto dei Sophia: il pubblico canta a squarciagola con il gruppo, riprendendo le parole in un fervore quasi religioso. Tutti si fissano e si sorprendono a urlare su parole particolarmente oscure: “But death come so slow, when you’re waiting, when you’re waiting to be taken”. Stupefacente armonia tra il gruppo e il suo pubblico.

I Sophia continuano con Bastards, un altro titolo che assume tutto il suo significato dal vivo, la densità del suono che raggiunge le vette. Sottolineiamo che il nuovo batterista, che sostituisce lo storico compagno di strada di Robin (Jeff Towsin, che non ha potuto partecipare al tour), porta nervosismo all’insieme, i suoi impatti martellanti come delle mannaie.

I Sophia terminano il loro set principale con la sublime It’s Easy To Be Lonely, tratto dal penultimo album, As We Make Our Way (Unknown Harbour). Con le chitarre alla fine, si è dissanguati. Ma il gruppo non si fa quasi pregare e ritorna rapidamente per regalare Oh my Love, Another Friend, Resisting e la molto impegnata e post punk We See You (Taking Aim): un finale a misura del concerto, travolgente e ammaliante.

Questa serata è stata magnifica, la band ha fatto uno spettacolo dantesco. Precisi, massicci, felici di essere sul palco e molto sinceri, i Sophia presenti a Bologna sono andata oltre ogni nostra aspettativa. Questo gruppo, oltre alle sue qualità musicali, ha anche valori umani eccezionali: basta vedere Robin accogliere gli spettatori al suo banchetto del merch, con una parola per ciascuno, una stretta di mano e un ringraziamento autentico.

Ma ciò che ancora non si sapeva scrivendo queste righe sul treno che collega Bologna a Milano per prolungare un po’ di più il piacere con un nuovo show, è che la serata del giorno dopo al club Arci Bellezza di Milano è stata ancora più sensazionale (non si pensava fosse possibile). Il gruppo e il pubblico quella sera si sono uniti in uno di quei momenti magici, quasi soprannaturali che solo l’arte è in grado di offrire. Tutto era solo suono e sudore, emozioni che uniscono le anime nel calore dei corpi. Siamo tutti entrati in una liquefazione felice, ardente, stordente. A Milano, la musica dei Sophia è stata uno sfogo euforico, un’ondata di emozioni sensitive, furia, gioia, estasi musicale. Robin ci confidava di aver vissuto probabilmente il miglior spettacolo dei suoi venticinque anni di carriera con i Sophia, in un momento di grazia assoluta. Sfiorare il divino può accadere.

Testo per gentile concessione di Stëphan Cordary come apparso su Obsküre Magazine

Foto: Francesca Garattoni
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Firenze Suona Contest 2022

Spesso si dice che nel mondo della musica c’è molta competizione. La frase la senti dire talmente spesso, che alla fine pensi davvero che sia vero. Ma quando quella che credevi una certezza viene meno, non puoi fare altro che essere felice. Questo è quello che è successo durante le semifinali del Firenze Suona Contest che si sono tenute il 13 e il 14 Maggio. Promosso dall’omonima associazione fondata da Elisa Giobbi e Sauro Chellini, il concorso per giovani musicisti fino a 35 anni e aperto a tutti i generi musicali si trova quest’anno alla sua seconda edizione, con una giuria di esperti capitanata da Federico “Ghigo” Renzulli, chitarrista fondatore dei Litfiba.

Alle semifinali sono giunti 12 progetti musicali selezionati tra le oltre 150 proposte iniziali di gruppi e solisti provenienti da tutta la penisola e si è svolta al Caffè Letterario Le Murate della città di Firenze. Nella prima serata ci sono state le performance di Today’s Inmates, Pandem, Draven Band, Irene Buselli, Bernardo Sommani, Le Canzoni Giuste, mentre nella seconda si sono esibiti Ercta Collective, Wisdom Tree, Cristina Cafiero, The Black Armadillos, Libero, Biopsy O Boutique.
Il locale ci ha accolti in un abbraccio caldo, quasi familiare, dolce, dove niente faceva prevedere il terremoto sonoro ed emotivo che ci avrebbe scosso più tardi. Sul palco si sono avvicendanti gruppi e solisti pieni di energia e personalità. La musica spaziava dal rock ruvido e oscuro a canzoni che avevano i colori del golfo di Napoli, melodie che fondevano il classico con il moderno, sfumature arabe, testi che parlavano di donne sottili, eppure così forti e spesse. Era come essere proiettati nel vortice stesso del suono, dove le note e le parole si uniscono per mostrarti tutto ciò di cui possono essere capaci attraverso gli strumenti, le voci e l’energia di chi saliva sul palco e dava tutto se stesso per un amore assoluto: quello per la musica.

Una serata a tratti surreale, dove lo spettacolo più bello erano loro, i musicisti: tutti erano lì per vivere quel momento al massimo, ma soprattutto senza l’ombra oscura della rivalità. Questo non vuol dire che non fossero consapevoli della competizione, perché se li guardavi vedevi nel loro sguardo la voglia di vincere, ma senza annientare, e nei volti era chiara la consapevolezza che l’unico prezzo che erano disposti a pagare sarebbe stato quello della propria musica. In questa atmosfera di gara e di passione, chi era in difficoltà si è visto aiutare da chi non aveva mai incontrato prima, musicisti parimenti validi si incoraggiavano a vicenda augurando la vittoria all’altro, ma non per un finto dovere morale, bensì perché credevano in loro stessi e allo stesso tempo negli altri. C’era un senso di comunità e solidarietà che pervadeva anche il pubblico, ridevi e fremevi con loro, ti emozionavi e nel frattempo le performance erano piene di energia e voglia di essere suono, melodia, di esistere nonostante un mondo che sembra andare sempre al contrario. Non era solo un contest, era la dimostrazione che quello che la musica può fare di bello e intenso dovremmo lasciarglielo fare in piena libertà e davvero forse un giorno andrà tutto bene. 

Ogni favola, però, ha la sua fine. Ogni semifinale, chi passerà e chi no. Il lavoro della giuria non è stato semplice, data l’alta qualità delle esibizioni, lo vedevi dai loro sguardi. Alla fine di ogni serata sono stati selezionati i finalisti e sul palco dell’Anfiteatro delle Cascine di Firenze il prossimo 12 Giugno saliranno Today’s Inmates, Pandem, Draven Band, Ercta Collective, Libero, Biopsy O Boutique. Tra la gioia per chi diventerà protagonista di un’altra serata di pura musica ed energia e la nostalgia per chi se ne sarebbe andato, riecheggiava nell’aria il ricordo di “Valeriooooo”, il nome di un passato fatto di gioventù e concerti, di voglia di stare insieme e condividere tanta bella musica, la stessa rivissuta per due serate indimenticabili.

 

Alma Marlia 

Foto di copertina: Cauê Pintaúdi Pascholati

Sugar Blue @ Santomato Live

Siamo nella sala concerti del Santomato Live, a Pistoia ad aspettare lo spettacolo di Sugar Blue, che prosegue nel suo percorso artistico senza confini.  I musicisti stanno aspettando l’arrivo degli spettatori e Blue è seduto, da una parte, a suonare la sua armonica.

Mi avvicino e facciamo due chiacchiere, anche con la moglie, bassista della band, Ilaria Lentieri.

 

Come mai questo ritorno all’Africa?

“Generalmente quando si parla di Funk, Jazz, Rock’n’Roll, Punk… tutto torna all’Africa. Lì è dove tutto è iniziato, tutto ha avuto origine. Senza musica africana staremmo ancora facendo il Valzer. (ride)
Ed il Valzer è molto bello ma “you can’t groove it, baby!””

 

Di tutti i personaggi e gli artisti con cui hai collaborato chi ricordi con maggiore emozione?

Willie Dixon è stato un mentore, un amico un padre. Sono stato davvero onorato di poter suonare con Ray Charles e mi sono divertito molto con Prince ed ho amato fare Rock’n Roll con i Rolling Stones.
Ho avuto tante bellissime opportunità, suonando con i più grandi del Jazz, del Blues e del Funk, come Stan Getz, James Cotton, Junior Wells, Big Walter Horton ed altri…
Sono molto grato di aver suonato con alcuni dei più grandi musicisti del mondo. Sono stato fortunato.”

 

Ci sarebbero state le stesse opportunità se fosse vissuto adesso?

“Purtroppo no perché molte di queste persone sono morte e nessuno sarà mai come loro. Per fortuna abbiamo registrazioni di questi grandi uomini ma oggi questo tipo di esperienze non sarebbe possibile.
Mi sono trovato nel posto giusto al momento giusto.”

Negli occhi una luce, un mix di malinconia, gratitudine ed entusiasmo.

Sorrisi. Blue è una persona che ama ridere e far ridere, ama far star bene e far sentire a proprio agio.

Alle 22.30 è iniziato il live, con non poca emozione, sia da parte del pubblico che da parte dei musicisti che non si ritrovavano insieme da circa due anni.

Il concerto è iniziato con una ricca dose di energia, con una introduzione strumentale che sembrava volerci gridare: “Hey voi!!! Questo è Blues!!!”. 

 

20220511 SugarBlue Pistoia letiziamugri 2

 

Sul palco c’erano:
Damiano Della Torre piano /organ/ accordion
Ilaria Lantieri Whiting Bass / vocal
Sergio Montaleni guitar / vocal
CJ Tucker drums (USA)
Kalifa Kone Kamalengoni, tama, djembe (Mali)
Petit Solo Diabate balafon, djembe (Burkina Faso)

Il pubblico ammutolito ha seguito ogni nota con ammirazione e, a volte, stupore.

Non capita così spesso trovarsi faccia a faccia con la storia, con chi quella famosa storia di cui tutti parliamo l’ha davvero vissuta e scritta, assistendo ad uno show avvolgente con grande reinterpretazione dei classici della tradizione afro-americana e riarrangiamenti di originali composizioni e cavalli di battaglia del repertorio di Blue.

Il secondo pezzo è Red Hot Mama scritto negli anni ’90; un esempio tipico della musica rivoluzionaria di Blue, che ha sviluppato una velocità ed una tecnica uniche, mischiando il Blues al Funk ed al Jazz, un connubio mai sentito prima che, se da una parte lo hanno reso un pioniere, dall’altra lo hanno escluso dal mondo dei puristi del Blues.

Prosegue il live con One More Mile, un pezzo di James Cotton a cui è molto legato, tanto che ha dato il suo nome al figlio a cui James Cotton ha fatto da padrino.

Non poteva mancare il tributo a Muddy Waters con Hoochie Coochie Man e poi di nuovo una dedica al mentore James Cotton, Cotton Tree.

Si arriva alla fine senza nemmeno rendercene conto.

All’arrivo di Miss You il pubblico esplode in un grande applauso; il famoso riff nacque dall’incontro di Blue con gli Stones, che volevano questo nuovo groove di blues misto a funk tipico della Chicago degli anni ’70.

Il concerto termina con Messin’ with the Kid, cavallo di battaglia di Junior Wells.

E così, in circa due ore, ci ritroviamo ad aver attraversato la vita di Blue, con tributi ai suoi mentori, che tanto lo hanno spronato nella ricerca dalla sua personalità (parola d’ordine nella ‘black community’) che ha come risultato un armonicista unico al mondo, fuori dai canoni, moderno, in cui è racchiuso talento e personalità, eclettico e colorato, con sempre tanta gratitudine per la cultura africana.

 

20220511 SugarBlue Pistoia letiziamugri 7

 

Setlist

RED HOT MAMA

ONE MORE MILE

HOOCHIE CHOOCHIE MAN

COTTON TREE

BLUESMAN

WHO’S BEEN TALKIN’

INTERMEZZO ACUSTICO

BAD BOYS HEAVEN

TIME

MISS YOU

MESSIN’ WITH THE KID

 

Foto e testo: Letizia Mugri

The Wombats @ Estragon

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• The Wombats •

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Estragon (Bologna) // 12 Maggio 2022

 

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Low @ Teatro Duse

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• Low •

+

Divide and Dissolve

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H E Y  W H A T  T O U R

Teatro Duse (Bologna) // 12 Maggio 2022

 

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DIVIDE AND DISSOLVE

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Inhaler @ Magazzini Generali

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• Inhaler •

+

Sun Room

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Magazzini Generali (Milano) // 09 Maggio 2022

 

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SUN ROOM

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Mayhem @ Campus Industry

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• Mayhem •

+

MORTIIS

Whiskey Ritual

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Campus Industry (Parma) // 08 Maggio 2022

 

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MORTIIS

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WHISKEY RITUAL

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Italia 90 @ Covo Club

Serata all’insegna della Union Jack in quel del Covo Club di Bologna.

Sabato sera finalmente è stata recuperata la data degli inglesi Italia 90 prevista inizialmente ad aprile 2020 e che la sottoscritta attendeva con trepidazione.

Ma partiamo dall’inizio.

Ad aprire la serata ci sono i Qlowski, band metà emiliana e metà inglese prodotta da quel gioiello di etichetta nostrana che è la Maple Death Records. Post punk più classico con sfumature di noise, che a tratti sfocia in una rivisitazione moderna del kiwi-pop, grazie alla voce pungente di Cecilia Corapi, che si alterna ai toni più bassi di Michele Tellarini. La band presenta il loro LP Quale Futuro e aprirà tutte le date previste nello stivale dei nostri beniamini inglesi dal nome per noi a dir poco nostalgico ed evocativo.

Il quartetto originario di Brighton ma oramai trasferitosi a South London sale sul palco ed è evidente che il pubblico non sta più nella pelle. Subito partono i bassi perentori e assordanti accompagnati da una voce rabbiosa e penetrante, un cantato quasi da hooligan e atmosfere da pub malfamati londinesi. Vengono eseguiti brani da tutti gli EP pubblicati finora, in quanto un disco completo non è ancora uscito, ma di talento ce n’è a profusione. Da citare sicuramente Strokes City e Borderline, che parlano della brutalità della polizia, di violenza e della politica che va a scatafascio nella vecchia e cara Inghilterra. Ovviamente il pogo parte istantaneo e alla fine, neanche il cantante riesce a resistergli: come in ogni concerto punk prende il microfono e si butta nella mischia a cantare e ballare, con una voce ancora più furiosa ed evocativa. Sul palco appare di nuovo la Corapi ed eseguono un brano insieme, dimostrando che la sintonia tra le due band è forte e intensa. Sul finale, per la mia felicità, viene suonata Competition, dal loro primo EP del 2017, con dei bassi potentissimi e rabbia sistemica ed è stata proprio questa a farmi innamorare della band al primo ascolto. 

Il paragone con i primissimi Gang of Four forse è troppo facile ma inevitabile. Se vogliamo poi andare su band più recenti si può parlare anche di IDLES, non solo per il sound ma anche per tematiche politiche e ironia pungente dei loro testi. Lo stile da skinhead, come se fossero appena usciti dal film This Is England, poi, fa tutto il resto. Gli Italia 90 confermano di essere una delle band più interessanti che si affacciano sul panorama inglese e portano freschezza e novità in un genere che sembrava ormai già stato sondato in lungo e largo. 

 

Alessandra d’Aloise

Foto di copertina: FabioBP