È venerdì 26 aprile e fuori dal Porcelli Tavern, locale che ha vita nel centro di Amelia (TR) dal 1987, si avverte l’attesa. Ci si chiede quando inizierà il Release del nuovo album degli Scimmiasaki, Trionfo. Terzo lavoro per la band alt rock composta da Giacomo, Santian, Peppe e Niki, Trionfo uscirà (non sappiamo ancora quando) per Vina Records.
Sono passati 3 anni da Collasso, un EP che ha aumentato l’attesa e le aspettative dei fan. Trionfo infatti è un neonato ma con una gestazione di almeno un anno.
A mezzanotte il live non è ancora iniziato e continua ad arrivare gente.
Entrando nel Porcelli si fa fatica a passare, il bancone è gremito di persone e attorno ai tavoli ci si ritrova parlando del più e del meno. Ci addentriamo nella stanza sottostante al Pub e al primo accordo tutti si fiondano dentro.
Il palco è scarno e basso, rialzato dal pavimento di pochi centimetri. Dietro alla band l’unico pezzo scenografico è il banner con la grafica di Alessandro Ripane. Ma tutti gli occhi sono su di loro. Il posto è colmo.
Il concerto comincia con Vorrei, arpeggi solitari troncati da stacchi strumentali adrenalinici. Poco più di due minuti di musica e un breve testo “in fuga” verso la felicità. La gente è in ascolto, interessata e curiosa.
Qualcuno mi ha confessato di come fosse strano non conoscere e cantare le nuove canzoni, eppure Trionfo è familiare e le sonorità ormai caratteristiche degli Scimmiasaki non mancano.
Basta qualche nota del quarto brano Stringere (da Collasso), per far sì che gli spettatori rompano il ghiaccio e inizino a ballare. Il pubblico si scatena, canta e si unisce all’urlo collettivo di “Stringere!”. Sembra quasi una famiglia.
Il singolo, Trionfo, si apre con pochi secondi di chitarra ed esplode immediatamente nel ritornello, uno di quelli che ti resta in mente davvero. Sono già in molti a cantarlo, pur essendo uscito due giorni prima insieme al video di Flavio Gasperini.
A metà concerto, dei problemi tecnici con le luci portano il palco e la band alla penombra ma questo non oscura affatto il carisma degli Scimmiasaki.
Giostra è il pezzo più lungo, forse un po’ lontano dalle peculiarità dell’album. Il ritornello è disteso, quasi romanticizzante ed è seguito da uno strumentale al quale si sovrappone una simil litania: “Sento dire sempre le stesse cose”. Ipnotizzante.
Canzone priva di un refrain nel senso letterale del termine è Castello. La frase ridondante “Sono felice” però non può non entrarti in testa.
A chiudere il concerto c’è il bis del singolo. È come l’ultima spinta: una liberazione consapevole e già nostalgica. Il travaglio è stato lungo ma ne è valsa la pena.
Benvenuto Trionfo, “anche se il mondo è grande non è troppo per me” cit.
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ROMA
Parte 2
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ROMA
Parte 1
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Ylenia Lucisano
1M Next – I Tristi
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Abituata ai concerti degli Afterhours, in piedi, schiacciata alla transenna, è strano pensare di ascoltare le canzoni che hanno fatto da colonna sonora alla mia adolescenza comodamente seduta su una poltroncina di velluto rosso, in un teatro.
Mentre cammino per le strade che mi portano al Teatro Fabbri di Forlì, in occasione di An Evening with Manuel Agnelli mi chiedo che pubblico troverò. Chi, come me, che ha iniziato ad amarlo durante la sua militanza nelle file del rock indipendente italiano oppure persone che lo conoscono soprattutto per i suoi ultimi trascorsi televisivi? Questa cosa mi spaventa un po’.
Mentre mi accomodo nel mio posto numerato, tiro un sospiro di sollievo. Il pubblico di Agnelli è cresciuto, è diventato più trasversale, ma il clima che si respira è lo stesso che ho incontrato in passato ai suoi concerti. Ci si scambia opinioni sull’ultima volta che lo si è visto live e mi accorgo che in tanti non hanno la minima idea di cosa aspettarsi da questa inedita serata concerto-evento.
La modalità d’impianto teatrale per alcuni musicisti non è però così nuova. Penso alle “Conversations with Nick Cave”, che tanto amo e che probabilmente anche Agnelli segue con interesse. Impossibile credere che non si sia ispirato a lui per questo format che tocca diversi ambiti, dalla conversione al concerto, passando per il reading.
Anche solo la vista del palco fa intuire quale sarà l’atmosfera della serata: un appendiabiti, alcune valigie, due poltrone, un giradischi, dei vinili, un plotone di chitarre pronte per le esecuzioni acustiche.
Rodrigo D’Erasmo e ManuelAgnelli arrivano sul palco alle nove e mezza passate, entrambi indossando un cappotto. Se lo tolgono e senza dire niente partono con il primo pezzo, una cover della canzone The Killing Moon di Echo and the Bunnymen, seguita dal primo dei tanti ringraziamenti al pubblico.
Agnelli sembra rilassato, “con la musica ho trovato il mio linguaggio. Ho iniziato a fare rock contro tutto e tutti, ma ad un certo punto ho perso l’obiettivo. Combattevo per qualcosa, ma non ricordavo più per cosa, così ho scritto questo pezzo“. È Padania la canzone che usa per iniziare a parlare di sé.
Tra una chiacchiera e l’altra si arriva a Male di Miele. Agnelli quando parla dell’album “Hai Paura del Buio?” che li ha consacrati alla storia della musica italiana, racconta con ironia di quei tempi, tutt’altro che facili per gli Afterhours.
La band era indebitata con lo studio di registrazione, nessuno voleva comprare il nastro, Manuel aveva perso il lavoro e la sua ragazza l’aveva lasciato. A quei tempi viveva sopra un negozio di animali che, quando passava davanti, parevamo ridere di lui.
Nonostante questo “ho iniziato a preoccuparmi solo quando i pezzi sono diventati allegri“. La versione di Come Vorrei al pianoforte è ancora meglio di quella in studio. Un pezzo dalle sonorità dolci, ma dal testo disperato.
Anche il successivo, Pelle, viene eseguito al piano, con l’accompagnamento del violino di Rodrigo. Il risultato è un’esecuzione ariosa del brano originale. Ammetto di aver temuto l’effetto nostalgia, ma tutti i brani rieseguiti durante An evening with Manuel Agnelli acquistano una nuova identità, senza per questo tradire quella che già conosciamo.
L’ironia non manca mai, nemmeno quando tocca alcuni dei momenti più difficili della sua vita. È il caso di “Folfiri o Folfox”, l’ultimo album di inediti che racconta della morte del padre. Un lavoro catartico, dove “la musica è venuta in soccorso, per buttare fuori le tossine“.
Curioso pensare che proprio un disco così difficile e pesante, sia arrivato primo in classifica. Quando Agnelli e D’Erasmo eseguono Ti cambia il sapore il palco si tinge di verde e di blu, come se fossero imprigionati dentro un acquario, a fare i conti con il dolore. L’esecuzione è da brividi.
Si apre il momento “miti”, con una cover di The Bed di Lou Reed, tratta dall’album “Berlin“. Questo brano era la colonna sonora dei primi viaggi in giro per l’Europa di Agnelli, e dei suoi primi approcci con il sesso.
Come può un album come questo fare da sfondo a dei rapporti sessuali di un ragazzino di sedici anni? Manuel ha la risposta: “ci si nasce con questa sensibilità. Il sesso allegro non mi è mai interessato. E chissà, forse sono proprio io l’inventore del sesso emo“. Probabilmente l’aneddoto più divertente tra i tanti che Agnelli condivide con il pubblico, e proprio questi racconti sono uno dei tanti elementi che arricchiscono il live.
Bianca ottiene una piccola ovazione. Al termine del pezzo i due vanno a sedersi sulle poltroncine in fondo al palco e mentre bevono un bicchiere di vino Agnelli legge un brano di Ennio Flaiano. Poi a ritmo serratissimo, eseguono una cover irriconoscibile dei Joy Division. Il pezzo è più simile a come l’avrebbe suonato Nick Drake, che ai suoni graffianti e caustici della band di Ian Curtis.
Uno degli aspetti più interessanti di questo concerto-evento è sentire parlare Agnelli dei suoi miti musicali e riferimenti culturali. E di quelli che, inaspettatamente, non l’hanno mai influenzato nonostante con la loro musica abbiano sancito un periodo storico. È il caso di Kurt Cobain, che oggi sarebbe quasi coetaneo di Manuel.
Erano gli anni Novanta, cadeva il muro di Berlino e in Italia imperversava Mani Pulite. Sembrava che l’onestà e la verità, stessero per vincere su tutto il resto. Il mondo poteva cambiare, finalmente tutto era possibile, nella società, nella Musica, ovunque. Poi, Kurt si suicidò e mise il sigillo a quel periodo storico. Tutto cambia per rimanere uguale.
L’abilità di Agnelli, spalleggiato dal fondamentale Rodrigo D’Erasmo, è di aver messo in piedi uno spettacolo intimo e toccante, delicato e profondo, carnale e leggero. Si passa da una lettura a un aneddoto personale, da una cover a un pezzo storico degli Afterhours, senza quasi accorgersene.
Come quando si è tra amici veri, quelli a cui si vuol bene, che tra un bicchiere di vino e il consiglio di un buon libro o un disco, si finisce a tirare tardi.
La cover di State Trooper di Springsteen è una delle meglio riuscite di tutta la serata. Tra l’urlo riverberato di Agnelli e il violino di Rodrigo, che sembra riprodurre il suono del sistema nervoso, non viene tradita la forza del pezzo che parla di chi non è mai riuscito ad integrarsi, di chi vive ai margini, dei diversi.
Il concerto scivola via, una diapositiva dopo l’altra, con Manuel che si racconta molto anche nel privato, dalla prima telefonata di Mina arrivata quasi per caso nel 1995 agli inevitabili talent. Agnelli dice di essersi liberato, durante quell’esperienza televisiva.
Di aver capito che molta della musica che viene prodotta oggi è “musica di merda“, ma che in mezzo a tutto questo ci sono pezzi interessanti e che, spesso e volentieri, è proprio sua figlia a farglieli conoscere. È il caso di Lana Del Ray. La cover di Video Games è il pezzo che non ti aspetti, eppure sembra essere tutto al posto giusto. Il pubblico ascolta incantato.
Sono passate più di due ore dall’inizio del concerto, ma il ritmo è ancora sostenuto. Nell’ultimo “encore” infila Ballata per la mia piccola Iena, Cisonomoltimodi e Nonèpersempre con il pubblico che canta – male – insieme a lui il ritornello. Mi scoppia il cuore.
È il momento dell’ultimo pezzo che “servirà a togliervi quello stupido sorriso ingiustificato dalla faccia“, ci dice Manuel con un’espressione da gatto. Parte Quello che non c’è.
Al termine del concerto il pubblico si alza in piedi, Agnelli e D’Erasmo se ne vanno tra gli applausi.
Quello che si è visto sul palco del Teatro Fabbri è un nuovo Manuel Agnelli, più leggero, più risolto forse, che non ha tradito quello che è stato. È una nuova versione che ha portato il musicista ruvido e puro, tutto nervo e rabbia, a una nuova dimensione, colta, irriverente e autoironica.
L’impressione che ho avuto è che Agnelli abbia voluto rompere con un certo passato che forse gli stava stretto da un po’. Quello dell’ambiente “indie” che spesso, in Italia, fa rima con snob e autoreferenzialità.
Probabilmente stanco di quel clima asfittico, pieno di limiti, di barricate e di regole, Agnelli durante questa serata ha rivendicato più volte il desiderio e il diritto di fare quello che vuole, di essersi guadagnato la propria libertà.
Anche quella di non prendersi, finalmente, troppo sul serio.
La pioggia non ha fermato l’entusiasmo dei festeggiamenti per il 25 aprile a Parma. In attesa di diventare la capitale della cultura del 2020, la città ha ospitato il concerto-evento organizzato dal Comune in collaborazione con il Barezzi Festival.
L’occasione perfetta per elevare la musica a bandiera di libertà, affinché l’arte sia l’unica arma di lotta per il riconoscimento e il rispetto dei diritti.
Sul palco di Piazza Garibaldi si sono susseguiti importanti nomi del panorama musicale italiano.
Dimartino, sulla scia del rilevante successo del nuovo album Afrodite, ha introdotto il brano Niente da dichiarare con una preghiera: “Che i confini possano essere solo montagne e non dogane”.
L’applauso di tutto il pubblico ha poi accolto Mahmood, che ha scelto Parma come data zero del tour Gioventù bruciata. Il neo vincitore del Festival di Sanremo, visibilmente emozionato, ha ringraziato la piazza gremita: “Che bello vedervi qui, così tanti! Ci esibiamo per la prima volta in palchi così grandi… Siamo abituati a contesti molto più piccoli… quindi grazie!”
A chiudere il set, l’atteso ritorno dei Radiodervish che, con Massimo Zamboni come special guest alla chitarra, hanno presentato in anteprima nazionale l’inedito Giorni senza memoria.
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+ Slimboy
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