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Tag: mourning [a] blkstar

Mourning (A) Blkstar @ Monk

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• Mourning (A) Blkstar •

Monk (Roma) // 20 Aprile 2023

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto di Simone Asciutti
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VEZ5_2020: Alberto Adustini

Fare un bilancio del 2020 di qualsiasi tipo – anche musicale – è un po’ strano, dato che la percezione del tempo è stata completamente distorta e questi 12 mesi sono durati in realtà 57. Ma comunque in questi 57 mesi la musica è stata fondamentale: un po’ bene di conforto, un po’ fonte di nostalgia per una normalità persa per strada e qualche volta anche motivo di dispiacere, ripensando magari a tutti i concerti mancati e che non si sa quando riprenderanno nella loro forma più vera e sincera: appiccicati gli uni agli altri addosso a una transenna.

Ecco allora che abbiamo chiesto ai nostri collaboratori e amici di raccontarci quali sono stati gli album che hanno tenuto loro più compagnia durante questo 2020…

 

Mourning [A] BLKstar “The Cycle”

Collettivo di Cleveland che ruota attorno alla figura di Ra Washington, i Mourning [A] BLKstar hanno sfornato con The Cycle un disco monumentale, imponente e coraggioso. Odora di funk, di hip hop, di trip hop, c’è la black music, il soul, il tutto amalgamato in oltre sessanta minuti di godurioso ascolto. Scelgo tra tutti questa Sense Of An Ending, che ben racchiude le varie anime di questo capolavoro.

Traccia da non perdere: Sense Of An Ending

 

Daniel Blumberg “On&On”

Che Daniel Blumberg sia un genio non lo scopro certo io ma parliamo di un dato di fatto, un assunto incontrovertibile. Vederlo dal vivo è un’esperienza extra ordinaria, così come approcciarsi ai suoi dischi. Se avete amato il precedente Minus adorerete questo On&On, dove tra vette di cantautorato intimo e scarno aleggia sempre quel sentore di spirito libero, di improvvisazione e necessaria irrinunciabile tendenza all’abbandonare il sentiero battuto verso direttrici inesplorate.

Traccia da non perdere: On & On

 

Protomartyr “Ultimate Success Today”

I Protomartyr sono una mia grande, relativamente recente infatuazione, esplosa con lo scorso Relatives In Descent e consolidatasi con questo Processed By The Boys. Un disco che non ha le vette clamorose di Half Sister o di Here Is The Thing, ma è molto più consistente, convincente e, a conti fatti, superiore al predecessore. La base è la stessa, quel post punk con chitarre taglienti ed una sezione ritmica spaventosa, che trova la perfetta quadra con la voce distaccata come no di Joe Casey, ma a spiccare è il maggior azzardo sia a livello di arrangiamenti (comparse di sax e altri fiati qui e lì) che di scrittura e consapevolezza. Discone davvero.

Traccia da non perdere: I Am You Know

 

Keaton Henson “Monument”

Nel 2016 con Kindly Now Keaton Henson era stato il mio disco dell’anno e da allora era diventato il mio spirito guida, il mio faro, per me amante della musica triste o tristissima. Questo Monument è dedicato al padre recentemente scomparso ed è una lenta, accorata personale narrazione familiare, dove noi ascoltatori siamo privilegiati testimoni e necessari interlocutori.

Traccia da non perdere: Self Portrait

 

Waxahatchee “Saint Cloud”

Una delle sorprese per me dell’anno. Un disco che ho ascoltato e riascoltato e che mi ha fatto compagnia nei primi mesi di lockdown. Lei è Katie Crutchfield, statunitense, al quinto disco a nome Waxahatchee. E a mio avviso il migliore. Sarà che gli ingredienti che lo compongono sono tutti a me graditi, con reminiscenze di Macy Gray, Abigail Washburn, addirittura i Postal Service. Il capolavoro tuttavia è alla fine, St. Cloud, chitarra e voce all’inizio, poi poco altro in più. C’è da chiudere gli occhi e lasciarsi cullare. (per altro la qui presente utilizza un lessico pazzesco, se vi piace anche capire quello che ascoltate e vi piacciono un po’ le lingue)

Traccia da non perdere: St. Cloud

 

Honorable mentions 

Phoebe Bridgers “Copycat Killer / If We Make It Through December” Il mio guilty pleasure del 2020.

Claver Gold & Murubutu Infernvm” Un disco che andrebbe fatto ascoltare in tutti i licei. Non scherzo.

Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Pigs Viscerals Altresì detti quelli che spaccano i culi.

Non Voglio Che Clara Superspleen Vol. 1” La conclusiva Altrove/Peugeot è roba per pochissimi. 

Philip Parfitt Mental Home Recordings” In realtà è questo il disco dell’anno. Capolavoro senza senso.

 

Alberto Adustini

Mourning [A] BLKstar “The Cycle” (Don Giovanni Records, 2020)

Niente inganni, niente trucchi. È andata esattamente così.

Mi stavo apprestando ad uscire per la mia consueta corsetta e ricevuto un pacco all’ultimo momento dal partner di sudata, per darmi un po’ più di coraggio e vincere le possibili resistenze e le alternative certamente più allettanti che la mia psiche avrebbe sicuramente tentato di propormi, avevo optato per gli auricolari a farmi compagnia. Avevo già stabilito che avrei ascoltato i Fontaines D.C., perché Dogrel aveva la durata perfetta per il giro in programma (già testato, se non ci sono intoppi apro il cancello di casa a metà Dublin City Sky). Sta di fatto che mi ero appena cambiato, un’ultima scorsa al feed di Twitter, più per consuetudine che per reale necessità, quando avevo incrociato il tweet che come fai ad ignorare e più o meno recitava “Uscito oggi The Cycle. Disco dell’anno. Punto”. Per curiosità controllo se esisteva questo nome a me totalmente ignoto su Spotify, ed in effetti c’era: Mourning [A] BLKstar. 

Senza pensarci troppo su premo play e parto. Totalmente alla cieca. Precisazioni doverose: non avevo mai, mai sentito nominare questo nome, non sapevo che genere facessero (o facesse?), non sapevo da dove fossero (fosse), il nulla. E l’aspetto ancor più peculiare di tutta questa storia è che mentre scrivo queste righe sono nella stessa medesima situazione di cui sopra. Questo giro di proposito. Prima volta che mi capita nella mia gloriosa (rotfl) ultradecennale (lol) carriera (wtf) di recensore musicale di ascoltare e successivamente scrivere di un disco senza avere un minimo di contesto, due coordinate in croce, una mezza riga di biografia. A tal proposito ho sempre trovato assolutamente stimolante per possibili interminabili discussioni il passaggio di un disco dei Uochi Toki, Libro Audio, quando su L’Osservatore, L’Osservatore Primo, Napo enuncia “Non m’interessano i contesti sociali dai quali i gruppi musicali provengono, a meno che non si tratti di alieni, navi spaziali od antichi guerrieri più o meno medievali”. Ve l’ho buttata là intanto, poi un giorno magari ci torniamo.

Torniamo a me e alla mia corsa. Saranno gli auricolari di buona qualità, sarà che sto attraversando una sperduta stradina ai cui lati si distendono ettari di frumento ed altre non meglio identificate colture, sarà che a 4.50 al chilometro le difese si fanno più labili (ebbene sì, sono tornato sotto i 5 al chilometro) ma ci metto davvero poco a farmi ipnotizzare, forse trenta secondi e mi trovo a correre a Bristol con “3D” Del Naja e Beth Gibbons, che non sapevo corresse, e approfitto per dirle che mi innamoro di lei ogni qual volta la vedo fumare durante Glory Box su Roseland NYC Live. Passa poco e una traversata oltreoceano mi catapulta a Brooklyn, dove ad attendermi trovo Tunde Adebimpe e Kyp Malone, per poi spostarmi ancora verso ovest, destinazione Cincinnati, ospiti di Yoni, Adam e David e poi ancora più in là, verso la San Diego di Sumach Ecks. 

Sono queste le coordinate entro le quali si colloca questo The Cycle (ah, la copertina non ricorda tantissimo quella di Jane Doe, dei Converge?) il trip hop di matrice bristoliana targato Massive Attack e Portishead, le sfumature black dei primi TV On The Radio, il sommesso incedere dei Clouddead, il mood straniante, fuori fuoco, polveroso di Gonjasufi. Il tutto accompagnato da ottoni che suonano un peculiare klezmer sotto ketamina mentre ammiccano senza troppa timidezza in direzione Detroit, Grand Boulevard, citofonare Motown. O se volete un riferimento più recente alcuni passaggi dei The Roots.

Raggiungo la dimora sugli acuti irreali di So Young So, il tempo di una doccia e riprendo a lavorare (meraviglie dello smart working) in attesa della cena, e contestualmente riprendo l’ascolto. E non scende di livello, non perde un colpo nemmeno a cercarlo. Ecco, ascoltare questi Mourning [A] BLKstar ti lascia lo stesso senso di ammirazione (o invidia?) che provavi da bambino, quando avevi l’amico fortissimo a giocare a calcio, ma quando te lo trovavi a giocare a basket era ancora meglio, per non parlare di quando si metteva a sciare, snowboard o sci non faceva differenza. Questi stronzi fanno bene tutto (volevo scrivere dannatamente bene, come nei migliori doppiaggi italiani), qualsiasi vestito decidano di mettersi lo indossano alla perfezione, e la loro camminata rimane assolutamente inconfondibile; sono eclettici, liberi, e pieni di idee.

Ed ora, mentre in sottofondo scorrono le note di 4 Days (al minuto 5.40 quell’ipnotico passaggio dispari voce / pianoforte mi muove quasi alle lacrime), brano di chiusura di questo enorme lavoro, e non solo per i quasi 70 minuti di durata, eccovi le informazioni di cui vi sono debitore, ma che potete tranquillamente bypassare qualora la pensaste come il caro Napo: i Mourning [A] BLKstar più che una band nel senso stretto del termine sono un collettivo, di stanza a Cleveland, che ruota attorno alla figura di Ra Washington, il quale pare abbia portato dodici abbozzi di canzone in sala prove e tutti i musicisti abbiano creato e arrangiato le loro parti direttamente sul posto (delle altre sei non c’è dato sapere). Il numero dei membri varia, a vedere le foto dallo splendido loro sito e le varie line up accreditate. Ad oggi sembra siano in otto, abbiano tre cantanti e nessun bassista. Ed una bio che potrebbe rimettere tutto in discussione. O forse no:

We are a multi-generational, gender and genre non-conforming amalgam of Black Culture dedicated to servicing the stories and songs of the apocalyptic diaspora.

 

Mourning [A] BLKstar

The Cycle

Don Giovanni Records

 

Alberto Adustini