Corte degli Agostiniani (Rimini) // 08 Luglio 2019
Perché gli anni Ottanta non smettono di tornare? Questa domanda mi gira in testa da un po’ e continua a ripetersi anche mentre aspetto che Echo and the Bunnymen salgano sul palco della Corte degli Agostiniani, a Rimini, in occasione della rassegna musicale Percuotere la Mente.
Il gruppo ha avuto un discreto successo tra il 1978 e per tutto il decennio successivo, con lembi di notorietà arrivati fino ai giorni nostri.
Qualcuno li avrà scoperti grazie ad una recente cover di Manuel Agnelli nel suo programma televisivo “Ossigeno”, altri invece se li ricorderanno per la presenza di uno dei loro pezzi più celebri, The Killing Moon, nella colonna sonora nel film culto Donnie Darko, altri ancora, quelli che negli anni Ottanta avevano vent’anni, perché sono stati uno dei gruppi più promettenti della scena inglese.
Nella serata dell’8 Luglio, a Rimini, hanno riempito l’arena estiva e dato vita ad uno spettacolo godibile, anche – e soprattutto – per l’ebrezza, vera o presunta non importa, di McCulloch. Il frontman del gruppo si colloca a metà strada tra Lou Reed e Jim Morrison.
E infatti, nella scaletta non mancano una cover di Roadhouse Blues dei Doors e un accenno sfumato di Walk on the Wild Side. A onore della cronaca, bisogna dire che Ian McCulloch non dimostra affatto gli anni che l’anagrafe gli attesta.
Il pubblico presente invece è variegato: ci sono i fan di prima generazione, ma non mancano nemmeno quelli come me, curiosi o appassionati della musica inglese di quegli anni, che hanno formato i propri gusti musicali a suon di Joy Division, Siouxsie and the Banshees o Bauhaus.
La band arriva da Liverpool, e della formazione originale rimangono solo due elementi: Ian McCulloch e Will Sergeant. Gli altri membri del gruppo presenti sul palco avranno trent’anni, più o meno.
Quindi, per quale motivo, così tante persone si stringono sotto il palco a cantare le loro canzoni, nonostante da tempo non esca qualcosa di nuovo? L’ultimo loro disco risale al 2014 e non ha fatto di certo gridare al miracolo e non può essere sufficiente il fatto che quella di Rimini sia l’unica data italiana.
Allora è vero che gli anni Ottanta stanno tornando? Probabilmente no. La mia sensazione è che il problema non siano tanto gli Ottanta, quanto il presente. Nessun periodo storico è stato così ossessionato dal passato come questo.
Stiamo vivendo una sorta di “retromania”, termine utilizzato Simon Reynolds per definire quell’innamoramento totale e assoluto per un passato più o meno recente. E proprio il fatto che si tratti di un passato recente, non reinventabile e che non lascia spazio a riscritture, è curioso.
Questo culto degli anni Ottanta, che si può trovare nella musica – Echo and the Bunnymen sono solo un esempio, il meno convenzionale, senza bisogno di scomodare altri gruppi ben più famosi e ingombranti – così come nelle serie TV, è legato alle nostre ossessioni.
Non è un caso che Stranger Things sia quello che di più vicino all’immaginario pop americano degli anni Ottanta si sia visto dai tempi di Donnie Darko. Quel periodo è stato l’età dell’oro, del benessere, ma anche l’inizio del declino. Oggi non esiste uno stile musicale così rappresentativo, come lo sia stato la new wave o il post punk, per gli anni Ottanta. La trap, forse?
La verità è che le tendenze scivolano veloci tra le dita e prima che possiamo accorgercene sono già state sostituite da qualcosa di nuovo. La realtà in cui viviamo è affollata di stili e noi, in tutta risposta, ci rifugiamo in questo passato recente di cui ancora possiamo avere memoria.
Gli ultimi tempi prima di Internet, l’ultimo decennio prima dell’invasione dell’informatica e della rete. Tutto era controllabile, gestibile, sicuro. Un piccolo Paradiso Terrestre, anche per quanto riguarda la produzione musicale.
La sensazione che ho, riguardo a questa retromania, è che rallenti ulteriormente l’arrivo di un “futuro” non meglio precisato: Lady Gaga si è ispirata a Madonna, Amy Winehouse ha ripreso gli stilemi del soul anni Sessanta, i nuovi indie indossano le magliette dei Joy Division. Mentre rimango in attesa di una tabula rasa per superare finalmente questi maledetti anni Ottanta, Echo and the Bunnyman partono subito con le grandi hit.
McCulloch e compagni hanno vissuto sulla propria pelle il post-punk e la new wave, ma solo con The Killing Moon hanno ottenuto il successo che meritavano. Per anni si sono occupati di alcuni progetti solisti fino a che non è arrivata l’inevitabile reunion. Così sono tornati, acclamati da una nuova generazione di discepoli.
Gli ultimi scampoli della loro carriera possono essere imputati alla retromania, anche se gli ultimi dischi, quelli degli anni Duemila, pur senza aggiungere niente di nuovo alla loro storia, sono comunque apprezzati dai fan. Per provare a spiegare l’affetto che il pubblico gli riserva, bisogna tirare in ballo anche la personalità di McCulloch: istrione, sopra le righe e carismatico.
Occhiali da sole anche di notte e giacca di pelle con 35°C, insieme alla sigaretta in bocca è la divisa di ordinanza, manco a dirlo, degli anni Ottanta. Quando arriva il momento, The Killing Moon fa inumidire gli occhi anche dei più insensibili. McCulloch può mostrare i muscoli o deprimersi ma risulta sempre perfetto per incarnare e raccontare la complessità di un gruppo come Echo and The Bunnymen.
Dopo le prime canzoni McCulloch fa alzare il pubblico, come si conviene a un concerto come questo, chiamandolo sotto al palco. Il quadro viene completato dal tocco decisivo, che non può mancare per completare l’affresco: l’uso dei sintetizzatori.
Quello che manca, forse, è un po’ di coraggio. Non sono i Depeche Mode che continuano a sfornare nuovo materiale, Echo and the Bunnymen stanno guardando al passato. Loro avevano le canzoni, la chitarra spettrale di Will Seargent, la sezione ritmica che funzionava come una macchina e avevano Ian McCulloch, che riusciva a camminare sul filo del rasoio, tra il punk e la poesia.
Decenni dopo sono ancora qui, in questo luogo misterioso e pieno di fan in visibilio.
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+
Royal Republic
SWMRS
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Rock Planet Club (Pinarella di Cervia) // 06 Luglio 2019
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Start Tour 2019
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Stadio Renato Dall’Ara (Bologna) // 06 Luglio 2019
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Sabato 6 luglio allo Stadio Dall’Ara di Bologna è stato come ballare sulla scia temporale che mi ha riportata dritta al 1994 al mio primo concerto di Luciano Ligabue.
Cantante nazionalpopolare, Liga ci ha abituato ad una colonna sonora per ogni momento della nostra vita interpretando il cambiamento della società italiana.
Anche il più coraggioso dei suoi detrattori non potrà che confermare. O forse no.
In realtà è sempre molto figo sbeffeggiare un fan di Ligabue o affermare con un sorriso arrogante quanto questo cantante sia terribile e questo virile sport nel 2019 è addirittura arrivato al livello 5.0 con metodologie sempre più versatili.
Perchè da fastidio vederlo sul palco, tanto che c’è chi si prende la briga di scrivermi in privato per dirmi “non è più lo stesso” (classe 1960, 30 anni sui palchi, Guinnes dei Primati. Cosa vi sfugge?).
Puristi della musica, amanti degli orpelli linguistici e musicali, estimatori della “nicchia” che non vi siete mai fatti una ragione del suo seguito, lasciate che vi illumini.
Saper raccontare con semplicità e allegria la scarna realtà della nostra vita, ci fa ricordare quanto in verità siamo effettivamente lontani dai miti che vorremmo emulare.
Saper rimanere ancorati al reale per quanto possa sembrare “sempliciotto” perché “i contenuti sono sempre gli stessi” non è cosa da poco in un mondo che tende all’apparenza dimenticandosi della sostanza.
La vita vera e il conseguente racconto del reale smaschera costruzioni fantastiche e falsi miti ai quali ci raccontiamo di somigliare, ma che in realtà non ci appartengono e rispecchiano quanto di più lontanto ci possa essere a ciò che realmente siamo.
È il cinismo de “la realtà fa male” che è inaffrontabile quello che ci fa con così poca delicatezza far prendere le distanze da quello che invece ci rappresenta nella nostra interezza.
La realtà della provincia, gli amici del bar, il calcio, le botte nei denti. Il neorealismo italiano che ha caratterizzato decenni al cinema consacrando mostri sacri alla regia come Visconti, Rossellini e il nostrano Fellini.
Ed è lo stesso realismo che Ligabue ci racconta invitandoti a bere un caffè allo stadio. Ne abbiamo bevuti parecchi di caffè assieme a lui.
Alle 21:15 le luci si spengono e i maxischermi sul grande palco si accendono in un turbinio di luci.
Esaltati e un po’ commossi ci accorgiamo che come sempre stiamo compiendo un viaggio. Un viaggio chiamato “Live di Luciano Ligabue”.
Tra fan attempati come me, giovani e bambini, due ore di musica scivolano leggere tra le note di Tra palco e realtà, Marlon Brando, A che ora è la fine del mondo? e i nuovi singoli che vanno a comporre Start, il nuovo lavoro di Ligabue, uscito proprio nel 2019.
Non esente nemmeno l’attualità italiana vissuta attraverso il contest del <<quale metà dello stadio urla più forte?>> che non ha visto un vero vincitore perché come dice Luciano non importa vincere, perché a noi non importano le differenze che ci separano, ma quelle che ci uniscono.
Di concerti del rocker di Correggio ne ho visti qualcosa tipo …anta e Piccola stella senza cielo e Certe Notti mi hanno un po’ stufato (sorry) ma rimango comunque soddisfatta con la chiusa e i saluti finali sulle note dell’ormai leggendaria Urlando contro il cielo.
Un consiglio, Luciano: dedica più tempo a quelle chicche poco famose e nascoste alle quali, ingiustificatamente a parer mio, non dedichi abbastanza attenzione. Prima fra tutti Piccola città Eterna.
Come sempre grazie zio perché le serate in tua compagnia sono sempre speciali.
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+ Allusinlove
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Oltre Festival (Parco Caserme Rosse – Bologna) // 05 Luglio 2019
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Germi – Luogo di Contaminazione (Milano) // 04 Luglio 2019
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Spilla 2019
Corte Mole Vanvitelliana (Ancona) // 30 Giugno 2019
Sono le pareti pentagonali della Mole Vanvitelliana di Ancona ad ospitare, allo Spilla Festival, la penultima data del tour di Billy Corgan nel nostro paese. Un’isola architettonica costruita all’interno del porto, nel 1733, per adempiere a molteplici funzioni: lazzaretto di sanità pubblica, fortificazione a difesa del porto, deposito merci, protezione della banchina dalle onde. Un’eterogeneità di scopi a cui ho collegato, con un volo pindarico di immaginazione e nel tempo, tutti quegli spazi pubblici e/o privati da cui, nel periodo aureo degli anni Novanta, nascevano idee e rivoluzioni. Scantinati, garage, palestre dei licei, locali underground erano teatro di aggregazione, condivisione, ricerca di personalità attraverso un unico e potentissimo strumento: la musica.
Quelle sono le origini degli Smashing Pumpinks, band che ha consacrato Corgan come icona del rock mondiale e band dalla quale, oggi, di tanto in tanto, si congeda per omaggiare la sua carriera solista e, in particolare, il disco Ogilala, pubblicato nel 2017.
Ad accogliere l’artista c’è un parterre adulto e nostalgico di 1500 persone che, dopo l’apertura di Katie Cole, cantautrice country/rock australiana nonché bassista degli Smashing Pumpinks tra il 2015 e il 2016, acclama il protagonista con gran fermento. Ecco apparire sul palco William Patrick Corgan, avvolto nella sua aurea oscura, con una mise completamente nera e con una vistosa spilla sul colletto, come un amuleto a proteggere la voce. Lo show si apre con brani inediti, suonati in acustico, accompagnati solamente dalla cinque corde stellata e dal pianoforte. Una scelta coraggiosa, consapevole, volta a sottolineare l’impronta intimista che caratterizza il presente del musicista. Una scelta che, però, non stupisce i fan più esperti che commentano: <<Che cosa ti aspetti da uno che, al Firenze Rocks con gli Smashing, nonostante avesse soltanto 75 minuti a disposizione ha proposto due outtake di Zeitgeist (Francesco non potevo non citarti) >>. Dopo il duetto con Katie Cole in Buffalo Boy e Dance Hall, Corgan si scioglie un po’, ammira la bellezza della location, inizia a dialogare con il pubblico. Sedutosi al pianoforte, spiega: <<Questa è una canzone dedicata a mio figlio. Come nelle mie, anche nelle sue vene scorre sangue di origine in parte italiana>> – e conclude, scherzando – << Sapete che non è sempre così facile…!>>.
La solennità torna a far da padrona. La meravigliosa Aeronaut è eseguita in modo impeccabile. Esplode la vocalità accorata, toccante, a tratti nasale, disperatamente acida, acuta, da sempre suo tratto distintivo e elemento preponderante nei pezzi estratti da Ogilala che si susseguono, uno dopo l’altro. Half-life of an Autodidact è l’occasione per apprezzare la serenità raggiunta, finalmente, a 52 anni: <<Quando ero giovane, speravo di morire prima di invecchiare. Oggi, a questa età, posso solo dire che è una figata>>. Una piccola svista in The long goodbye è compensata dal coro della folla che continua, comunque, a cantare, ricevendo un cenno divertito di ringraziamento da Billy. Zowie, non dedicata a David Bowie ma un tributo al grande artista come tiene a precisare, rappresenta il brano di chiusura del primo set: <<Tra poco tornerò sul palco per la seconda parte, riservata alla colonna sonora del momento in cui avete perso la verginità, di quella volta in cui vi siete innamorati e di quando, invece, vi hanno spezzato il cuore>>.
La successiva sezione è, infatti, il tripudio dei brani più celebri degli Smashing Pumpinks. Si parte con Wound, per poi riconoscere subito le prime note di Thirty-Three, scesa direttamente dal cielo stellato di Mellon Collie and the Infinite Sadness. Occhi lucidi, commozione, abbracci in Tonight, Tonight e 1979, inni del ricordo dell’adolescenza, del vivere in equilibrio su un filo, tra una festa e l’altra, tra jeans e polvere, nella convinzione, nell’illusione che tutto quello non potesse avere fine. Una toccante versione di To Sheila sfuma negli accordi inconfondibili di Wish you were here dei Pink Floyd, mentre Disarm, che attendevo forse più di ogni altro brano, risuona tra il bianco e il nero dei tasti del pianoforte, come colonna sonora di rapporti burrascosi, di sorrisi che spezzano il fiato, di ferite e di demoni con il coltello fra i denti che passano da un cuore all’altro, da un’interiorità all’altra.
<<Questo è l’ultimo brano…poi dobbiamo salutarci>> – dichiara Corgan – <<Ma come fate a dire no! Non andate a lavorare domani?! Wow che bella nazione!… Invece io devo rientrare. Mi aspettano l’hotel e anche un po’ di droga>> – ride (sì, è stato capace anche di ridere!).
Today è il capolavoro che suggella e chiude una performance ricca di emozioni, indiscusso talento, conferme ma anche soprese e nuove scoperte su questo gigante della musica internazionale. La prova e riprova di essere, con altissima probabilità, il più geniale songwriter della sua epoca. L’interazione con i suoi sostenitori, da non dare mai per scontata. L’abbandono, in parte, di quell’aria autoreferenziale di cui si era circondato durante il corso della carriera. Il cinismo che diventa ironia. La dimostrazione che, nel tempo, grazie alla catarsi e all’effetto liberatorio della musica e della vita, l’inquietudine può trasformarsi in ispirazione, in motori artistici, in nuovi inizi. Certi spettri possono essere ammansiti, domati o semplicemente accettati per apprezzare l’oggi, il più bel giorno mai conosciuto.
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Testo: Laura Faccenda
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