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Tag: Music

Marco Mengoni @ RDS_Stadium

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• Marco Mengoni •

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RDS Stadium (Rimini) // 29 Maggio 2019

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[/vc_column_text][vc_column_text]Fuori piove e fa freddo, in questo maggio che sembra novembre, ma dentro il palazzetto va a fuoco.

La penultima tappa dell’Atlantico Tour di Marco Mengoni all’RDS Stadium di Rimini è un live da tutto esaurito. 

Di concerti ne ho visti nella mia vita e, devo ammettere, che un pubblico così caldo, così entusiasta, moltissimi artisti della scena rock, alternativa o underground che dir si voglia, possono solo sognarselo. 

Una ventina di minuti dopo le nove si inizia. 

Il palco è diviso in tre livelli: c’è una sorta di fondale industriale, di ferro e lamiera, con barre a led e uno schermo trasparente, che all’occorrenza può rendersi invisibile. Sul proscenio invece un telo in stile teatro kabuki nasconde le sagome dei coristi.

Si parte con Muhammad Ali. Il brano, tratto dall’ultimo album, in questa occasione è stato completamente riarrangiato con l’inserimento di un canto tribale. Questo non sarà l’unico elemento etnico presente nello spettacolo.

 In due ore, Mengoni è riuscito a introdurre tantissime sonorità latine e brasiliane, e non mancano i richiami alla musica soul o africana.

Sul monitor appare la celebre frase del campione di pugilato, “I’ma show you how great I am” e Marco Mengoni salta, letteralmente, fuori dal palco da una botola nascosta. 

Sul secondo pezzo, Voglio, cade il velo kabuki e si svela il palco nella sua interezza. Ho letto in qualche intervista che l’ispirazione di questa struttura arriva dritta dritta dai Talking Heads.

Come il loro, e con le dovute proporzioni, anche quello di Mengoni è uno show che si trasforma sotto gli occhi del pubblico. Il ritmo è scandito da effetti di luce e laser.

Lo show è suddiviso in tre parti, inframmezzate da alcuni monologhi. 

Il primo, Sei tutto è stato scritto dallo stesso Marco, e recita “sei tutto il male che eviti e quello che affronti fino in fondo” e apre la strada al secondo momento del concerto con La Ragione del Mondo, uno dei brani più emozionanti dell’ultimo disco. 

Tra il pubblico giurerei di aver visto anche qualche lacrima.

L’intro di Buona Vita invece si fonde con le sonorità dei Buena Vista Social Club di Compay Segundo, musica che Mengoni ci racconta di aver ascoltato a lungo, durante la realizzazione di Atlantico. 

La casa Azul invece è dedicata a Frida Kahlo.

In questi anni Mengoni ha viaggiato e si vede. Il suo è uno show ricco, non barocco, ma ricco. Di parole, di sensazioni, di colori. Ha cercato di portare sul palco tutto quello che è oggi, la sua caleidoscopica personalità. 

La mia sensazione è che Marco Mengoni in questi anni sia diventato grande, più consapevole. Si è liberato dalla maschera di cantante pop che piace alle ragazzine per diventare un artista completo.

Con Atlantico è riuscito a mettere in piedi, coadiuvato da una grande squadra, come spesso ricorda durante il concerto, uno show articolato, che unisce musica e contenuti.

Nonostante questo, lui è lì per cantare e sembra non dimenticarsene mai. I balletti ci sono, gli ammiccamenti anche, ma la musica rimane il centro di tutto questo.

Arriva un secondo monologo: la citazione in apertura è dello scienziato James DewarLa mente è come un paracadute, funziona solo se si apre”. 

Secondo Marco non c’è altra soluzione per sopravvivere a questo mondo, descritto da titoli di giornale che parlano di inquinamento, intolleranza e isolamento.

“Siamo stati più belli di così, più onesti, più buoni. Siamo stati più comprensivi forse, più umani, più giusti“, ed è la gentilezza il segreto, “be pitiful, for every man is fighting a hard battle” come recita l’aforisma di Ian McLaren a chiusura del testo.

La terza parte del concerto è quella più densa di emozioni. Si parte con Guerriero.

Sul pubblico vengono calate delle passerelle sospese, che Mengoni usa per avvicinarsi ancora di più alle persone. Vuole bene al pubblico, è palese, e il pubblico vuole bene a lui. 

L’Essenziale vede Marco per la prima volta seduto al piano forte. Per quanto mi riguarda, è uno dei momenti più belli del concerto.

Quello che mi piace di Mengoni è che dà l’idea di essere proprio come appare. Un ragazzo semplice, che non ha dimenticato da dove viene. Nonostante questa umiltà, è uno che sul palco ci stare. Ci sa stare, eccome.

Il pubblico di Mengoni è devoto: quando chiede di spegnere tutte le luci e alle persone di mettere via gli smartphone per concentrarsi sulla musica per il tempo di una canzone, la gente lo fa.

Così, nel 2019 un intero palazzetto lo ascolta cantare al buio, senza il telefono in mano. Lo scambio con i fan è infatti uno degli aspetti più interessanti di questo live: è spontaneo e diretto, senza artifici e senza sovrastrutture.

Dopo circa due ore, e dopo un lungo viaggio attraverso questi ultimi dieci anni di musica, lo show giunge alla fine.

Ammetto di aver pensato, di lui come di tanti altri usciti da un talent, che forse non sarebbe arrivato dove è ora, senza una trasmissione come X Factor. Stasera mi sono ricreduta.

Marco, al di sopra di qualunque chiacchiera sul destino o la fortuna, ci sarebbe arrivato comunque su questo palco, e su tanti altri. Forse ci avrebbe messo più tempo, è vero, ma di mestiere ne ha da vendere.

Quello che oggi mostra al pubblico non è frutto di improvvisazione, ma di lavoro. È il risultato di un talento, e non di un talent.

Mengoni è un bravo artista, uno che è riuscito a prendere le giuste misure e a colorare la propria musica con toni diversi, a volte soffusi, a volte vivaci, altre malinconici, senza mai tradirsi. 

Vorrei chiudere con sue parole, prima di lasciare il palco e ringraziare per la decima volta le persone che sono venute a sentirlo: “questo non è un concerto di Marco Mengoni, questo è un concerto di tutti noi e di tutti voi“.[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Testo: Daniela Fabbri

Foto: Luca Ortolani

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Sei tutto l’Indie Fest vol. III

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• Sei tutto l’Indie Fest vol. III •

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Scarda
La MUNICIPàL
Auroro Borealo
UkuLele
Adelasia

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Monk (Roma) // 18 Maggio 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Matteo Cassoni

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Ultimo @ Mediolanum_Forum

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• Ultimo •

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Mediolanum Forum (Milano) // 16 Maggio 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Johnny Carrano

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Grazie a VIVO Concerti

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Built to Spill @ VoxHall

Aarhus, 13 May 2019

It’s a sunny spring evening in Aarhus and VoxHall is open tonight to host Built to Spill, on their tour to celebrate the twentieth anniversary of Keep It Like a Secret.

The concert is scheduled to start at 20:00, and a few minutes before the opening band takes the stage I enter the venue and I find it suspiciously desert: a handful of people, a few known faces and most of the attendees enjoying a drink beyond the bar that shields the floor from the golden light coming from the wide windows looking at the small river that cuts the city.

Lights dim and Oruã from Brasil start playing: dark, noisy guitars, hypnotic drums and a vocal attitude that recalls Cedric Bixler-Zavala. Listening to them was a continuous in and out of a timeless dimension, a sort of black hole inside of which there was music but on the outside time was passing very slowly: to me, the hour of their set seemed longer than the twelve years I had to wait to see Built to Spill again.

By the time Oruã set was over, the venue was a bit more crowded, but still far from the expectations: why? …and the answer is: there is another band to go!!!

A bit scared of another endless hour of wait, I lean on the barrier in front of the stage with no expectations at all.

The second band of the bill is Slam Dunk from Canada, a happy crazy quartet on their last date of the tour. Their rock is fresh and catchy, their attitude on the stage a storm of energy: jumps, jokes and messing around are the perfect entertainment to keep the crowd awake and allow the late people to fill the floor.

Once they carry out of the stage their guitars, there is nothing much to arrange to host the main act of the night, as all the three bands share the same drum kit, a few ampli on the back of the scene and… basically that is it: simple, open, essential, a setup that is so typically Built to Spill.

Doug Martsch walks in, carrying his inseparable backpack, like he is just another sound tech, as usual: he sets up his pedals, whatever he has on top of a case next to the mic and as soon as the three other touring members of the band take the stage, he starts. Not a word, but You Were Right, the eighth track of the record we are here to listen to.

It is an interesting choice, the fact of playing every evening the tracklist of the record shuffled: most of the bands, when they play an anniversary-of-some-record show, play the record top to bottom. How innovative. Despite I could understand that it is what the audience expects, it is also true that listening to very well known songs in a different order sparkles something new, a nuance that you would not have noticed otherwise, and that is the magic and the craftsmanship of a live show.

There are no frills on the stage, the lights are wisely balanced to allow the crowd to see the musicians on the stage but at the same time low enough to give a feeling of intimacy. The songs flow one after the other with no effort: Time Trap arrives and goes, I am completely lost in the extended guitar solos; The Plan, memories of a past life that come back.

Sidewalk, a string on Doug’s guitar breaks and in front of a full house, on the stage, there it is, the embodiment of humility: a man and his only guitar, no fancy backups, no frenetic helpers that come and change it because show must go on, no. The band keeps playing without looping, improvising a solo that it seems it has always been there, as part of the song, and in the meantime the string is changed, a truly genuine moment.

The main set ends with Broken Chairs, during which I cannot help taking the following note while I am both lifted and intimidated by the guitar solos: “these solos are some of the finest examples of musical architecture, precisely built to be both slender and solid like the arches in a gothic cathedral: clean, immense and strong enough to carry the weight of a heart full of the emotions”.

The band leaves the stage, but we all know they will be back because one song is missing from the setlist played so far, and it is probably the gem of the album: Carry the Zero.

It is not time to say goodbye yet, so before we get to the closing of the concert, we are treated with a handful of songs that spans through the whole production of the band, and a cover, and a stage invasion by the opening bands and finally, with dimmed lights and a slight melancholic feeling, we finally get to that carried zero that changes everything.

I am well aware those are the last minutes of a one and a half hour delight and on those parting words a hint of sadness slips under my skin — luckily, those two wild clowns of Slam Dunk frontmen show up on the stage again, transforming this intimate goodbye into a party, while a shy smile finds its way on Doug Martsch’s face.

Pictures courtesy of Steffen Jørgensen

ita

Miles Kane @ Santeria

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• Miles Kane •

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+ Angelica

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Santeria Toscana 31 (Milano) // 15 Maggio 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Alessandra Cavicchi

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AngelicA

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Grazie a Indipendente Concerti

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Built to Spill @ VoxHall

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• Built to Spill •

 

VoxHall (Aarhus) // 13 Maggio 2019

 

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]È una soleggiata serata primaverile ad Aarhus e il VoxHall è aperto stasera per ospitare i Built to Spill, in tour per celebrare il ventesimo anniversario di Keep It Like a Secret.

Il concerto inizia alle 20:00, e pochi minuti prima che il gruppo di apertura salga sul palco, entro nel locale trovandolo sospettosamente deserto: una manciata di persone, qualche faccia conosciuta e la maggior parte della gente che si gode un drink dall’altra parte del bar che si separa l’area concerto dalla luce dorata che entra dalle ampie finestre sul fiumiciattolo che attraversa la città.

Le luci si abbassano e gli Oruã dal Brasile iniziano a suonare: chitarre cupe e rumorose, ritmi ipnotici e una voce che strizza l’occhio a quella di Cedric Bixler-Zavala. Ascoltarli è un continuo entrare ed uscire da una dimensione senza tempo, una sorta di buco nero al cui interno c’è musica ma al di fuori il tempo scorre molto lentamente; per me, l’ora del loro set è stata più lunga dei dodici anni che ho dovuto aspettare per rivedere i Built to Spill.

Alla fine del set degli Oruã, il locale è un po’ più pieno ma ancora lontano dalle aspettative: perché? …e la risposta è: c’è ancora un’altra band!!!

Un po’ spaventata dal pensiero di un’altra infinita ora di attesa, mi appoggio alla transenna senza alcuna aspettativa.

Il secondo gruppo della serata sono gli Slam Dunk dal Canada, un quartetto pazzo e felice alla loro ultima data del tour. Il loro rock è allegro e coinvolgente, il loro atteggiamento sul palco un uragano di energia: salti, scherzi e confusione sono il perfetto intrattenimento per tenere il pubblico sveglio e permettere alle ultime persone di riempire il locale.

Finito di portar via dal palco le loro chitarre, non resta molto da sistemare prima dell’arrivo del nome principale della serata, in quanto i tre gruppi condividono la stessa batteria, qualche amplificatore sul fondo della scena e… fondamentalmente è tutto lì: semplice, aperto, essenziale, un allestimento così tipicamente Built to Spill.

Doug Martsch entra come se fosse solo un altro tecnico del suono, portando in spalla il suo zainetto come al solito: si prepara la pedaliera, sistema non so cosa sopra ad una cassa di fianco al microfono e non appena gli altri tre membri del gruppo entrano in scena, inizia. Non una parola, ma You Were Right, l’ottava traccia dell’album che siamo qui ad ascoltare.

È una scelta interessante, quella di suonare ogni sera la tracklist dell’album mischiata: la maggior parte dei gruppi, quando suonano un qualche anniversario di disco, suonano il disco dall’inizio alla fine. Quanta originalità. Nonostante possa capire che quello sia ciò che il pubblico si aspetta, è anche vero che ascoltare canzoni che conosciamo bene in un ordine diverso può far emergere qualcosa di nuovo, delle sfumature che magari non avremmo colto altrimenti, e questa è la magia e l’artigianalità di uno spettacolo dal vivo.

Non ci sono fronzoli sul palco, le luci sono sapientemente bilanciate da permettere al pubblico di vedere i musicisti sul palco, ma allo stesso tempo abbastanza basse da dare un senso di intimità. Le canzoni scorrono una dopo l’altra senza sforzo: Time Trap arriva e se ne va, io sono completamente persa negli assoli dilatati delle chitarre; The Plan, ricordi di una vita passata che riaffiorano alla mente.

Sidewalk, una corda della chitarra di Doug si rompe e di fronte al locale pieno, sul palco, c’è l’impersonificazione della parola umiltà: un uomo e la sua sola chitarra, niente costosi backup, niente aiutanti frenetici che arrivano con una chitarra fresca perché lo spettacolo deve continuare, no. Il gruppo continua a suonare, ma senza entrare in loop, improvvisando assoli come se fossero sempre stati lì, parte della canzone, e nel frattempo la corda viene cambiata in un momento di vera autenticità.

Il set principale si chiude con Broken Chairs, durante la quale non posso fare a meno di annotarmi il seguente pensiero mentre sono al contempo sollevata ed intimorita dall’assolo di chitarra: “questi assoli sono tra le più raffinate architetture musicali, costruiti con precisione per essere snelli e solidi come gli archi in una cattedrale gotica: puliti, immensi e forti abbastanza da sostenere il peso di un cuore pieno di emozioni”.

La band lascia il palco ma sappiamo tutti che torneranno, perché manca una canzone dalla scaletta suonata finora, ed è probabilmente la perla dell’album: Carry the Zero.

Non è ancora un vero e proprio commiato, perciò prima di arrivare alla conclusione del concerto siamo coccolati con una manciata di canzoni che coprono l’intera produzione del gruppo, e poi una cover, e poi un’invasione di palco da parte dei gruppi di apertura e poi, finalmente, con luci soffuse e un vago senso di malinconia, arriviamo a quello zero riportato che cambia ogni cosa.

Sono ben consapevole che questi sono gli ultimi minuti di un’ora e mezza deliziosa e sulle parole d’addio della canzone un accenno di tristezza s’insinua in me — fortunatamente, quei due pagliacci sgangherati dei frontmen degli Slam Dunk tornano sul palco di nuovo, trasformando questo intimo arrivederci in una festa, mentre un timido sorriso si fa largo sulla faccia di Dough Martsch.

 

Francesca Garattoni
Foto per gentile concessione di: Steffen Jørgensen

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[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1503314301745{padding-top: 10px !important;padding-bottom: 11px !important;}”][vc_column][edgtf_image_gallery type=”masonry” enable_image_shadow=”no” image_behavior=”lightbox” number_of_columns=”three” space_between_items=”tiny” image_size=”full” images=”13683,13686,13691,13694,13692,13690,13689,13688,13685″][/vc_column][/vc_row][vc_row content_text_aligment=”center” css=”.vc_custom_1557864717992{padding-top: 0px !important;padding-bottom: 0px !important;}”][vc_column][edgtf_image_gallery type=”masonry” enable_image_shadow=”no” image_behavior=”lightbox” number_of_columns=”three” space_between_items=”tiny” image_size=”full” images=”13684,13693,13687″][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]

en

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Wacken Open Air: Tre giorni di musica Metal!

Era il 1990 quando il villaggio di Wacken, nel Nord della Germania a circa 70 km da Amburgo, ospitava il primo Wacken Open Air. All’epoca si esibirono 6 band tedesche e parteciparono circa 800 spettatori.

Nel 2019, alla trentesima edizione, il festival si conferma essere uno dei principali eventi heavy metal a livello mondiale, con la presenza di 200 gruppi internazionali e un pubblico di 80.000 persone.

Le vendite hanno fatto registrare il tutto esaurito per 15 anni consecutivi. Dal 2008 ogni anno viene infranto il record di sold out anticipato, fino ad arrivare al 2015, quando i biglietti sono stati venduti tutti in 12 ore.

Negli anni hanno partecipato al W:O:A band del calibro di Nightwish, Iron Maiden, Motörhead, Mötley Crüe e Judas Priest, oltre ad artisti come Alice Cooper e Ozzy Osbourne. Una menzione particolare va fatta anche ai nostri Lacuna Coil presenti a più edizioni.

Quest’anno sarà la volta di Airbourne, Slayer, Anthrax, Of Mice & Men e Within Temptation.

Dall’1 al 3 agosto i campi intorno a Wacken verranno invasi dalle tende da campeggio dei partecipanti e verrà allestita una vera e propria città in cui le migliaia di persone, accomunate soltanto dalla voglia di esserci, vivranno per la durata dell’evento.

Ci saranno 8 palchi, una chiesa per speciali concerti in acustico, ristoranti e beergarden in piena tradizione tedesca.

Se qualcuno, per assurdo, si stancasse di assistere agli spettacoli potrebbe distrarsi in piscina o con i numerosi eventi collaterali proposti.

L’appuntamento per ogni fedele del metal, anche quest’anno, è a Wacken.

 

Mirko Fava

 

Still Corners @ Largo_Venue

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• Still Corners •

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+ True Sleeper

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Largo Venue (Roma) // 13 Maggio 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Simone Asciutti

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True Sleeper

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Grazie a Radar Concerti | Astarte

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The Get Up Kids @ Locomotiv_Club

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• The Get Up Kids •

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+ Muncie Girls

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Locomotiv Club (Bologna) // 13 Maggio 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Luca Ortolani

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Muncie Girls

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SETLIST:

The Get Up Kids

002

 

Muncie Girls

 

000

 

 

Grazie a Hellfire Booking Agency

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Lenny Kravitz @ Unipol_Arena

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• Lenny Kravitz •

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Unipol Arena (Bologna) // 12 Maggio 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Si presenta sul palco dell’Unipol Arena di Bologna con gli immancabili pantaloni a zampa, kimono di seta, occhiali a specchio e capelli assurdi. 

Eccentrico, stiloso e stravagante, l’ormai 55enne Lenny Kravitz guadagna il sold-out con il suo Raise Vibration Tour, attirando persone da ogni parte d’Italia. 

Il live inizia alle 21.20 con We Can Get It All together seguita da Fly Away, in assoluto la mia preferita, che fa esplodere una festa di cori e canti scatenati a cui ho contributo attivamente traumatizzando con le mie urla il ragazzo seduto accanto a me! 

Dopo Dig In e Bring It On le note di American Woman sfumano nel ritmo reggae di Get Up, Stand Up tributo al cantautore jamaicano Bob Marley deceduto proprio l’11 maggio di 38 anni fa. 

Quando si avvicina alle transenne per salutare i fans è subito strage di cuori, il pubblico femminile intorno a me è in delirio, lo definisce “illegale”, grida “nudo” e “ti amo” sperando che prima o poi si tolga quel kimono… 

Impossibile dar loro torto, il suo sex-appeal regna su tutto e tutti, si muove e gesticola in maniera estremamente affascinante, è completamente padrone del palco, una vera rockstar! 

Dopo una serie di pezzi più recenti arrivano i cavalli di battaglia: con I Belong To You e Mr. Cab Driver è impossibile non cantare e ballare insieme a lui che ci incita a battere le mani e decide di fare un giro nel parterre in mezzo alla folla scortato dalla security, muovendo onde di persone in estasi che si fiondano nella sua direzione sperando di riuscire a raggiungerlo per poterlo almeno sfiorare. 

Sugli spalti tutti si alzano in piedi, Lenny si ferma qualche minuto sulla pedana rialzata al centro del palazzetto per poi tornare sul palco e concludere la sua performance con Again, salutando infine il suo pubblico con autografi su CD e magliette dei più fortunati. 

Ho avuto occasione di essere sua spettatrice già 3 volte, di cui la prima ben 10 anni fa, e ho constatato che vederlo dal vivo è sempre un’esperienza strepitosa, è impeccabile e sa fare tutto, amalgama rock, soul e blues sfoderando un mix di tecnica ed esperienza, supportato da una band di tutto rispetto che completa, insieme alla sua voce inconfondibile, un coinvolgimento emotivo a mio avviso davvero speciale. 

Credo che nessuno sia rimasto deluso, in questa domenica piovosa come alternativa a divano e TV direi che non è affatto male! 

Mi ha lasciato la voglia di riascoltarlo in auto durante tragitto di rientro a casa e sono certa che da domani avrò la sua playlist in loop su tutti i miei dispositivi, in attesa di un suo nuovo tour a cui di sicuro non mancherò! 

 

Testo: Silvia Gardelli

Foto: Luca Ortolani

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Grazie a D’Alessandro & Galli

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Millencolin @ Vidia_Club

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• Millencolin •

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+ WOES

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Vidia Club (Cesena) // 04 Maggio 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Valentina Bellini

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WOES

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Grazie a Hub Music Factory

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Scimmiasaki @ Porcelli

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• Scimmiasaki •

 

Porcelli Tavern (Amelia) // 26 Aprile 2019

 

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È venerdì 26 aprile e fuori dal Porcelli Tavern, locale che ha vita nel centro di Amelia (TR) dal 1987, si avverte l’attesa. Ci si chiede quando inizierà il Release del nuovo album degli Scimmiasaki, Trionfo. Terzo lavoro per la band alt rock composta da Giacomo, Santian, Peppe e Niki, Trionfo uscirà (non sappiamo ancora quando) per Vina Records.

Sono passati 3 anni da Collasso, un EP che ha aumentato l’attesa e le aspettative dei fan. Trionfo infatti è un neonato ma con una gestazione di almeno un anno.

A mezzanotte il live non è ancora iniziato e continua ad arrivare gente.

Entrando nel Porcelli si fa fatica a passare, il bancone è gremito di persone e attorno ai tavoli ci si ritrova parlando del più e del meno. Ci addentriamo nella stanza sottostante al Pub e al primo accordo tutti si fiondano dentro.

Il palco è scarno e basso, rialzato dal pavimento di pochi centimetri. Dietro alla band l’unico pezzo scenografico è il banner con la grafica di Alessandro Ripane. Ma tutti gli occhi sono su di loro. Il posto è colmo.

Il concerto comincia con Vorrei, arpeggi solitari troncati da stacchi strumentali adrenalinici. Poco più di due minuti di musica e un breve testo “in fuga” verso la felicità. La gente è in ascolto, interessata e curiosa.

Qualcuno mi ha confessato di come fosse strano non conoscere e cantare le nuove canzoni, eppure Trionfo è familiare e le sonorità ormai caratteristiche degli Scimmiasaki non mancano.

Basta qualche nota del quarto brano Stringere (da Collasso), per far sì che gli spettatori rompano il ghiaccio e inizino a ballare. Il pubblico si scatena, canta e si unisce all’urlo collettivo di “Stringere!”. Sembra quasi una famiglia.

Il singolo, Trionfo, si apre con pochi secondi di chitarra ed esplode immediatamente nel ritornello, uno di quelli che ti resta in mente davvero. Sono già in molti a cantarlo, pur essendo uscito due giorni prima insieme al video di Flavio Gasperini.

A metà concerto, dei problemi tecnici con le luci portano il palco e la band alla penombra ma questo non oscura affatto il carisma degli Scimmiasaki.

Giostra è il pezzo più lungo, forse un po’ lontano dalle peculiarità dell’album. Il ritornello è disteso, quasi romanticizzante ed è seguito da uno strumentale al quale si sovrappone una simil litania: “Sento dire sempre le stesse cose”. Ipnotizzante.

Canzone priva di un refrain nel senso letterale del termine è Castello. La frase ridondante “Sono felice” però non può non entrarti in testa.

A chiudere il concerto c’è il bis del singolo. È come l’ultima spinta: una liberazione consapevole e già nostalgica. Il travaglio è stato lungo ma ne è valsa la pena.

Benvenuto Trionfo, “anche se il mondo è grande non è troppo per me” cit.

 

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Testo: Cecilia Guerra

 Foto: Simone Asciutti

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