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Tag: noah gundersen

VEZ5_2021: Laura Faccenda

Quando l’anno scorso avevamo pensato alle VEZ5, l’avevamo fatto perché ci sembrava un buon modo per tirare le nostre personali somme musicali dopo un anno particolare in cui la musica era stata contemporaneamente conforto e nostalgia. Per quanto non abbia raggiunto gli stessi livelli — anche se ci ha provato — il 2021 si è mantenuto un po’ sulla stessa scia del suo predecessore, quindi eccoci di nuovo qua, anche quest’anno, a tirare le nostre fila nella speranza di riuscire a tornare il prima possibile e in modo più normale possibile sotto un palco.

 

Nell’opinione comune, dopo un annus horribilis come quello segnato dalla pandemia, il 2021 avrebbe dovuto essere lo spartiacque per la ripresa, per il ritorno alla normalità e – considerando il posticipo di tutti i tour di band nazionali ed internazionali – il momento per rivivere la musica live, di fronte ad un palco. Non è andata esattamente così. Ci sono stati timidi tentativi che hanno donato una boccata d’aria ma la percezione che prevale è ancora la mancanza di un contatto diretto con le setlist ricche dei cavalli di battaglia e di nuovi brani delle nostre band del cuore. Nell’attesa, ciò che ha contraddistinto il mio anno di ascolto è stato uno spirito irresistibile verso le nuove scoperte, nei meandri di Spotify, attraverso quei viaggi tra playlist ed artisti che non ti aspetti. Ho amato intersecare i dischi che ho sempre amato con quelli inediti alle mie orecchie, per rintracciare i collegamenti, le vicinanze e le dissonanze. Per conoscere nuovi territori di suoni e – come accade sempre con la musica – per conoscermi meglio.

 

Noah Gundersen A Pillar of Salt

Ok, lo ammetto. È il mio artista del cuore ma l’ultimo album di Noah Gundersen è davvero il lavoro in studio che racchiude e concilia le molteplici ispirazioni e sfumature della sua musica. Dal folk rock alla sperimentazione elettronica, dall’impostazione cantautoriale al sound più frammentato e contemporaneo. Un viaggio tra passato e presente che apre ad una dimensione pacificata, matura. Una riappacificazione con ricordi – e rimpianti – per uno slancio fiducioso verso il futuro. Ne avevamo parlato anche qui.

Traccia da non perdere: Body

 

Manchester Orchestra The Million Masks of God

L’attesa per questo disco è stata incontenibile. Un po’ per l’inevitabile scia lasciata da un capolavoro come A Black Mile To The Surface, un po’ perché la band capitanata da Andy Hull è sempre sinonimo di qualità. I primi singoli Bed Head e Keel Timing, collegati tra loro da un gioco di intro e fading, lasciavamo presagire il meglio. Ed è stato così. The Million Masks Of God rappresenta il salto di qualità del gruppo di Atlanta: identità e personalità confermate, timbro, testi ed arrangiamenti inconfondibili, asticella artistica abbondantemente superata. L’effetto sull’ascoltatore è accostabile al protagonista della copertina: un esploratore che, con torcia in mano, ha davanti a sé un mondo.

Traccia da non perdere: Telepath

 

Architects For Those That Wish to Exist

Rabbia, dolore, lutto, ma anche reazione, fiducia e nuovi spiragli. Un universo di emozioni contrastanti emerge da For Those That Wish To Exist degli Architects, per un risultato che ha fatto rimanere a bocca aperta anche i “non cultori” del genere metalcore/progressive (tanto che i puristi hanno tacciato il gruppo capitanato da Sam Carter del solito, ridondante avvicinamento al mainestream). Un’opera epica nelle atmosfere, nel sound e nel valore. Ciliegina sulla torta: il featuring con Simon Neil dei Biffy Clyro che, per l’occasione, sfodera la sua veste più estrema e meravigliosamente fuori dagli schemi.

Traccia da non perdere: Goliath (ft. Simon Neil)

 

Julien Baker Little Oblivion

La giovanissima artista statunitense con Little Oblivions si conferma come una delle soliste più talentuose e promettenti del panorama musicale internazionale. La delicatezza della sua modalità di composizione – essenziale, prevalentemente acustica e dotata di un raffinatissimo labor limae – prende per mano l’ascoltatore e lo conduce in una dimensione intima di esperienze e confessioni quotidiane. Me ne ero già innamorata per il progetto Boygenius con Phoebe Bridgers e Lucy Dacus (l’EP omonimo del 2019 è un gioiello). Il mio amore per Jiulen è raddoppiato.

Traccia da non perdere: Song in E

 

The Weather Station Ignorance

Una band che non conoscevo e che ho ascoltato grazie ad un sapiente suggerimento. Ne sono rimasta folgorata. Non è indie, non è alternative rock, non è folk non è progressive, non è jazz. Ma sono tutte queste cose messe insieme, in uno scrigno artistico raro e prezioso. Ascoltateli.

Traccia da non perdere: Robber

 

Honorable mentions 

Silk Sonic An Evening with Silk Sonic – Il fantasmagorico duo formato da Bruno Mars e Anderson  .Paak sfodera l’album d’esordio del progetto che è davvero troppo perfetto per essere vero.

 

Laura Faccenda

Noah Gundersen “A Pillar of Salt” (Cooking Vinyl, 2021)

Spesso, gli incontri più significativi sono quelli che sfuggono ad ogni possibilità di previsione. Ero lì, assorta nel tentativo di fare ordine nella mia stanza o in qualche luogo interiore, tra battiti accelerati e lacrime nascoste. La porta? Credevo di averla chiusa. Invece no. Non ha bussato, è entrato con delicato fragore. Irrinunciabile, da lì in avanti. After All (White Noise, 2017) è stato il brano con cui si è presentato. Tra parentesi, in maiuscolo, apparivano anche altre quattro parole: (Everything All the Time), per un universo di senso. Ho voluto sapere chi fosse, da dove avesse ereditato quei tratti tanto decisi quanto fragili, da dove venisse. Sulla provenienza, molte delle fonti hanno sempre rimandato a Seattle, città sacra per coloro che sono cresciuti con il suono sinonimo degli anni Novanta, della rabbia che diventa urgenza espressiva, dell’imprinting del grunge. Ed è proprio dalla città di smeraldo che si snodano i fili di A Pillar Of Salt (Cooking Vinyl), il nuovo album di Noah Gundersen. 

Per presentare il singolo apripista, Sleepless in Seattle — suonato per la prima volta in un’insospettabile diretta nel marzo 2020, durante il lockdown, e riproposta in anteprima un anno dopo all’interno del format in streaming Songs & Conversation — l’artista ricorda il suo trasferimento nella metropoli, nel 2009. Un bagaglio carico di passione per quei luoghi, per le band che li hanno resi sacri, per lo spirito che animava un’intera scena. Un sogno da trasformare in realtà a qualunque costo, crescendo tra club e performance live, pubblicando sei dischi, stringendo amicizie, perdendo persone care. La bussola, però, sempre posizionata su un “nord” chiamato Space Needle che vegliava sulla possibilità di far sentire la propria voce. Dieci anni dopo, quella voce — accompagnata da una chitarra malinconica — racconta della fine di un capitolo, di una metamorfosi fredda e tecnologica, di passeggiate notturne esaurite in un vagare insonne, di bar in bar. Banconi ed ombre appoggiate ad essi che testimoniano i fasti passati — i “Glory Days” di matrice springsteeniana, come riporta un post su Instagram – senza cui certi uomini come Brian, protagonista dei versi, non sarebbero potuti essere chi sono, nella loro benedizione e maledizione. 

Oltre a lui, altri due personaggi appaiono ad inaugurare la tracklist, muovendosi sullo stesso pattern, intimamente acustico, al piano. Laurel and Hardy (gli Stanlio e Olio italiani) vestono i panni di un amore distillato in opposizione e complementarietà: un valzer in cui il ticchettio di sospiri e dolci errori — “My favorite poison / My honey mistake” — sfuma in passi che si allontanano. Un allontanamento, già dalla traccia numero due, anche da un’impronta cantautoriale mai rinnegata ma arricchita e volutamente sviluppata dall’ultimo lavoro in studio, Lover (2019), in poi. Body si impone come inno generazionale: lo specchio di chi — tenendo per mano la giovinezza ed affacciandosi sulla responsabilità adulta — stringe la pace con un certo fatalismo attivo (“Whatever happens is probably gonna happen anyway”), pur non rinunciando alla confessione più profonda di rimpianti e rimorsi (“If I told you then, what you could have been / Would you have turned around? / Would you have even listened?”).

 

 

Intersezioni di tempo e di suono, livellato — quest’ultimo — su un’impostazione ibrida tra alt-rock ed elettro-pop. Una costruzione a più strati di arrangiamenti contemporanei e soluzioni melodiche nitide che attestano raffinatezza e ricercatezza. Se per The Coast a prevalere è una linea vocale empatica ed ineccepibile che dichiara tregua alle continue battaglie esistenziali per ristorarsi di fronte all’oceano con un cuore pronto a mettersi in gioco, in Blankets e Back To Me l’obiettivo è quello della destrutturazione, sia nella forma sia nel contenuto. Un’ispirazione che rimanda, da una parte, agli Editors più elettronici e, dall’altra, al Justin Vernon più iconico con le suggestioni dei Bon Iver. Il contesto perfetto in cui far dialogare memorie che svaniscono, realtà inedite da affrontare e la tentazione di ripiombare in meccanismi antichi ed ancestrali. Qui, le frequenze timbriche di Gundersen — talvolta campionate in effetti distorti, talvolta al limite del meccanico e robotico — lanciano messaggi di identificazione universale.

Tra brani di raccordo più classici come la radiofonica Exit Signs, Magic Trick e la denuncia al mondo patinato e ingannevole della comunicazione digitale e Bright Lost Things con il riverbero del clavicembalo e delle luci abbaglianti di Broadway, Atlantis si staglia in qualità di punta di diamante. Il featuring con Phoebe Bridgers, stella attualissima del firmamento musicale internazionale, rimarca un emozionante sodalizio (oltre che un’amicizia) andato in scena già nel 2017 con il video mashup di The Killer, perla dello strabiliante disco d’esordio dell’artista di Pasadena, Strangers in the Alps (2017), e The Sound, estratto da White Noise di Noah. La naturalezza e la fluidità che avevano già caratterizzato quella collaborazione si confermano in Atlantis, trasposizione in note e strofe poetiche ed ipotetiche della leggenda di Atlantide. Le due tonalità si fondono proprio come il mare con il perimetro dell’isola ed ondeggiano in una marea di risonanze lontane: sembra di udire il canto delle sirene o il sibilo intrappolato in conchiglie colorate.

A Pillar of Salt si chiude con quella che l’autore stesso elegge a sua canzone preferita. Always There è il compimento orchestrale che, su un dolce arpeggio, distende gli scenari per elevarli a potenza onirica. Il sapiente falsetto, assieme al trionfo di archi e alle sonorità eteree, racchiude la promessa di una nuova alba. La matura consapevolezza del proprio desiderio di amare, nonostante tutto, nonostante possa essere considerata una prova di coraggio anacronistica, rischiosa, al limite della patologia. È una delle frasi più impattanti riportate, durante il periodo di promo, all’interno del puzzle di citazioni pubblicato sui canali social ufficiali: “Love grows like a cancer”. Una condanna come quella che — nella tradizione biblica — colpì la moglie di Lot per essersi voltata a guardare Sodoma, subendo la trasformazione in una statua (o colonna) di sale. A Pillar of Salt, appunto. 

La cristallizzazione dal dolore e del dolore, la metabolizzazione e la scelta di andare oltre — apprendendo la lezione, alleviandola e non dimenticando — accendono il luccichio più chiaro e sfavillante del disco. Granello dopo granello, a sciogliere le riserve, ad infondere rinnovata fiducia può essere d’aiuto l’ascolto di un album di così pregiata bellezza ed autenticità. 

 

Noah Gundersen

A Pillar Of Salt

Cooking Vinyl

Laura Faccenda