Skip to main content
Blur @ Lucca Summer Festival

Blur @ Lucca Summer Festival

| Alma Marlia

Lucca, 22 Luglio 2023

Freschi dell’uscita di The Ballad of Darren, nel pieno del loro tour mondiale che conclude una pausa di ben sette anni, fanno tappa a Lucca i Blur, la band protagonista del britpop degli anni Novanta. Sul palco del Lucca Summer Festival prende vita una reunion piena di energia e gioia. L’amicizia duratura di Damon Albarn, Graham Coxon, Alex James e Dave Rowntree si mostra in pieno in uno spettacolo fatto di brani storici e nuovi, per un gioco ininterrotto di ballate agrodolci, mood scanzonati e un rock spietato. 

La serata si apre con un brano del nuovo disco, St. Charles Square, mentre il nome dei Blur si staglia sulle loro teste e luci multicolori ci dicono che siamo lì davvero. Iniziare con un brano nuovo inverte la cronologia della storia musicale della band, come a volerla riassumere in uno stile nuovo, ma che non intacca la loro identità.

Albarn è un artista sempre preso da vari progetti, tra cui Gorillaz e The Good, The Bad & the Queen, ma si vede che è felice di stare sul palco con i suoi amici. La sensazione che questo sia più di un semplice concerto dà ancora più fascino alla band che sale sul palco con determinazione per vivere una serata speciale con i 35.000 spettatori giunti a Lucca. Durante l’esibizione, la voce del frontman rivela il timbro della maturità, è leggermente più profonda, eppure porta ancora con sé la carica tagliente degli esordi. Albarn si conferma un vocalist vincente e determinato dietro gli occhiali Harry Palmer mentre ricrea l’atmosfera da seminterrato degli anni ’90, pronto ad affascinarci con successi del passato e brani del presente.

Dopo la prima canzone Albarn saluta il pubblico in un italiano molto britannico mentre la folla accoglie con grida entusiaste il graffio della chitarra di Coxon, il vero segnale di inizio del concerto. Canzoni come Popscene e Beetlebum portano con sé il senso dell’elisir di lunga vita, e tutto sembra un sogno quando, ad un tratto, l’audio ci abbandona mentre i musicisti continuano a suonare come in un film muto.

Un risveglio quasi surreale. Intorno ci sono sguardi attoniti, ma la musica riparte, l’incidente sembra essere stato solo un veloce istante. Invece è l’inizio della discesa all’inferno. Albarn si scusa più volte nel suo brit italiano, un interludio intrattiene il pubblico mentre sul palco si intravedono figure veloci che cercano di risolvere qualche problema tecnico. Finalmente il concerto riprende con Coffee & TV, la vetrina di Coxon, dove si lascia andare come se niente fosse successo, nei suoi anti-assoli e gioca con Albarn, creando un mood intimo nonostante tutte le persone che li circondano.

Vorresti sorridere, lasciarti andare, ma ti accorgi che il suono è sporco e non per volontà dei musicisti. Le note prendono vita, ma sono incerte e sfarfallanti, il frontman non è sempre comprensibile, gli equalizzatori vivono nell’anarchia e gli sforzi di tecnici ed artisti di salvare il salvabile è commovente.

Attorno a me vedo sguardi spaesati, sbalorditi, si intravedono facce perplesse e deluse. Non so chi è vicino al PIT, ma per chi, come me, è nel regno di molto lontano dal palco, dagli schermi, dal centro della musica, l’esperienza è un trauma. Si sentono i primi commenti taglienti che invaderanno i social domani, ma poi il pubblico capisce l’imbarazzo della band e li supporta battendo le mani per creare un ritmo e cantando strofe che intuisce ma non capisce totalmente. La voce di Coxon in alcuni casi si sente meglio di quella di Albarn, che, da parte sua, dà tutto se stesso, ma in Oily Water diventa un richiamo flebile.

Nel tentativo di aggiustare la resa sonora, nei vari brani il gioco vivo di basso e chitarra diventa uno spintonarsi fastidioso di note, eppure sai che loro si esibiscono dando il massimo. Nonostante le difficoltà, l’atmosfera si accende con Song 2. Salti, grida di gioia, polvere ovunque e mura che forse tremano per la stessa felicità che ci coinvolge anche con l’attesissima Girls & Boys. In questo caso non importa che la canzone si senta bene, chi è lì la sa, la conosce, l’ha metabolizzata: la mente riporta vivi e nitidi quei suoni che l’orecchio non riesce a sentire come dovrebbe. Mentre saltiamo, ricordo le tante facce di amici tese nella smorfia di pronunciare il nome di questo gruppo che già negli anni ’90 cantava l’amore che trascende il genere, scuotendo così una cultura ancora ipocrita e bigotta.

Anche The Narcissist risente degli ostacoli tecnici, ma questo momento di silenzio e condivisione riesce ad arrivare e annulla la distanza tra pubblico e palco: chi è lontano si sente finalmente parte del concerto, anche se a piccoli sorsi. Le chitarre distorte e ripetitive come un’ossessione a tratti arrivano bene, in altri momenti diventano suoni deformati e confusi, e da un brano dove l’io narrante spera di diventare migliore, anche noi speriamo che almeno verso la chiusura i suoni migliorino.  

Il concerto termina con The Universal e le mura riflettono le luci calde del palco di un finale intenso, purtroppo sempre minato da una qualità del suono altalenante. A serata praticamente conclusa, il pubblico ricoperto di polvere e di odore di birra, ringrazia la band perché da veri professionisti hanno suonato e cercare di far vivere quell’esperienza emozionante che in tanti desideravano da anni.

Ostacoli tecnici o no, i Blur restano una delle band più interessanti della realtà Britpop. Rimane però l’amaro in bocca di un’esperienza vissuta a metà arrancandosi alla ricerca di note che ci permettessero di ricostruire una scaletta come un puzzle. Resta anche la perplessità di come imprevisti di questo genere non possano essere gestiti con la giusta preparazione che questi eventi richiedono.

Possiamo dire che questo è il bello della diretta, ma non è vero, non è bello. Chissà forse è stato un caso. Lo scopriremo solo a un altro concerto.