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Poplar Festival @ Doss

Poplar Festival @ Doss

| Alberto Adustini

Trento, 15 Settembre 2024

Quando nel 1904 Barrie immaginò l’Isola che non c’è pensava ad un immaginario luogo ideale, utopico/utopistico, un luogo probabilmente anche di evasione.

Il Doss, piccola collina che sorge nel quartiere Piedicastellodi Trento, è un luogo sicuramente caratteristico e meritevole di una gitarella fuori porta (cit. Amari), ma che, come per magia, per una settimana all’anno diventa metaforicamente un’isola, un luogo lontano sia geograficamente che idealisticamente lontano dalle nevrosi, dalle preoccupazioni, insomma da tutti gli aspetti principalmente negativi che volenti o nolenti caratterizzano ormai la nostra quotidianità.

E questa magia ha un nome. Un nome ed un cognome. Poplar Festival.

Parliamo senza mezzi termini di un vero e proprio miracolo, uno di quelli che accadono molto raramente, ma che quando il fato o strane e fortunate congiunzioni astrali fanno sì che un gruppo di mirabili studenti ed ex studenti dell’università di Trentodecidano che insomma, perchè no, mettiamo in piedi un festival. Però lo facciamo a nostra immagine e somiglianza, ovvero come vorremmo fosse un festival al quale vorremmo andare. E quindi verde, molto verde, l’imponente mausoleo dedicato a Cesare Battisti a sovrastare il palco principale, prezzi contenuti, acqua gratis, sold out a ripetizione, line up dal respiro nazionale ed internazionale, volti sorridenti e tonnellate di musica.

Purtroppo per me il Poplar quest’anno si è ridotto solamente alla serata conclusiva, che era quella effettivamente a me più congeniale dal punto di vista musicale, ed infatti, superata l’irta salita che dalla città porta al festival, assieme alla mia allegra combriccola veniamo accolti dal sound calipso/latino (inteso non come Catullo e compagnia)/strumentale delle Los Bitchos. Not my cup of tea, però molto godibili dal vivo, e il pubblico, già numerosissimo sotto il palco, si diverte e balla. Beata gioventù!

Il doppio palco, vera novità di questa ottava edizione, è un’arma a doppio taglio a mio avviso, perchè da un lato raddoppia potenzialmente il numero di artisti che si possono esibire, dall’altro, in una giornata come questa dove potenzialmente TUTTI i concerti risultano (e risulteranno poi) imperdibili, non ti dà materialmente il tempo di staccarti per andare a prendere da bere o degustare degli imperdibili canederli.

Infatti dopo il collettivo londinese è già tempo dei Fat Dog, nome sul quale puntavo la maggior parte delle mie fiches (Viagra Boys esclusi ovviamente). Azzardo ampiamente ripagato, in quanto il sestetto inglese, freschissimo di pubblicazione del loro esordio WOOF., mette in piede uno show spaventoso, a metà strada tra dancee punk, un mix incredibilmente adatto per la situazione, testimoniato anche dal pubblico completamente rapito e impossibilitato alla staticità, con focolai di pogo sparsi in pò ovunque sotto il palco.

Il ping pong tra un palco e l’altro ci porta ad una delle eccellenze italiane, quegli I Hate My Village che portano sul palco un set ancora più cerebrale e complesso delle ultime volte in cui li avevo visti, sicuramente meno coinvolgenti di chi li ha preceduti ma che non si risparmiano, anzi, portano a casa un’esibizione di livello clamoroso, musicalmente parlando. 

Chi invece a livello di coinvolgimento non ha praticamente da prendere lezioni da nessuno sono le Lambrini Girls, terzetto tutto al femminile proveniente da Brighton. Fanno punk? Probabilmente sì. Ma tutto sommato è secondario come aspetto, in quanto il loro set vive di due nature, coesistenti e cooperanti. Una, quella più prettamente musicale, portata avanti dal basso di Lily Maciera coadiuvata dalla batteria di Banksy, una sezione ritmica veramente notevole.

L’altra, una donna sola al comando, è quella di Phoebe Lunny, chitarra e voce, che passa quasi più tempo a fare stage diving, organizzare il pogo, arrampicarsi sugli alberi che sul palco, un tornado inarrestabile.

Il live delle Lambrini Girls, com’è giusto che sia, vive di strappi, momenti di decibel sparati a mille alternati a parole di sensibilizzazione verso la questione palestinese, i fasci ormai ovunque, tematiche LGBTQ, accolti con grande trasporto e convinzione dal pubblico.

Ed eccoci arrivati alla portata principale, ovvero la pancia di Sebastian Murphy. Scherzo dai, che poi mi si accusa ingiustamente di body shaming e lungi da me. Anche perchè verso il tatuatissimo frontman svedese e la sua band, da parte del sottoscritto, c’è solo amore. Incondizionato. Inesauribile.

I Viagra Boysattaccano e conquistano la marea di giovani danzanti e festanti con uno dei loro pezzi più celebri, Ain’t nice, utile soprattutto per mettere in mostra le allucinanti doti come ballerino di Sebastian. Pur essendo arrivati alla data finale di un estenuante tour europeo sul palco non ci si risparmia, e così Troglodyte, Sports, Research Chemicals, una scaletta che scalda i cuori e disegna una degna chiusura ad una quattro giorni di pura e autentica magia.

Purtroppo è tempo di andare, un serpentone di volti sorridenti guadagna l’uscita, una moltitudine di Peter Pan si appresta ad abbandonare l’isola. 

Tanto ci vediamo tra un anno o poco meno, e la strada la sappiamo, giusto? 

Seconda stella a destra…