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Mese: Aprile 2019

Limbrunire e l’innovazione nel cantautorato

Siamo nell’era dell’emulazione, del – tutti copiano tutti – con la convinzione che la stessa formula valga e funzioni a prescindere da quelli che siano i contenuti di ogni singolo individuo.

Siamo nell’era in cui la musica sembra un grosso contenitore, a tratti fin troppo piccolo, incapace di racchiudere così tante note e parole, ma la cosa più difficile è senza dubbio quella di distinguersi ed “emergere” facendo la differenza.

C’è un ragazzo che sa bene come fare, sa bene come farsi riconoscere senza che ci sia neanche lontanamente il rischio di non essere identificato e questo accade per due motivi: il primo riguarda i testi delle sue canzoni, tutti lontani dalla parola “banale” perché ha la straordinaria capacità di descrivere e raccontare in un modo tutto suo ciò che sente e lo fa con estrema cura nella scelta delle parole da usare e accostare l’una all’altra.

Il secondo riguarda la sua persona, il modo in cui percorre la strada che ha scelto “lottando” a mani nude e con la sua chitarra creando musica vera, proteggendo e conservando la sua identità artistica che coincide perfettamente con la sua identità personale e umana.

Il ragazzo in questione si chiama Francesco Petacco, meglio conosciuto come Limbrunire un giovane talento proveniente dal levante ligure che ho scoperto qualche mese fa grazie al suo ultimo singolo “Ho – Oponopono” estratto dal suo primo disco: “La spensieratezza”  uscito a giugno del 2018.

La prima cosa che ho pensato ascoltando quella canzone dal titolo quasi impronunciabile è stata: “Che genio!” e la stessa esclamazione mi ha accompagnata durante l’ascolto di ognuna delle restanti tracce del disco che ho ascoltato e riascoltato fino a conoscerle a memoria.

Limbrunire ormai mi accompagna “all’imbrunire”di molte delle mie giornate, soprattutto durante i viaggi in macchina.

Con la sua musica è un po’ come fare un “viaggio nel viaggio” e ho aspettato prima di chiedergli un’intervista, perché volevo andare a fondo.

Volevo capire bene quali fossero i suoi messaggi e quale fosse la sua linea che si è rivelata ben presto una bellissima linea curva, proprio come la vita di ognuno di noi…

E’ solo che poi c’è qualcuno che ha una sorta di “dono” nel raccontarla e risulta quasi impossibile non rimanerne affascinati.

Ecco alcune delle mie curiosità….

 

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Facciamo subito un passo indietro prima di arrivare ad oggi e all’uscita del tuo primo album: La spensieratezza Chi era e quali erano i sogni di Francesco prima di diventare Limbrunire?

Francesco era ed è un ragazzo come tanti altri con una grande passione diventata nel tempo sostanza vitale e necessità primaria come la testa fuori dall’acqua dopo secondi d’apnea. I sogni di Francesco in realtà sono fiori di un prato che vengono annaffiati costantemente, a volte appassiscono ma poi rinascono più grandi e colorati di prima, alle volte vengono raccolti e regalati ad un sorriso come un battito di ciglia, di stupore. Francesco ha sempre creduto nelle possibilità di ogni individuo e come tale sente il bisogno di mettersi in gioco per lasciare un punto esclamativo su questo interrogativo passaggio! La condivisione per Francesco è un pasto fondamentale così come la curiosità di andare oltre i propri limiti, circoscrivere la temuta drammaticità del tempo a favore del qui ed ora, dell’essere presenti appieno, adesso!

 

L’uscita di un disco è il primo e vero confronto diretto con il grande pubblico, è il traguardo al quale si arriva attraversando vari step che vanno dalla stesura di un testo alla sua registrazione. A distanza di quasi un anno dal giorno di uscita del tuo debut-album e dopo aver avuto modo di portare in giro la tua musica con un bel tour in giro per l’Italia, qual è la parte che hai amato o che ami maggiormente di quello che hai avuto modo di vivere grazie a questa esperienza e in generale del tuo percorso musicale personale?

Chiudere i flight-case, preparare la valigia, salire in auto, fermarsi agli autogrill, le cazzate, i chilometri on the road, le domande, i dubbi, le tensioni, i gradini, il palco, il sound-check, il riscaldamento, il bicchiere di vino, l’ultimo briefing e l’abbraccio con la band, l’ok, 3..2..1, la sensazione d’infinito! Turbinio d’emozioni e lacrime trattenute a stento, nastri riavvolti.

 

C’è un tuo brano che amo in particolar modo e che ad ogni ascolto mi regala una riflessione in più perché riesco a cogliere sempre qualche dettaglio che la volta prima mi era sfuggito ed è Non è allarmante. Prendendo spunto proprio dal suo testo, per te di cos’è fatta quella bellezza (da tramandare) e come inganni le forze contrarie?

La bellezza da tramandare risiede dentro di noi, nella nostra anima, nella fratellanza e riconoscenza, nella mano allungata e non nel pugno in faccia, nei piccoli gesti e negli spazi grandi, negli abbracci sinceri, nella presenza! Il mondo è pregno di bellezza ma l’odio, la brutalità, la malvagità ahimè fanno più notizia, hanno maggiore appeal mediatico e catalizzano maggior interessi, e tutto ciò che si ripete ciclicamente se viene servito come unico pasto quotidiano alla fine diventa paradossalmente buono, l’alibi sul quale addossare un nemico. Io credo che l’impegno di ognuno possa risiedere nel tramandare i flussi positivi e non considerare quelli negativi, nell’ignorarli completamente. Martin Luther King affermava:

“L’odio genera l’odio, la violenza genera la violenza, un conflitto genera conflitti ancora più grandi”.

Io credo che la bellezza possa generare solo bellezza, la non violenza la pace, la gratitudine e riconoscenza solo un mondo migliore. Gli esempi sono fondamentali perché noi un giorno saremo gli antenati di coloro che verranno! La mia missione risiede in questo, nell’essere ricordato come “artista” ma ancor prima come persona.

 

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Seguendoti molto sui social, ho avuto modo di vedere che hai fatto da poco un viaggio a Praga e da lì hai pubblicato la foto di un foglio pieno di parole, ci sono nuovi progetti in cantiere? E a proposito di viaggi, se avessi la possibilità di teletrasportarti in questo istante da qualche parte, dove andresti e perché?

Ci sono sempre nuovi progetti in cantiere, vivo di progetti, mi aiutano ad essere intenso e costantemente stimolato, ad essere proiettato sempre sul prossimo step da compiere! Nell’immediato uscirà un nuovo singolo con relativo videoclip e dopo… Chissà. Se avessi la possibilità di teletrasportarmi adesso sarei in Islanda o in Nuova Zelanda, comunque sia agli antipodi di dove sono adesso, per immergermi totalmente nell’ambiente selvaggio, lasciarmi rapire da scenari unici e creare un tutt’uno con gli elementi per ridimensionare l’ego e riconsiderare me stesso.

 

Se dovessi descriverti con uno stato d’animo, quale sceglieresti e perché?

Nostalgico perché ho la sensazione che qualcosa ci sia sfuggito, che qualcosa ci manchi.

 

Ultima domanda: quali sono gli elementi fondamentali della tua felicità? Li hai tutti in questo momento o c’è qualcosa che ti manca?

Non so cosa sia realmente la felicità, ci sto lavorando. So cos’è l’altopiano della serenità, il benessere psico-fisico e quello che mi permette di essere allineato. Mi manca sempre e comunque una cosa ma non la dirò per scaramanzia, la sto cercando da anni!

 

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Ringrazio Francesco per aver condiviso un pezzettino del suo mondo raccontando qualcosa in più di sé stesso e vi consiglio di ascoltare il suo album (disponibile su tutte le piattaforme online) per intraprendere uno di quei viaggi di cui vi parlavo poco fa, in grado di far guardare tutto quello che ci circonda ogni giorno da una prospettiva diversa da quella a cui siamo abituati.

Se a scuola durante l’ora di musica ci fosse la possibilità di studiare i testi delle canzoni, proporrei senza dubbio di analizzare alcune delle sue.

Chi mette attenzione in quello che fa, poi quella stessa attenzione la merita ed automaticamente l’attira.

Limbrunire in questo è un fuoriclasse.

 

Claudia Venuti

Deproducers “DNA” (Ala Bianca Records, 2019)

Dopo essersi avventurati tra le stelle con Planetario (2012) e aver fatto ritorno sulla terra, tra le meraviglie del mondo vegetale in Botanica (2016), i Deproducers firmano DNA, il nuovo capitolo del progetto Musica per Conferenze Scientifiche, in collaborazione con AIRC. Lo straordinario collettivo artistico formato da musicisti, cantautori, produttori del calibro di Vittorio Cosma, Riccardo Sinigallia, Gianni Maroccolo e Max Casacci accoglie come frontman d’eccezione il filosofo e bio-evoluzionista Telmo Pievani per raccontare la storia dell’antenato comune di tutte le forme viventi, il DNA. 

Nella comunicazione tra musica e scienza, nel loro scambio reciproco, si sviluppa la narrazione dei temi cardini dell’evoluzione, dalla formazione delle prime cellule, alla comparsa dell’Homo Sapiens, fino alle nuove conquiste della genetica e della ricerca oncologica, sottolineandone il valore culturale ed umano. 

Un’opera innovativa, ambiziosa ma allo stesso tempo accessibile, che permette di trasformare un convegno scientifico in uno spettacolo live coinvolgente, immersivo che punta sulla sinergia tra brani inediti, immagini suggestive e una scenografia costruita ad hoc (la data zero del tour è prevista per il 9 aprile al Teatro Grande di Brescia, la Prima andrà in scena l’11 aprile al Parco della Musica di Roma). 

In una alternanza tra concetti esposti da un cantato semplice, al limite del “parlato” nelle voci di Pievani e Sinigallia, e atmosfere delineate dalla sola musica, vagante tra ambient, acustica, neoclassica e rock, Abiogenesi dà il via a questo viaggio, elevandosi a colonna sonora introduttiva, come una nuova Così parlò Zarathustra in 2001 Odissea nello spazio. Storia compatta della vita introduce la figura di Carl Segan, astronomo che nel 1966 inventò il calendario cosmico: l’intera storia dell’universo, dal big bang ad oggi, comparata ad un anno solare. Miliardi di anni compresi tra il primo gennaio e la mezzanotte del 31 dicembre. Un crescendo musicale che va di pari passo e sfocia in una pura traccia elettronica, dominata da una voce computerizzata che elenca, tappa dopo tappa, le scoperte fondamentali nella storia dell’uomo, ricordando i Daft Punk in Harder Better Faster Stronger.

Sullo stesso impianto sonoro si snoda DNA, la title track, in una successione di bassi potenti, suoni taglienti e la ripetizione delle iniziali delle basi azotate che compongono la doppia elica: A per adenina, C per citosina, G per guanina, T per timina. Suite cellulare è l’opera lirica del disco. Divisa in quattro movimenti, accompagna le fasi evolutive con solennità. Dalla ritualità di un coro iniziale, il ritmo cambia, si riempie e si completa. Monofonia e polifonia che rappresentano, in musica, il passaggio dagli organismi monocellulari a quelli pluricellulari, giungendo al picco di massima intensità nella nascita del sesso. Quest’ultima, definita in termini evoluzionistici come prevenzione naturale che allontana dal pericolo dell’omologazione e dell’uniformazione, si colora di tinte romantiche e ammiccanti nella melodia lontana di un sassofono. L’energia e la vitalità di L.U.C.A. celebrano l’ultimo antenato comune universale (Last Universal Common Ancestor) e si contrappongono allo scenario inquieto di Cancro, in cui le percussioni cupe e il timbro tipico dell’organo riecheggiano la Cavalcata delle Valchirie di Wagner. La chiusura è affidata a Serendipità, termine coniato dall’inglese Horace Walpole nel 1754 per indicare la fortuna di fare scoperte casualmente, trovando qualcosa di inaspettato nella ricerca qualcos’altro.

Un riassunto di tutte le vibrazioni precedenti, un’aria melodica di apertura e progressione. Quello che prima era un coro serioso, quasi gregoriano, ora sono voci illuminate dallo stupore. La sintesi del percorso di riflessione che si intraprende, spesso, anche grazie alla musica e alle sue capacità di introspezione. Il potere di unire questo strumento essenziale con la ricerca scientifica, fonte inesauribile di domande e risposte, metafora del processo di miglioramento di se stessi e dell’umanità, attraverso la conoscenza.

 

Deproducers

DNA

Ala Bianca Records, 2019

 

Laura Faccenda

Canova @ Palaestragon

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• Canova •

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Palaestragon (Bologna) // 05 Aprile 2019

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Era passato un po’ di tempo, forse anche troppo, dal primo album dei Canova che quest’anno hanno giocato d’anticipo sulla primavera regalandoci un attesissimo nuovo album Vivi per sempre, uscito il primo marzo per Maciste Dischi e un omonimo tour che si è concluso il 5 aprile al Palaestragon di Bologna.

L’immagine “regina” che regnava come sfondo sul palco è stata la stessa scelta per la copertina dell’album: quella dell’ormai famoso cane e dell’espressione dei suoi occhi, diventato un po’ l’amico fedele di tutti quelli che da sempre sono fedeli alla musica di questa giovane band milanese e di tutti quelli che in qualche modo trovano rifugio, estremo piacere e un pizzico di sana malinconia in quelle nove tracce che rimangono impresse nella testa tanto quanto gli occhi di quel cane.

Ai Canova l’originalità non è mai mancata, così come non è mai mancato l’entusiasmo e la voglia di riuscire nella missione di fare e diffondere buona musica.

E sembra abbiano fatto davvero un ottimo lavoro questi quattro ragazzi, perché sono partiti da zero ma sempre uniti e umili nel voler portare avanti il loro “credo” divenuto presto anche quello di molti giovani idealisti come me e cercando di alzare sempre di più la loro asticella fino ad arrivare al loro meritatissimo successo.

Tra salti avanti e indietro nel tempo con vecchi successi alternati ai nuovi brani che hanno il potere di diventare immediatamente colonne sonore di vita e salti nel vero senso della parola, una cosa è certa: durante un loro live è facile perdere la cognizione del tempo e del fiato a disposizione per poter cantare a squarciagola.

A tutto questo va aggiunta l’eleganza innata (nel senso più ampio e variopinto del termine) del loro front man Matteo Mobrici. Le sue parole sono quella boccata d’aria che serve dopo una lunga apnea, sono quel qualcosa che ti “tocca” dopo non so quanta apatia.

Se dovessi riassumere in una frase tutto quello che ho sentito forse non saprei bene quali parole utilizzare per descrivere al meglio il mio benessere mentale in quell’ora e mezza, ma in compenso so benissimo cosa riescono a fare loro.

So benissimo cosa sono capaci di scatenare e smuovere.dentro, fuori e ovunque ci sia della pelle su cui far venire i brividi o qualche cuore da far battere a ritmo veloce.

I Canova non deludono mai, sono una garanzia senza data di scadenza. Qualunque sia il dubbio o la domanda, tra Avete ragione tutti e Vivi per sempre ci sarà sicuramente una risposta.

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Grazie a Magellano Concerti

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Testo: Claudia Venuti

Foto: Luca Ortolani

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Fulminacci

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Ex-Otago @ Gran_Teatro_Geox

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• Ex-Otago •

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C O S A   F A I   Q U E S T A   N O T T E ?   T O U R   2 0 1 9

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Gran Teatro Geox (Padova) // 04 Aprile 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Foto: Enrico Dal Boni

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Diario di una band – Capitolo Uno

“Caselli d’autostrada tutto il tempo si consuma ma Venere riappare sempre fresca dalla schiuma 
la foto della scuola non mi assomiglia più  ma I miei difetti sono tutti intatti.
E ogni cicatrice è un autografo di Dio nessuno potrà vivere la mia vita al posto mio.
Per quanto mi identifichi nel battito di un altro sarà sempre attraverso questo cuore.
E giorno dopo giorno passeranno le stagioni ma resterà qualcosa in questa strada. 
Non mi è concesso più di delegarti I miei casini. Mi butto dentro vada come vada.”

Jovanotti

 

Capitolo Uno

 

Abbiamo sempre bisogno di attaccarci a qualcosa, per esigenza, per noia, per paura, per sfida, per non sentirsi dalla parte di un’utilitaria da rottamare. Massimo rispetto sia chiaro, a chi macina chilometri in maniera incessante, riconoscendo i propri limiti che spesso sono dettati dalle possibilità e non dalle intenzioni.

Fare parte di una band è un po’ cosi, un crocevia tra l’officina di un meccanico e la potenza di un decollo di un 747, avendo ovviamente il controllo della cloche.  La parola “band” parla di tutto e parla di niente, può prendere le sfumature più improbabili come può cadere nella banalità più sgretolante. Chiunque può utilizzare il termine band, non tutti però hanno il privilegio e la credibilità di poterla rapportare alla concretezza della vita vissuta.

Un po’ come se la musica ad un certo punto passi in secondo piano, un po’ come se la musica stessa sia a decidere come comporre la tua vita e quella dei tuoi compagni di viaggio. Una rovesciata come stile di vita, un capovolgimento di fronte, talmente incisivo che ti permette di sederti, di metterti comodo e farti scegliere dalla musica stessa senza temere paure verso il futuro.

Alchimia che si sviluppa in base a quello che hai voluto diventare fino al punto di incontro indissolubile con la musica, come un rito pagano, come un matrimonio, una promessa: “Musica ho scelto te in ogni momento, cercando di metterti al centro di ogni mio stato d’animo… ora tocca a te prenderti cura di me perché ho bisogno di risposte dalla vita e tu sei stata sempre presente nel bene e nel male, mi fido”.

Chi può conoscerti come ti conosce la musica?  Forse la mamma, forse un fratello o una sorella, forse la tua band.

Diventare parte di un meccanismo, abbattere il ponte del tempo, abbandonare lo smarrimento esistenziale e non aver paura di rischiare quel qualcosa in più che ti ha tenuto per troppo tempo per le palle. Mettersi in ballo con le scarpe più comode e decidere di ballare fino a quando le gambe avranno la forza di sorreggerti. Insomma, siamo tutti bravi a raccontarci le favole, a perdonarci la pigrizia e a mollare alle prime difficoltà.

Vero e per nulla sbagliato, però la vita all’interno di una band è un concorso di colpe e di coscienze, di pacche sulle spalle e calci in culo costruttivi, di risate e discussioni, atte sempre al fine massimo ch’è costruire una storia che meriti la pena di essere vissuta. Ne deve valere la pena, ne deve valere soprattutto l’allegria.

Vivere all’interno di una famiglia ti mette di fronte a scelte, a caratteri distinti e a sacrifici.

Quando capisci che una band funziona? Lo capisci quando ti puoi scornare prima e dopo un concerto per dei punti di vista distanti, ma riesci con senso del dovere a mantenere senza sforzo l’integrità umana basilare, il dire “grazie” o  “per piacere”, rispetto sacrale verso gli addetti ai lavori, vero tappeto fatto di storie e persone che permette lo scorrimento giusto di uno show. Questo è quello che fa dei componenti di una band degli uomini e non delle comparse senza luce.

Concetto scontato? Purtroppo no, negativo.

Se nella musica di inizio anni 2000 si poteva ancora parlare di politica, di voglie impresse e di straordinari concetti corali appoggiati su di una base etica solida, ora non abbiamo la stessa stabilità di appoggio. Lo stiamo dando per scontato, la stiamo dando come una banale circostanza quella dell’educazione, la sua assenza è il vero cancro sociale, supportato in malo modo da una popolazione che si è abituata a guardare solo i colori del proprio giardino e disposto a tutelare spesso nemmeno i colori del proprio recinto ma accontentandosi in maniera remissiva di fiori in scala di grigio.

Suonare in una band e viverla ai miei giorni è un atto di responsabilità verso me stesso in primis, è un atto di responsabilità verso chi spende il proprio tempo ad ascoltare la mia musica e venire ai miei concerti, e terzo, è un atto di responsabilità verso chi ha formato la tenacia e la paura della mia penna e della visione del mio mondo.

Suonare in una e per una band è un atto d’onore, di rivoluzione, un atto d’amore verso la vita. Per questo ora soffro nel vedere la scena musicale italiana trasformarsi in “o-scena” musicale italiana. Senza presunzioni, né autocompiacimenti sia chiaro, non risiede nel nostro DNA questa triste attitudine, non siamo nati per le auto-celebrazioni, né per dissetarci con le nostre stesse lacrime.

Quello che vorrei fosse rispolverato è che l’ascoltatore accenda la lampadina della curiosità, della ricerca. Tralasciando la tecnica o il virtuosismo, ma ricercando artisti che mettono cuore e sentimento, che abbiano speranza nella gente e un senso di comunità genuino che possano fare di tre accordi banali una nave da crociera che porta in lidi sconfinati. Utopia o banale speranza, chiamatela come volete ma poco importa, suonare in una band deve essere equilibrio, come lo deve essere il rapporto con il  proprio partner.

Voglio che si torni a trovare equilibrio non come premio straordinario da privilegiati, nemmeno imporlo come un fottuto bilanciamento necessario, voglio che l’equilibrio sia una scelta perché non è per tutti ed è maledettamente giusto sia cosi. Voglio che l’equilibrio sia una scelta di essere. Voglio essere uno zaino protonico che cattura i fantasmi della gente, li trasporta dentro a un amplificatore che di conseguenza li scaraventa fuori, finalmente innocui.

Suonare in un band per come la vivo io è credere nelle persone, credere che si possano annullare le distanze, credere nel rispetto verso la penna, la vera arma che deve sancire un ritorno alla serenità e all’indipendenza intellettuale.

Confido in me, nella musica e soprattutto nella mia band, la famiglia che mi sono scelto perché mi da l’equilibrio necessario che mi tiene vivo.

 

Vasco Bartowski Abbondanza

 

C’mon Tigre @ Bronson

Signori, in carrozza. Si parte!

Assistere ad un concerto dei C’mon Tigre è come partire per un viaggio. La meta è sconosciuta, ma quello che è certo è che farà tappa a Ravenna. Da un po’ tempo ormai desideravo un concerto in un club, intimo e fumoso. Al Bronson trovo quello che cerco. È l’ultima data del loro tour, partito a Febbraio da Bologna, e nonostante abbia già ascoltato con attenzione i loro due album, non so bene cosa aspettarmi da questa serata.

Quando salgono sul palco la sala è piena. I C’mon Tigre sono un duo. Ma sul palco sono in sei, tutti musicisti.

Si parte con Gran Torino, irregolare e spezzata, e subito intuisco che il sortilegio è stato lanciato. Le luci tagliano il palco in inquadrature cinematografiche, i musicisti escono dall’ombra e ci rientrano. Pur rimanendo fermi, sono in movimento perpetuo. Anche visivamente, e non solo nei suoni, il loro è un concerto liquido.

Guide to Poison Tasting è un pezzo sensuale. La musica dei C’mon Tigre è perfetta per fare l’amore. Non solo con un uomo o una donna, ma con il mondo intero.

Si attraversa in nave il Mediterraneo. Si percorre a dorso di dromedario la Via della Seta. Ci si perde in un mercato marocchino. Le atmosfere sono da muretti a secco, da kasbah. I loro suoni fanno da colonna sonora a un miraggio nel deserto, allargano gli orizzonti. E in questi tempi bui, di porti chiusi e menti blindate, ce n’è davvero bisogno.

Penso che, forse, un concerto come questo sarebbe stato utile prima. È un grande omaggio al Mediterraneo. Tra un fiato e una percussione tribale sembra quasi di sentirlo, l’odore delle spezie, e sono certa che questo immaginario profumo d’incenso arrivi alle narici di ogni singolo spettatore del Bronson.

808 si espande e riempie la sala. E’ una partita a calcio, giocata da un gruppo di ragazzini a piedi nudi sulla sabbia, una lunga marcia di elefanti. I suoni dei C’mon Tigre non hanno niente a che fare con l’occidentalissima musica a cui abbiamo abituato le nostre orecchie. Sono suoni stranianti che sfuggono a qualunque etichetta. Attraversano i generi, da una costa del Mediterraneo all’altra, appunto.

In Underground Lovers le parole vengono ripetute all’infinito come un mantra. I bassi sono profondissimi, le percussioni fanno vibrare lo sterno. I fiati hanno il sapore della nostalgia di qualcosa che non ho mai visto. Ma che adesso sembra mancare terribilmente. È faro che accoglie una barca nel porto. I suoni sono deformati, allargati, espansi fino all’estremo. Le ritmiche sono sincopate, irregolari.

Paloma suona sexy. C’è molto miele. E, come con il miele, questi suoni ti si appiccicano alle dita.

Sembra di essere in una balera post atomica. Tutto è andato distrutto dopo la Terza Guerra Mondiale. E’ rimasta solo la memoria. Le radici, o le Recines, come il titolo del loro ultimo album.

Mi volto e vedo diverse persone nel pubblico con gli occhi chiusi. Perché è così che succede. Si inizia a muovere un piede, per tenere il ritmo delle percussioni, si alza e si abbassa una spalla e ci si ritrova con gli occhi chiusi, a perdersi in questi suoni che esplodono. I C’mon Tigre sono gli incantatori di serpenti. Merito anche dei suoni ripetitivi, che ipnotizzano. Durante il concerto si toccano le frange della serata da club, ma sempre con enorme eleganza.

L’ultimo pezzo è tra quelli più conosciuti. Parlo di Federation Tunisienne De Football. Già dalle prime note in sala si avverte l’entusiasmo. La chitarra e le percussioni danno alla canzone un bel tiro, addirittura superiore alla versione album. La gente è felice.

La sensazione che ho avuto, brano dopo brano, è che il pubblico voglia sinceramente bene ai C’mon Tigre. E non è difficile capire perché. Sono generosi e offrono la possibilità di assistere a un concerto davvero insolito, nel panorama italiano. Con suoni che difficilmente sarà possibile ritrovare altrove. Impossibile dare una definizione a quello che ho visto.

Un concerto funk? Jazz? Soul? Afrobeat? Difficile dirlo. Ma non mi hanno mai interessata le didascalie, sono per gente di poca fantasia.

Al termine dello spettacolo il gruppo raggiunge il fronte del palco e si inchina davanti al pubblico.  I musicisti ringraziano, si abbracciano, la gente applaude. Questa è l’ultima data, come dicevo, e si festeggia.

Stappano qualche bottiglia di vino, riempiono i bicchieri, se li passano tra loro e alle prime file. Anche a me, brindiamo insieme.

Alla vostra ragazzi, e bon vent!

 

Daniela Fabbri

 

 

BIRØ – Episodio 2

Ecco il secondo episodio scritto da BIRØ, cantautore classe 1990 originario di Varese.

Il suo “Capitolo 1: La Notte” (Vetrodischi) è un progetto che mira a coniugare testi propri della tradizione cantautorale italiana con la musica elettronica per raccontare storie attraverso musica e parole. I suoi brani raccontano eventi legati tra loro e come le pagine di un libro seguono uno sviluppo cronologico.

“Capitolo 1: La Notte” è la storia di un uomo che analizza le sue ossessioni, le sue paure e i suoi vizi, ma anche le proprie gioie e fortune, il tutto grazie ad uno stile narrativo personale. Tutti i brani sono ambientati in un’unica notte e questo spazio temporale diventa il filo conduttore tra una canzone e l’altra: i toni crepuscolari dei testi di BIRØ trovano nella commistione tra cantautorato ed elettronica un compagno perfetto per questo viaggio che dura fino all’alba.

Dopo la pubblicazione di “Incipit”, il suo primo EP ufficiale, BIRØ si è fatto conoscere al grande pubblico con un fortunato tour che ha avuto appuntamenti importanti come il Mi Ami 2017 e il Collisioni Festival riscuotendo ottimi feedback di pubblico e critica, candidandosi di diritto quale nome su cui puntare per il futuro.

Biro ci racconta, attraverso tre racconti brevi e inediti, il significato delle sue canzoni in maniera più ampia.

Il racconto è come un’espansione dell’universo narrativo del personaggio protagonista del disco. Mentre nel disco vengono presi in dettaglio certi punti e aspetti, nel racconto questi dettagli vengono messi sotto la lente d’ingrandimento.

La necessità era quella di raccontare il punto di vista del protagonista a partire soprattutto dalla sua solitudine e dalle sue dipendenze. Il disco sicuramente fa ben capire questi aspetti e penso riesca a riportarne una chiara immagine, mi sembrava che però ci fosse l’esigenza di spiegare anche il perché lui si sia ritrovato, le cause e le circostanze. E magari quali potrebbero essere le sue prospettive.

 

Buona lettura e correte ad ascoltare il suo album!

2 EPISODIO

 

E’ molto peggio di quello che pensavo.

E’ così che doveva andare.

L’ematoma è gigantesco e violaceo. Ci credo che il capo mi ha rotto i coglioni.

Coglila come un’opportunità, tipo smetterla di fare cazzate.

E’ un bel casino, se non mi ha licenziato questa volta non mi licenzierà più.

Smettila di lamentarti!

Si smettila di lamentarti.

Mi guardo riflesso nello specchietto retrovisore. Il livido è veramente gonfissimo e fa male anche toccarlo. A dirla tutta ho dolori il tutto il corpo, cadendo devo aver picchiato la schiena e non riesco quasi a muovermi. Non vedo l’ora di essere a casa, prendere un paio di antidolorifici e sparire fino a domattina.

E’ un altro giorno di pioggia, come tanti altri giorni che l’hanno preceduto e tanti altri che seguiranno solo che oggi fa più schifo di tutti gli altri giorni.
Riesco dopo un’ora e spiccioli di tangenziale ad arrivare sotto casa, parcheggio e molto dolosamente cerco di uscire dalla macchina.

L’ombrello ovviamente (ovviamente) l’ho lasciato a casa stamattina e ho troppi dolori in troppi punti del corpo per riuscire a correre, così cammino lungo i muri cercando di farmi riparo con i balconi.

Passo di fianco al kebbabbaro che vedo ogni sera tornato dal lavoro, mi saluta con la mano.

Dai per favore, almeno stavolta non farlo.

Apro la porta dell’appartamento e stappo una sessantasei, metto le altre nel frigo.

Potrei mettere su un disco, accendere la tele, tenere qualcosa di sottofondo ma non ho voglia. Ho voglia di silenzio. Di tanto silenzio.

Tiro fuori il cellulare, passo il pollice sullo schermo spento e rotto. Nessuna chiamata, nessun messaggio, nessuna notifica.

Allungo il braccio per prendere il pacchetto di sigarette sul tavolo e una fitta mi attraversa la testa. Impreco e bevo un sorso di birra.

E’ inutile, non hai imparato nulla.

Da domani smetterò.

L’hai già detto mille volte in base a cosa è diverso?

Lo schermo del cellulare si illumina. E’ una notifica di Facebook, invito ad un evento.
Apro incuriosito, io non vengo mai invitato agli eventi.

E’ di un mio collega. Sembra che si sposi e vuole organizzare qualcosa con quelli dell’ufficio. Che cazzo vuol dire? Uno si sposa e fa una festa con “quelli dell’ufficio”.

E’ stato gentile.

E poi sicuramente l’avrà fatto per pietà visto con che faccia mi sono presentato.

E’ stato gentile. Non fare lo stronzo.

Mi sembra assurdo, ce li avrà degli amici, qualcuno con cui passare il tempo.

E tu?

Il silenzio mi ha già rotto i coglioni.

Prendo il telecomando e accendo su un canale a caso. Non ha veramente importanza che cosa sia, basta che mi scivoli addosso.
Sono irrequieto, giro come uno squalo nella stanza. Dò nuovamente un’occhiata al cellulare. Nulla, niente di niente. Silenzio radio. Non mi ha nemmeno scritto  come sto, se mi fa male la botta e io ovviamente le direi che no, che non è niente e…

Che ti dispiace?

Che mi dispiace per come sono andate le cose…

Bravo! Bel discorso… guarda sicuramente dopo sta cagata si rilancerà tra le tue braccia.

Ma chi voglio prendere in giro? Sono cambiate troppe cose e io stesso ho avuto troppe occasioni per cambiarle senza mai coglierle.

Ti ricordi una volta?

Com’era bello una volta, quando ci conoscevamo appena e lei era innamorata. Io ero innamorato. Non eravamo nemmeno maggiorenni. Praticamente nella mia vita ho passato più tempo con lei che con me stesso. Eravamo ragazzini, ci promettevamo tutto, ci dicevamo che sarebbe andato tutto bene, che avremmo avuto una casa dove passare le vacanze, forse un gatto ma sicuramente una macchina per i bambini.

Poi non ricordo quando le cose sono cambiate, all’improvviso abbiamo cominciato a parlare del fatto che non stavamo dietro le spese, che non facevamo in tempo a sistemare qualcosa che già un’altra si rompeva.

E in quel momento probabilmente era già troppo tardi per recuperare qualsiasi cosa, raschiavamo il fondo per cercare qualcosa che non esisteva più e non so proprio spiegarmi come sia successo, né quando ma soprattutto non ho idea del perché e non lo sopporto; non lo sopporto davvero.

 

 

Com’era bello una volta.

La magia degli Avantasia a Milano

Attraversare Milano è sempre un incubo per me. Traffico lento, strombazzare di clacson, moto che sfrecciano sui marciapiedi. Insomma, un’esperienza tremenda.

Per evitare di dover guidare più del dovuto in quella giungla urbana in cui vige la legge del più forte, decidiamo di parcheggiare ad una ventina di minuti dall’Alcatraz e di farci una passeggiata.

Perchè anche se Milano è famosa per lo smog, con l’arrivo della primavera e dell’ora legale, che ci regala qualche momento di luce in più, tutto sembra più bello.

La nostra meta, come detto prima, è l’Alcatraz dove suonano gli Avantasia, per la loro unica data italiana del Moonglow Tour.

Devo ringraziare il mio amico Alessandro, che eroicamente ha anche fatto da autista durante questo viaggio, per avermi fatto scoprire questa band di cui, fino a qualche mese fa, ignoravo l’esistenza. Anche se siamo solo ad aprile per me hanno già vinto il premio come “scoperta dell’anno”.

Varchiamo le porte della discoteca alle 20.15 e c’è già una folla di gente riunita e scalpitante in attesa che i loro beniamini facciano la loro comparsa sul palco.

Ce la siamo presa comoda perché l’orario d’inizio segnato sul biglietto era alle 20.30…ma quando mai un concerto inizia all’ora prestabilita?

Le luci si abbassano e in sala inizia a risuonare You Shook Me All Night Long degli AC/DC seguita dall’Inno alla Gioia.

Guardo l’orologio: sono le 20.30. Incredibile.

Terminata la musica classica cade il sipario (no, non è un errore di battitura) e lui, Tobias Sammet, è li, in posa plastica, avvolto nella penobra.

Non si parla, niente presentazioni, si parte subito: Ghost in The Night. 

Rimango folgorata, è nato un amore.

La voce di Tobias è un qualcosa di indescrivibile. Potente e avvolgente: da brividi.

La prima cosa che noto dopo la mia folgorazione iniziale è la bellissima scenografia: sullo sfondo c’è la copertina di Moonglow, che ricorda le immagini di Tim Burton, mentre alberi con lanterne e cancellate, che richiamano alla mente un maniero vittoriano in rovina, incorniciano il tutto.

Ma non c’è tempo per perdersi dietro alla scenografia. 

La voce e il modo in cui Tobias si muove sul palco sono magnetici e continuo a seguirlo con gli occhi.

Al termine della canzone prende il microfono e ci preannuncia che lui e i suoi Avantasia ci faranno compagnia per le tre ore seguenti.

Il pubblico a quel punto impazzisce e tutti quelli presenti nel locale iniziano ad urlare e a chiamare “Toby”, come si farebbe con un vecchio amico che non vedi da anni e incontri dall’atro lato della strada.

E così una dopo l’altra gli Avantasia ci regalano le canzoni del nuovo album e i successi del passato, quelli che da vent’anni a questa parte li hanno resi un gruppo che vale la pena di conoscere.

Ma non è solo un concerto, è una festa sul palco accanto a Tobias oltre ai tre coristi (Adrienne Cowan, Ina Morgan e Herbie Langhans) duettano, alternandosi Ronnie Atkins, Jørn Lande, Geoff Tate, Eric Martin e Bob Catley. 

Tutti fanno parte della grande famiglia che sono gli Avantasia, una realtà nata da un’idea di un ragazzo, poco più che ventenne, che è stato in grado di coinvolgere artisti di ogni livello.

Tobias Sammet ama il suo pubblico, parla con lui e lo coinvolge; ride e scherza con quelli che condividono il palco con lui perché è questo che la musica dovrebbe essere: divertimento (per chi la esegue e per chi la ascolta).

Alle 23.30 dopo Farewell (da brividi cantata con la corista Adrienne Cowan) tutti quelli che hanno preso parte allo spettacolo salgono sul palco.

Li contiamo: sono in 14. 

L’ultima esibizione è un pezzo corale. Tutti cantano, tutti gli artisti che hanno preso parte a questa serata magica ci regalano un ultimo pezzo di loro, prima di salutarci, esibendosi in Sign of the Cross/The Seven Angels.

Quando ci apprestiamo ad uscire sono ancora sotto l’effetto dell’incantesimo della loro musica. 

Le tre ore del concerto non ci sono bastate e gli Avantasia ci hanno accompagnato anche nel viaggio verso casa, per farci sognare ancora un po’.

 

Laura Losi

Il Musical e l’Italia: il successo targato Disney

Se vi dico Walt Disney, quale immagine si forma nella vostra mente? Prima di tutto, sicuramente, vi strapperei un sorriso.

Dopo di che la vostra fantasia inizierebbe a viaggiare, toccando gli angoli più vivi e colorati dell’infanzia, guidata da quella magia eterna che, oggi come ieri, rende la Walt Disney Company sovrana  indiscussa dell’intrattenimento. 

Ebbene, per quanto possa sembrare pacifico e prospero tutto questo, anche la Disney ha attraversato un periodo buio causato, nel 1966, dalla morte del suo iconico papà, Walt Disney.

Tra alti e bassi l’azienda non tornò a galla fino al 1989 quando un’idea pazza, quanto efficace, rivoluzionò la storia del cinema: costruire la narrazione dei lungometraggi animati esattamente come quella di un musical di Broadway.

Infatti, il 15 Novembre 1989, uscì nelle sale cinematografiche statunitensi il 28° Classico Disney: La Sirenetta. 

Il lungometraggio presentava tutte le caratteristiche che un musical di successo dovrebbe avere: numeri di ballo, canzoni indimenticabili e una capacità d’intrattenere incredibilmente efficace.

 

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L’incredibile struttura che riproduce l’albero della nave del Principe Eric, da “The Little Mermaid” a Broadway

 

Inutile dirlo, questo schema ebbe così tanto successo che la Disney tornò sulla cresta dell’onda e ci rimase producendo quei capolavori che insieme vengono chiamati ancora oggi “il leggendario trio” ovvero La Sirenetta, La Bella e la Bestia Aladdin.

Fu così che si entrò in quel florido periodo conosciuto come il “Rinascimento Disney”.

Non passò molto tempo, però,  prima che il leggendario trio sentisse il richiamo delle proprie origini. Nel 1993 nacque la Disney Theatrical Production, con l’intento di portare sui palchi di Broadway il successo planetario di Beauty and the Beast.

Ma come tramutare quelle incredibili animazioni in spettacolo, senza correre il rischio di rendere il tutto un gigantesco flop? 

Inevitabilmente fu necessario sbattere la testa sul fatto che il musical è si una forma d’arte meravigliosa e complicata, ma soprattutto costosa. La mediocrità è facile da sfiorare quando scegli la strada del musical. 

Precedentemente abbiamo parlato di quanto sia difficile produrre un musical tradizionale, soprattutto in Italia, poiché il denaro da investire per questo tipo d’intrattenimento scarseggia e l’incognita successo è parecchio determinata dal prezzo del biglietto. 

Raccontare allo spettatore la difficoltà di produzione, esaltandone impegno e virtù, è il primo passo per riempire i teatri. 

L’esempio di Mary Poppins, il musical italiano che ha fatto sognare adulti i bambini riscuotendo un enorme successo, vi sembrerà ridondante ma  ci serve per capire che l’amore tra il musical e l’Italia è davvero possibile.

 

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Numero musicale tratto dal musical Disney “Newsies”, in cartellone al Teatro Nazionale di Milano prima del successo di “Mary Poppins”.

 

Potremmo chiederci però cosa porta le persone ad assistere ad un musical Disney, quando la storia è la medesima, vista e rivista da generazioni di bambini ed adulti sulle VHS ed al cinema.

Sì, è vero, quando Disney porta sul palco le proprie storie queste non hanno bisogno di presentazioni. Per prima cosa la musica viene utilizzata per dare definizione e carisma allo spettacolo e per portare qualcosa di nuovo al pubblico, che sia in linea però con il lungometraggio omonimo.

Infatti è tradizione che siano aggiunte canzoni create appositamente per le versioni teatrali della storia; fortunatamente la Disney può permettersi di chiamare a raccolta lo stesso team che precedentemente ha lavorato al film. 

Dopo la riuscitissima realizzazione sperimentale di musical come Beauty and the Beast e The Little Mermaid, fu proprio con Aladdin che la Disney celebrò maggiormente il legame originario tra musical e lungometraggio. In questa storia lo schema del musical è molto più marcato, rispetto a quello dei suoi fratelli maggiori, proprio per celebrare il fatto che fu la scelta di questa tipologia di narrazione a salvare la Disney dai suoi anni bui.

Trasformare Aladdin in spettacolo fu come riportarlo alle sue origini: un gioco da ragazzi, si può dire. Friend like me, il brano cantato dal Genio della Lampada, ormai fa parte del DNA di Broadway.

I suoi genitori, il compositore Alan Menken e il paroliere Howard Ashman, sono i creatori delle canzoni che resero “il leggendario trio” il perfetto esempio di spettacolo allo stato puro.

Per loro, tornare a lavorare per Broadway, dopo Sister Act e La Piccola Bottega degli Orrori fu come tornare a casa dopo un lungo viaggio nell’animazione.

Per renderlo ancor più spettacolarizzabile Menken pregò i dirigenti di liberare Aladdin il Musical dai diritti d’autore, consentendo alle scuole di metterlo in scena senza problemi.

Sta di fatto che Disney portò Broadway sul grande schermo e ne fece un’infallibile ricetta per il successo. In seguito, riconsegnò quella ricetta al palcoscenico. 

Da qualche anno a questa parte, iniziando con La Bella e la Bestia, dato il trionfo  illimitato dei suoi musical teatrali, la Disney sta riportando Broadway sul grande schermo, continuando quest’anno con l’uscita nelle sale cinematografiche dei musical in live action di Aladdin e de Il Re Leone.

Broadway/cinema/Broadway/cinema. Mio Dio, un Inception Disney.

 

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Un giovane Simba sale sulla Rupe dei Re, dal musical “The Lion King” a Broadway.

 

Spesso il successo di uno spettacolo dipende anche dalla qualità degli effetti speciali che devono essere convincenti per sbalordire il pubblico. 

La magia, in un musical come Aladdin, è una prerogativa così, per i suoi effetti speciali, Disney si rivolse al maestro dell’illusionismo Jim Steinmeyer, che divenne membro attivo del team creativo.

Per le scenografie, le luci ed i costumi l’intero team intraprese un viaggio in Marocco, per rubarne le atmosfere e le tradizioni.

Così, da 8 anni a questa parte, ogni replica di Aladdin è un tributo a tecnici, artisti, costruttori e supervisori  che hanno lavorato senza sosta per una ragione soltanto: estasiare noi, i loro spettatori.

 

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Numero musicale “Arabian Night” tratto dal musical “Alladin” nel West End di Londra

 

Per quanto il teatro possa essere appagante e liberatorio per un artista, lo spettacolo è, in realtà, confezionato per il pubblico: occorre affinare il più possibile la capacità di carpirne sogni e bisogni, se si vuole arrivare ad un prodigioso successo. 

Per quanto possa essere complicato mettere in scena una rappresentazione stabile in un teatro, lo è ancor di più pensare ad uno spettacolo di questa portata che possa spostarsi da una città all’altra.

Quando nel 1991 Rob Roth, veterano regista di Broadway, vide al cinema La Bella e la Bestia, impazzì per il film perché, nel vederlo, si accorse di quanto fosse comparabile ad un vero e proprio musical. 

Quando Disney gli chiese di dirigerne la versione teatrale, esplose di felicità. 

 

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Insegna del musical Disney “Beauty and the Beast”

 

Poi, dopo mesi di pre-produzione ed il successo di Beauty and the Beast a Broadway, gli venne chiesto di riadattare la sua creatura ad un musical da tournè. La cosa non fu affatto semplice:

Abbiamo portato lo show in tutto il mondo, ho volato personalmente in Australia, Giappone, Vienna, Los Angeles e Germania, per ricercare in loco il perfetto team creativo. Per me è stato un onore lavorare con così tanti artisti ed attori nel mondo, ho imparato che le emozioni sono un linguaggio universale.

Ma, ogni volta che lo spettacolo si vestiva di un nuovo teatro, in una nuova città, le modifiche da apportare erano troppo numerose. Le luci, le scenografie, le scelte stilistiche, tutto completamente da rifare..

Per noi, c’era solo una strada: tornare alla pre produzione e reinventarsi, così da creare uno spettacolo su misura per ogni nuova location.

Per rendere giustizia alla sua opera Roth fece un’ accuratissima ricerca, prese aerei e passò notti intere, insieme ai suoi tecnici, a modificare lo spettacolo senza danni far danni. Tutto, perché la magia creata dal team non si disperdesse. 

Pensate un attimo a quanto un musical da tournè perda di qualità nel passare da un teatro all’altro. 

In Italia, questo succede ogni volta. Le luci, i colori, le scenografie, il sonoro, l’impostazione dei performer sul palco, ovvero il lavoro di tantissimi professionisti che hanno studiato giornate intere, tutto sarebbe da rifare e, vi assicuro, il pomeriggio che si ha a disposizione non è per nulla sufficiente. 

Come risolvere l’eterna lotta tra la ricerca della qualità e l’enorme investimento economico e creativo necessario per portare sui palchi italiani un vero musical tradizionale?  

 

Valentina Gessaroli