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Mese: Giugno 2019

Van Gogh e i Maledetti

•Stefano Fake ci insegna come si racconta l’arte con l’arte•

 

Di norma, non occorrerebbe nessuna particolare motivazione per saltare su un treno per Firenze.
A Firenze ci vai e basta, ed ogni cosa che potrai portarti a casa sarà inestimabile bottino.

Ma quando la Chiesa di Santo Stefano, a due passi da Ponte Vecchio, diventa Cattedrale dell’Immagine, e si fa bella per ospitare una delle mostre più coraggiose e rivoluzionarie del momento,  il biglietto di questo treno si timbra da solo.

Siamo quindi sfrecciati verso una Firenze toccata e fuga, per un aperitivo maledetto con Van Gogh, Lautrec, Modigliani ed altri tormentati ragazzacci. Abbiamo sguazzato nelle loro vite tutt’altro che piacevoli e capito quanto l’arte, per loro, sia stata la vera salvezza. O forse no. 

Davanti ad una mostra come Van Gogh e i Maledetti ci si sente destabilizzati, poiché l’unica prerogativa è spogliare le opere da qualsiasi filtro di falsità, così che possano urlarci in faccia di non essere figlie predilette di divinità perfette, ma d’essere venute alla luce dalle menti esasperate di uomini soli, limitati, dannati, in un vorticoso travaglio senza gioia ne consolazione. 

A presentarci Van Gogh e i Maledetti è CROSSMEDIA GROUP, con un’esperienza multimediale progettata e diretta da Stefano Fake di THE FAKE FACTORY, artista visivo multidisciplinare che, con grande audacia e sensibilità, utilizza tecnologie di ultima generazione per raccontare l’arte con l’arte.
Abbiamo chiesto a Stefano di parlarci della mostra, dell’importanza delle nuove frontiere artistiche e del grandioso lavoro che c’è dietro allo straordinario risultato finale.

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La tua opera è colma della Parigi di fine ottocento e inizio novecento, fulcro del mondo bohemien, terreno fertile per le vite dissolute dei nostri Maledetti. Quali strade di Parigi ha percorso la tua ispirazione? 

Per questa esperienza immersiva ho lavorato su diversi binari estetici e narrativi.

Dal punto di vista storiografico ho voluto approfondire la descrizione dell’ambiente parigino a cavallo dei due secoli, usando diverse fonti cinematografiche e fotografiche.

Mi sembrava necessario far capire sin da subito come fosse importante l’ambiente di Parigi, in quel momento sicuramente la capitale mondiale dell’arte, e il motivo per cui era diventata la meta di tutti coloro che volevano vivere pienamente una vita e una carriera d’artista.

Per questo ho usato ampie scene di repertorio su Montmartre, Montparnasse, i caffè parigini, le sale danzanti, per concludere con l’apoteosi finale dei fuochi d’artificio all’inaugurazione della Tour Eiffel.

Parigi era il centro del mondo e sicuramente la meta di tutti gli artisti che volevano affermarsi nel mercato e magari nella storia dell’arte.

Quindi, oltre che per gli amici fraterni Van Gogh e Gauguin, Parigi era il punto di riferimento per tutta una serie di altri pittori molto eterogenei fra loro come stile e tecniche pittoriche.

La cosa che li accomunava era soprattutto l’aspirazione ad una vita bohémien completamente dedicata all’arte, chiaramente insaporita da vino, assenzio, hashish e sesso.

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Hai creduto fosse importante slegare le singole esperienze di questi artisti dalle vite rispettivamente intrecciate fra loro, per dedicare ad ognuna di esse un capitolo personale. Cosa ti ha spinto verso questa scelta?

Si, la narrazione visuale è fatta di brevi capitoli monografici, diversi fra loro come composizione e grafica animata.

Dal punto di vista registico per me era fondamentale mostrare questa eterogeneità stilistica e tematica, questa ricchezza di colori e forme. Una frammentazione narrativa legata profondamente allo spirito del tempo.

Gli artisti maledetti dipingevano in modo differente e molto personale; rappresentavano Parigi ciascuno con la propria matrice stilistica, ma ne erano tutti figli e ciascuno ne raccontava una parte, e tutte queste porzioni ne danno una visione sicuramente più completa.

Il tutto collegato da un avvolgente fil rouge,  proprio come nei capitoli di un romanzo.

Nel corso dei quaranta minuti di video-installazione a 360°, passiamo da Modigliani a Toulouse-Lautrec da Soutine, a Gauguin e Van Gogh, senza che questa frammentazione possa sembrare dissonante. Perché tutti loro, in definitiva, stavano rappresentando in modo molto personale lo spirito del tempo.

Con la scelta musicale ho seguito lo stesso schema: grande varietà ed eterogeneità, passando da Verdi a Vivaldi da Schubert a Beethoven e Hoffenbach, stando attento unicamente a tenere alta la temperatura emotiva dell’esperienza immersiva, lavorando sull’alternanza ritmica e sulle sonorità.

Un’esperienza più che immersiva. Era tua intenzione farci rivivere l’ipotetico percorso di maledizione ed espiazione di Van Gogh ed i suoi colleghi?  

Per far viaggiare l’opera dentro un binario simbolico molto strutturato ho costruito, su un secondo livello, una narrazione che procede come un viaggio di purificazione.

Partiamo dall’inferno a cui questi artisti dalla vita dissennata erano destinati, per portarli fino al cielo, all’elevazione in paradiso, spinti dalla grandezza e dalla purezza della loro arte.

Per questo il primo capitolo inizia con il Dies Irae di Verdi e ci troviamo fra le fiamme dell’inferno e all’interno di una scena vandalizzata da scritte rosse spalmate sulle pareti dell’ambiente. Tanto forti da sembrare scritte col sangue.

Interessante la contrapposizione che hai creato ambientando una scena infernale all’interno di una chiesa sconsacrata. 

In questa scena suggerisco al pubblico la mia interpretazione del girone dantesco che ghermisce questi pittori dalla vita estrema: una chiesta sconsacrata vandalizzata come uno squot abbandonato e graffitato centimetro per centimetro.

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Abbiamo colto qualche citazione a Disney, qualcuna addirittura all’animazione giapponese. Affermazione troppo azzardata?
Assolutamente no. In questo primo capitolo c’è una citazione diretta di uno dei capolavori del cinema d’avanguardia, Fantasia di Walt Disney del 1940, così come avevo fatto per Klimt Experience.

In particolare mi sono ispirato alla scena iniziale di Fantasia, realizzata sotto la direzione artistica di Oskar Fishinger, uno dei maestri dell’animazione astratta che ha aperto le porte all’idea di film astratto all’inizio del ‘900.

Chiaramente, essendo figlio del mio tempo, ho dato un tocco manga alle animazioni astratte e ho potuto ottenere, grazie al montaggio digitale, una perfetta sincronia audio-visiva.

Hai lavorato molto sui contrasti. Lo spettatore non può che sentirsi parte di qualcosa di grande. Non possiamo chiedere ad un padre di identificare il figlio preferito, ma sicuramente c’è un “capitolo” di cui vai particolarmente fiero.
Uno dei momenti visivamente più belli e riusciti dell’opera, che fa da contrappunto a questa prima scena infernale, è il finale dell’opera immersiva, con la contemplazione del paradiso: la notte stellata di Van Gogh.  Apprendiamo affascinati come da una vita maledetta possa nascere un’arte celestiale e sublime. E’ in definitiva un inno alla forza catartica dell’arte che salva tutti, artisti e pubblico.

Per quanto riguarda la progettazione dell’ambiente immersivo non mancano strumenti che stanno aprendo le porte ad un nuovo concetto di “istallazione artistica”.

Per Van Gogh e i Maledetti ho potuto portare due tecniche che da anni utilizziamo con successo nei festival e nelle mostre immersive: il videomapping, sulle nude pareti della chiesa che ci ospita, e la Mirror Room, che dagli inizi degli anni duemila cerco di inserire sempre nelle esposizioni di cui sono autore, negli eventi e nei festival d’arte digitale.

Dopo alcuni anni in cui la Chiesa di Santo Stefano era rivestita di schermi, siamo riusciti a lavorare con la produzione di Crosserai per farla tornare alla sua forma originale.

La perfetta visione delle opere è comunque garantita dalla forma stessa dell’architettura, che ha ampie pareti intonacate sopra gli altari.

Per migliorare la visione ho fatto inserire uno schermo centrale, che non è altro che la parete portante della terrazza costruita appositamente per avere anche una visione dall’alto dello spazio.

Il balcone ospita anche una mia Mirror Room, dove il concetto di immersive art experience, che da anni è la cifra stilistica di THE FAKE FACTORY, è portato alle sue estreme conseguenze.

La mostra è completata da una parte didattica tradizionale e da un viaggio tridimensionale con Oculus.

Questi ambienti sono curati direttamente da Crossmedia, così come il bookshop, rinnovato anch’esso per questa esposizione.

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Da anni sei parte attiva di questo nuovo fenomeno chiamato “crossmedialità”. L’arte sta cambiando, così come il suo pubblico. Sperimentare è inevitabile e necessario, perché stiamo assistendo all’alba di una nuova era della comunicazione. Dopo aver parlato della tua ultima creatura, parlaci un po’ di te, della tua esperienza e della tua personale rotta.

Questa per noi  è la quinta produzione per Crossmedia Group (dopo Klimt, Monet e gli Impressionisti, Modigliani e Magritte) e consolida un rapporto che ha portato il gruppo a diventare un importate player nel mondo delle mostre multimediali.

Devo dire che la fiducia e la libertà creativa che il produttore Federico Dalgas mi ha sempre lasciato è sicuramente stata una delle chiavi del successo di questo nuovo modo di rappresentare l’arte del passato con linguaggi e tecniche contemporanee.

Se da un lato perdiamo, per così dire, la materia pittorica (non ci sono opere originali in mostra), dall’altra possiamo utilizzare la luce digitale per creare mondi fantastici, illusioni ottiche, immersioni visive sorprendenti.

Osservazione da sottolineare, perché molti storgono ancora il naso quando si tratta di mostre senza opere originali. Raccontare l’arte con l’arte, soprattutto se si trattano opere classiche e celebri, non è ancora un concetto così immediato ed accettabile, a quanto pare. Occorre avere coraggio, il nuovo pubblico sembra in continua crescita.

Proprio così. Per un artista che lavora con i new media è importante sentirsi libero di sperimentare e di reinterpretare i classici del passato senza sentirsi limitato e avendo la possibilità di sperimentare ogni volta soluzioni visive nuove, sapendo che lo sforzo economico che il produttore sostiene sarà ripagato sia in termini economici che di visibilità.

La prima esperienza che abbiamo realizzato per loro, Klimt Experience, è stato un successo mondiale che ha aperto molte porte a questa nuova forma di immersione nell’arte.

Il pubblico del terzo millennio ha voglia di vivere diverse esperienze estetiche e le immersive exhibitions sono sicuramente una proposta culturale interessante proprio perché complementari alle mostre tradizionali. Sono sicuramente anche un buon modo per introdurre all’arte bambini e teenagers.

Già, troppo spesso si parla dei giovani e della loro incapacità di mostrare interesse per la cultura e per il loro futuro. Noi crediamo invece che ogni generazione abbia il suo linguaggio e che questo linguaggio, come ogni altro, vada studiato, ascoltato, accolto. Siamo stati felici di vedere la mostra popolatissima di ragazzi e ragazze.

Penso che le strade che abbiamo aperto porteranno ad una crescente attenzione verso le mostre immersive, con la nascita di nuovi artisti visivi e nuovi produttori interessati ad investire in questo mercato.

Lo ripeto da anni: siamo come a inizio ‘900 quando nacque il cinema. Nel giro di pochi decenni le sale cinematografiche si sono moltiplicate, e c’è stato spazio per nuovi registi, nuovi autori, nuovi produttori.

Per questo penso che da parte del pubblico e della critica sia anche venuto il momento di superare la dicotomia mostra con quadri veri versus esperienza immersiva di arte digitale. 

Per usare una metafora facilmente comprensibile, le mostre immersive stanno alle mostre tradizionali come il cinema sta al teatro?

Esattamente, nessuno va al cinema sperando di trovare attori in carne ed ossa.

Oggi, se vai al cinema è normale sapere che vedrai degli attori e delle scene riprese e poi proiettate su schermi.

E’ un segno dei tempi, e la riproduzione dell’arte partendo da una foto in digitale è il modo più comune con il quale il pubblico entra in contatto con le opere d’arte del passato.

Inoltre oggi abbiamo una qualità riproduttiva eccellente, con una qualità di riproduzione molto definita e fedele all’originale. Manca la materia pittorica, certo, e le dimensioni sono riportate su grandi schermi.

Ma questo per me è un vantaggio, perché possiamo rafforzare la potenza visiva delle opere riprodotte ed esaltarne le trame e i dettagli.

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Negli anni l’arte cinematografica si è sviluppata come linguaggio e tecnica fino ad essere definita la settima arte. Oggi l’arte digitale immersiva potrebbe rappresentare l’ottava forma d’arte? 

Sicuramente è quella che maggiormente si avvicina all’idea di Arte Totale di cui si parla da quasi due secoli.

Un’esperienza immersiva, nella forma in cui la concepisco e la realizzo, è un’insieme di architettura, pittura, musica, danza, poesia, cinema… L’arte digitale immersiva è un’esperienza totalizzante.

Per questo spero che una nuova generazione di critici, divulgatori e storici dell’arte ne prenda atto e inizi ad analizzarla e a descriverla per quella che è: una forma d’arte a se stante che ha un proprio linguaggio e una propria ricerca.

E spero che si inizi a capire che dietro ad ogni mostra immersiva ci sono autori e artisti visivi con il proprio stile e la propria capacità non solo di rileggere il passato, ma anche di creare nuove estetiche. 

Partiamo da qui, il pubblico ed i lettori devono sapere quante interessanti sfaccettature, quanta progettazione e quanta ricerca creativa si celano dietro ad una mostra immersiva. Capita spesso che il vostro lavoro non venga capito?

Mi piacerebbe che un giorno si smettesse di fare domande agli autori di esperienze immersive  sul tipo e sulla quantità di proiettori utilizzati, perché sarebbe come chiedere a Fellini che tipo di cinepresa ha usato per girare il film o che proiettori utilizzano nei cinema per proiettare i suoi film.

Nessuno chiede a Bob Wilson che fari utilizza per fare i suoi enormi fondali retroilluminati a teatro. Gli viene chiesto il perché crea scene con architetture fatte di luce.

Chi chiede a James Turrell se per creare le sue stanze immersive usa Led o luci con gelatine colorate?

Noi artisti digitali ci dobbiamo preoccupare solo di creare esperienze d’arte belle e culturalmente significative. Ognuno con il proprio punto di vista e la propria visione, cosi che il pubblico possa un giorno andare a vedere un’esperienza immersiva sapendo quale autore l’ha realizzata, esattamente come accade quando si sceglie un film.

Lo si fa per vedere l’opera, non per vedere una sala dove la tecnologia permette di proiettare delle immagini su una parete bianca.

Italia, patria dell’arte, luogo dove alla domanda “che lavoro fai?” la risposta “l’artista” segue svariate e raramente benevole reazioni. Sei sicuramente un grande esempio per i giovani che sognano un futuro nel campo artistico.

Sì, e spero che quello che stiamo facendo serva come guida per gli studenti d’arte e i nuovi creativi digitali.

Ci sono enormi possibilità di esprimersi come artisti e come narratori digitali, è un mondo tutto da creare e scoprire. Ma siamo agli inizi e la definizione di un’arte nuova richiede tempo. 

Ma noi artisti andiamo avanti, sperimentando e creando, così come fecero altri prima di noi.

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Articolo di Valentina Gessaroli

Agnello “Il Minotauro” (Garrincha Dischi, 2019)

Per definizione l’agnello è la creatura più docile del regno animale. Agnello è anche il nome (nonché il cognome del cantante e fondatore del gruppo) di una band palermitana nata nel 2016 e, ascoltando l’album, risulta essere un appellativo appropriato per questa band carica di sensibilità, dolcezza e irrequietezza verso il mondo.

L’obiettivo primario del gruppo è una crescita costruttiva e la conseguente tutela del suo stile, una ricerca estetica musicale, linguistica e spirituale, per regalare all’ascoltatore un’esperienza totalmente nuova, il più possibile distante da quello che si può trovare sul mercato musicale attuale.

Il loro album d’esordio Il Minotauro, composto da singoli usciti tra il 2017 e il 2018, è traboccante di atmosfere romantiche e commoventi, scaturite da animi nobili che sembrano cozzare con la superficialità che ci circonda oggi.

Funamboli contemporanei alla ricerca di un equilibrio tra ritmi tipici della musica italiana anni ‘60, indie e surf, adottano testi delicati e nostalgici, grazie all’uso smodato del sax, che colora di tinte malinconiche tutto l’album.

La figura fragile e riflessiva de Il Minotauro primo brano e titolo dell’album, esplode in tutta la sua angoscia ed emarginazione, la quale sembra essere il mantra della band. Emblema della società evoluta, dove ci ritroviamo più spesso lontani gli uni dagli altri, chiusi nella nostra personale disperazione (come lo è il Minotauro del suo labirinto), alla ricerca di un/a compagno/a che divida con noi l’onere di questo massiccio fardello.

Altra questione che viene valutata è la paura nei suoi più intimi aspetti: paura dell’abbandono da parte della persona amata, come nel brano Marta, dalle sonorità morbide e armoniose, fino ad arrivare alla paura delle relazioni stesse. Il terrore di impegnarsi che impregna le generazioni moderne nel pezzo Casa Tua, dove ricorre la paura di imbarcarsi in una situazione troppo grande, troppo importante — come potrebbe essere salire a casa dell’amata — ipotizza la fine del sentimento, quasi per codardia, e il raggiungimento di qualcosa con l’ansia di non esserne poi all’altezza.

Il loro intento è dar spazio e voce alle emozioni, utilizzando un registro pop per analizzare la collettività come in Sulla sdraio nato dall’unione creativa con Nicolò Carnesi. Si servono delle classiche retoriche del cantautorato indie a tratti ripetitivo e circolare per esprimere l’insoddisfazione di una generazione mentalmente relegata su una sdraio, schiacciata dalla realtà che ci scorre dinanzi come un film, nella quale non possediamo potere decisionale ma siamo solo spettatori non paganti. 

Come ammette il gruppo stesso, “il brano è volutamente più monotono, per trasmettere una percezione di tempo perduto e del fatto che vivere in dipendenza dal mondo esterno ti condanna all’infelicità”.

La critica verso la società moderna è contestualizzata in Tutto questo penare, dall’intro fresco, estivo, estremamente pop, in forte contrasto con il testo amaro, improntato sulla solitudine e sulla discordanza degli schemi sociali (sposarsi, far figli, sistemarsi) in rapporto alla vera felicità. 

Come astronauti esploratori di un universo parallelo, questa band vuole parlare di amore, di solitudine ma soprattutto della paura di una generazione, il terrore nelle relazioni interpersonali e della gestione dell’emotività in un momento storico interamente incentrato sull’avere, più che sull’essere.

 

Agnello

Il Minotauro

Garrincha Dischi, 2019

 

Marta Annesi

Dale: la rivincita del pop made in Italy

A volte trovare musica italiana dal respiro internazionale sembra essere un vero e proprio rompicapo. Eppure, il nostro bel paese è pieno di giovani artisti pronti ad affacciarsi al mercato d’oltre oceano. Noi di Futura 1993 ne abbiamo scovata una in particolare: si chiama Dale ed è una promettentissima cantautrice pop dalle origini italo canadesi. Il suo nuovo singolo autoprodotto “Yes, I Will”, uscito martedì 30 aprile, ci parla di rinascita tramite sonorità pop che rimandano ai primi anni 2000. Fresca di questa nuova uscita, abbiamo deciso di farle qualche domanda per scoprire la sua storia, la sua musica e le sue ispirazioni.

 

Ciao Dale! È appena uscito il tuo ultimo singolo “Yes I will”, ci racconti cosa significa questo brano per te? 

Ciao! È appena uscito e ne sono molto contenta. Sono stata lontana dalla scena inedita per un anno e questo brano segna il mio “ritorno sulla scena” con conseguente e decisivo cambio di rotta sul piano artistico. Ho variato il team, provato nuove collaborazioni e ho tirato fuori un brano che nessuno si sarebbe aspettato da me con un testo che racconta tutti i rifiuti che mi hanno frenata molte volte e il perché non succederà mai più.

 

E come sta andando l’accoglienza da parte del pubblico?

Con “Yes, I Will” ho deciso di complicarmi le cose: a differenza dei singoli precedenti non ho

potuto contare su collaborazioni o partecipazioni di enti/persone per la diffusione del brano: in questo caso sono solo io e ogni consenso che sto ricevendo per me vale il doppio perché è stato ottenuto con le mie sole forze. È stata una piacevole sorpresa vedere apprezzato questo mio nuovo sound, mi sta permettendo di allargare il mio pubblico e mi ha chiarito ancora di più le idee sulla strada da seguire.

 

Ora parlaci un po’ di te. Quando e come nasce la tua passione per la musica?

Da che ne ho ricordo, sono sempre stata attratta da tutto ciò che avesse a che fare con la musica. Non c’è stato, dunque, un particolare momento che ha segnato l’inizio di questo grande amore. Sin da piccolissima ho sempre ballato e cantato in giro per la casa seguendo il mio personale concetto di “performance” appreso in primis attraverso lo schermo dalle principesse dei grandi classici Disney. Nel corso degli anni ho poi coltivato la mia passione attraverso studi di danza, canto e recitazione.

 

Domanda di rito ma necessaria, quali ascolti hanno maggiormente influenzato il tuo percorso artistico?

Quand’ero bambina, in macchina durante il tragitto casa-scuola, ho sempre ascoltato le maggiori hit anni ‘80 presenti nelle playlist di mio padre e credo di aver assorbito molto da quei brani. Quando ho cominciato ad ascoltare musica per conto mio, mi sono riconosciuta subito nel pop amando poi sopra tutti Britney Spears. Sono influenzata in generale da tutto il pop dei primi anni 2000 sia femminile che maschile (ad esempio Justin Timberlake) e dalle produzioni di Timbaland e Max Martin.

 

Hai un sound decisamente internazionale e scrivi brani in inglese. Sei italo-canadese ma so che vivi in Italia, cosa ha condizionato questa scelta linguistica?

Ho doppia cittadinanza e doppia nazionalità, sono nata in Italia, parlo in italiano, vivo, mangio e penso in italiano, mi piace l’idea di potermi avvicinare alle altre mie radici esprimendo i miei sentimenti attraverso la musica. È una scelta personale, ma non troppo ponderata perché mi è molto più facile scrivere in inglese. Non nego comunque che un domani potrò sperimentare di cantare in italiano o in francese sempre per restare fedele al mio background familiare.

 

E invece come valuti l’attuale settore discografico in Italia? 

Chiuso, improntato quasi esclusivamente sulla lingua italiana e poco incline all’internazionalità. È un settore che rischia poco, che investe solo su progetti identici tra di loro perché ormai si punta solo su ciò che saprai già di poter vendere, che si alimenta solo tramite personaggi (spesso anche validi) che emergono dai talent o contenuti virali. Secondo me si potrebbe fare molto di più e con ottimi risultati.

 

Con chi ti piacerebbe collaborare, sia in Italia che all’estero?

Sinceramente non saprei scegliere di preciso qualche artista italiano perché non ho ancora

individuato qualcuno che possa avere una visione musicale simile alla mia, in ogni caso sto continuando a monitorare il panorama e magari presto avrò una risposta anche a questa domanda. Per una collaborazione estera… ultimamente mi ha conquistata Ava Max quindi ammetto in tutta sincerità che adorerei collaborare con lei. In ogni caso una collaborazione con una qualsiasi artista pop d’oltreoceano sarebbe sempre e comunque accolta a braccia aperte!

 

Ultima domanda, cosa dobbiamo aspettarci dal tuo progetto? Puoi anticiparci qualcosa?

Sicuramente un altro brano a breve (credo di aver già deciso quale), sto lavorando a delle demo per un progetto parallelo in cui credo molto e lavorando a un featuring che mi vedrà protagonista di una canzone dove probabilmente non canterò solo in inglese… non vedo l’ora!

 

Alice Lonardi

 

Futura 1993 è il network creativo creato da Giorgia e Francesca che attraversa l’Italia per raccontarti la musica come nessun altro. Seguici su Instagram, Facebook e sulle frequenze di Radio Città Fujiko, in onda ogni martedì e giovedì dalle 16.30

 

I Loren e la musica pensata per essere suonata dal vivo

Il Locomotiv Club è praticamente deserto, ci sono soltanto gli addetti ai lavori che stanno preparando il locale per il concerto dei Loren. Una band composta da cinque ragazzi fiorentini che, noi di Vez, abbiamo amato fin dal primo ascolto del loro album omonimo.

Ragazzi solari, che danno una carica di positività a chi li circonda.

Quella del Locomotiv è l’ultima data del loro tour e il fatto che sia proprio a Bologna assume un significato ancora più grande. Perché è come se tutto fosse nato qui, perché Garrincha, la casa discografica che ha deciso di investire su di loro, ha sede proprio nel capoluogo emiliano.

Ci sediamo sul divano del Locomotiv e iniziamo a chiacchierare…

Chi sono, e chi erano, i Loren. Parlateci un po’ di voi.

I Loren sono un gruppo che si è formato a settembre, 10 mesi fa. 

E’ un gruppo che nasce dalle ceneri di un’ altra band, che si chiamava Amarcord, e che è uscito subito con Garrincha Dischi, una delle etichette più fighe del panorama indie italiano, che ha prodotto Loren il nostro album.

Ora stiamo portando in tour lo spettacolo con i brani del disco e qualche canzone vecchia, una sorta amarcord del gruppo precedente.

Abbiamo cominciato, con il progetto vecchio, una decina di anni fa. 

Eravamo piccolissimi ed è stato un bellissimo modo per conoscersi, stare insieme e trovare un linguaggio comune. 

Quando sei così piccolino ed inizi non sai nemmeno cosa vuoi fare davvero. Noi lo abbiamo scoperto insieme ed ora siamo contenti del lavoro che abbiamo fatto e di questo contesto che si sta creando intorno a noi. 

I vostri testi parlano di vita e di cose spesso semplici e quotidiane ma lo fate in un modo completamente vostro. Dove trovate l’ispirazione?

Grazie perché questa più che una domanda è un complimento. 

Abbiamo attraversato molte fasi di scrittura; è da quando abbiamo 14 anni che scriviamo canzoni, forse anche da prima. 

Ad un certo punto abbiamo detto: ok, vogliamo dirvi delle cose e vogliamo farlo in modo diretto, vogliamo mettere in gioco noi stessi.

Questa cosa è anche un po’ frutto dei tempi, viviamo in un mondo che è iper-realistico, in cui tutto si può guardare e controllare. 

Questo forse ci ha spinto a fare un album così intimo, che parla delle nostre cose. 

L’ispirazione è stata un po’ figlia dei tempi e di un linguaggio che abbiamo cercato di costruire negli anni, sia dal punto di vista musicale che da quello dei testi. 

Perché quando si è una band, anche se nessuno ci pensa, bisogna cercare di parlare al plurale. Questo ormai non si fa più, si pensa troppo spesso all’io, mentre avere un gruppo ti fa pensare al noi.

Se c’è un merito in questo album è proprio questa connessione tra i due orizzonti: il piccolissimo, l’individuale, e l’orizzonte ampio della collettività. Credo che questi due mondi si siano ben intersecati.

La cosa che più mi ha colpito è la positività e la grinta che riuscite a trasmettere. Quali sono i messaggi di cui volete farvi portavoce?

Noi non ci siamo mai messi nell’ottica di piangerci addosso, che secondo noi è un po’ il tema del decennio. Non è una cosa che ci appartiene, non ci piace e quindi cerchiamo di evitarlo. 

Anche se tra di noi siamo molto autocritici e negativi, a volte anche autodistruttivi, il messaggio che vogliamo dare è che esiste ancora la possibilità di lavorare e costruirsi un percorso. 

Non c’è motivo di disperare mai finché si ha la forza di dire “ok, facciamo un altro passo nel nostro percorso”.

Secondo me, per la nostra esperienza, l’insegnamento è che si può fare un passo alla volta ma comunque arrivare a fare grandi cose. 

Questa cosa si può applicare a tutto, ma ultimamente va molto di più di moda l’autocommiserazione. 

Questo non ci è mai piaciuto, è quasi diseducativo. A volte ci dicono che non siamo indie perché non ci facciamo portatori di questa tematica. Ma noi siamo contenti di non far parte di questa cosa.

Noi crediamo in una costruzione collettiva che dia il senso all’individuo. Io vivo il gruppo in questo modo. Il messaggio in qualche modo si trasforma dal vivo. Assume più colori, più strati. Noi crediamo soprattutto in questa cosa della musica dal vivo, nel momento dell’essere li fisicamente.

L’album è una sorta di documento ma noi diamo molta importanza al fatto di essere li con corpo.

In un momento in cui in Italia vanno per la maggiore generi come la trap e l’indie, voi sembrate discostarvi. Come definite il vostro genere?

Ci sono due livelli secondo me. Musicalmente, il filone indie, è molto povero. Noi siamo in cinque e, spesso, anche nelle band che si ascoltano non si sente la presenza di tutti gli elementi.

Molte volte c’è un produttore che interviene e tira le fila, c’è uno che fa il lavoro per gli altri. Inoltre a volte queste parti non sono pensate per essere suonate dal vivo.

Noi facciamo un’operazione diversa. Pensiamo le cose, in cinque, che possano rendere dal vivo bene, poi la resa su disco viene dopo. Quindi forse può penalizzarci ma è un modo completamente diverso di costruire la musica, fin dalla partenza.

Non può risultare simile all’indie; anche se qualcuno forse ci può confondere. 

Ci rifacciamo alla musica indipendente precedente e internazionale. Ci ispiriamo a band come i The National, i The Killers, i Coldplay, i Kings of Leon e i Radiohead.

Gruppi che riescono a curare l’aspetto musicale, con delle belle melodie,  ma si fanno portavoce di un messaggio positivo, con dei bei testi. Noi cerchiamo di fare questa cosa.

Forse non è un momento fortunatissimo però crediamo che le cose si costruiscano nel lungo periodo e facendo un passo alla volta. Noi abbiamo mandato un messaggio, ma ne vogliamo mandare altri centomila. Questo è stato soltanto il primo sassolino.

Ci salveremo tutti, nome del tour e di una delle canzoni, lancia un messaggio molto forte.

Questa cosa forse è stata un po’ fraintesa ma ci piace che sia andata così. In questa canzone Ci Salveremo Tutti sarebbe quasi un “ci salveremo da noi stessi”.

Viviamo in tempi molto veloci, sembra che non si possa sbagliare niente, anche musicalmente. Tutto deve funzionare, subito.

Questa canzone voleva dire: prendiamoci la possibilità di fare una cosa che ci piace, vediamo se funziona e se possiamo raccogliere i frutti del nostro lavoro. E se non va, così come l’avevamo pensata, ripensiamola. Questo mondo in cui devi fare la cosa che deve funzionare su tutti i livelli non ci appartiene e l’abbiamo messa in una canzone.

Prendiamoci la possibilità di fare degli errori, di fare le cose che ci piacciono, e vediamo il riscontro delle cose.

Lo ha detto anche Saviano “Insegnate ai vostri figli a sbagliare”. Anche cantautori come De Gregori, da un punto di vista discografico, sbagliavano i primi dischi, ma era un percorso. Ci vuole del tempo.

Ormai siete in tour da parecchio. Com’è stato girare l’Italia, portando in giro le vostre canzoni, e incontrare le persone che amano la vostra musica?

Noi vorremmo suonare molto di più. Crediamo fortemente in quello che succede nel concerto, gli spunti e le letture più interessanti che abbiamo ricevuto sui testi li abbiamo avuti proprio nei live.

Nelle recensioni le persone cercano di interpretarti in un modo un po’ freddo, ai concerti invece trovi gente che si lascia trasportare dell’emotività, che sceglie di essere li. Ci sono delle interpretazioni a cui nemmeno noi avevamo pensato, le cose cose più intelligenti, che ci hanno più colpito le abbiamo ricevute li.

Fosse per noi staremo sempre a fare dei concerti, anche se è devastante fisicamente. E’ li che succede tutto. Bisognerebbe tornare ad uscire di casa, ad andare ai live. Rivendicare anche il diritto di andare a un concerto che non ha funzionato e magari di poterlo dire all’artista.

Noi crediamo molto in questa relazione che si accende. Girare è bello, ed è bello anche quando non c’è nessuno, perché impari sempre.

Viviamo in un momento in cui non c’è umiltà, tutti devono diventare, tutti ti devono ascoltare. Invece stare per strada, stare su un furgone per tante ore, insieme, è molto formativo; si parla di tante cose, si discute. Il contatto con le persone è importantissimo.

A Baronissi, in provincia di Salerno, c’erano persone che hanno fatto 80 chilometri per dirci “Abbiamo ascoltato il vostro disco, non recapitavate più e siamo venuti a sentirvi qui” sono cose che mettono i brividi.

L’ultima domanda è per Francesco. Visto che sei laureato in matematica e le vostre canzoni sono cariche di suoni molto diversi tra loro, quando componi attingi dalla logica della matematica? Visto che si dice che musica e matematica parlino la stessa lingua…

Io questa cosa non la vedo molto. I suoni molto diversi sono dovuti alla costruzione collettiva delle canzoni.

A volte nella scrittura dei brani ho usato delle citazioni che vengono dal mondo della matematica, mi piace questa metafora.

E’ una cosa che si usa nel mondo della musica, per esempio mi viene in mente il brano di Fabi, Silvestri e Gazzè che dice “ma esistiamo io e te, la nostra ribellione alla statistica”. Da matematico questa frase mi piaceva tantissimo.

E’ vero che molti matematici sono anche scrittori, e la logica mi aiuta nella scrittura della canzoni, ma finisce li.

Tutto l’arrangiamento e la diversità sono dovuti al fatto che in ogni canzone cerchiamo di trovare un punto di incontro e di equilibrio tra le nostre cinque teste pensanti. Il fatto che ci annoiamo molto rapidamente poi aiuta anche a dare sonorità sempre diverse.

Laura Losi

Hot Chip @ Heartland Festival

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The Smashing Pumpkins @ Heartland Festival

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Interpol @ Heartland Festival

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Kamasi Washington @ Heartland Festival

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Richard Ashcroft @ Heartland Festival

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Vivienne Westwood @ Heartland Festival

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Fast Animals And Slow Kids @ Strike_Up_Festival

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• Fast Animals And Slow Kids •

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Strike Up Festival #5

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Castello Della Rancia (Tolentino) // 01 Giugno 2019

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Esistono due categorie di persone.

Quelle che credono nel colpo di fulmine e quelle che non ci credono. Posso affermare di far parte della prima, senza ombra di dubbio. Perché esistono, anche, varie tipologie di colpi di fulmine, tra cui quello “musicale”. Circa due anni fa, in occasione del Rimini Park Rock, vidi quattro ragazzi suonare in apertura ai Biffy Clyro.

Suonavano forte, di cuore, di pancia. Suonavano con gli occhi dello stupore di chi calca finalmente quei palchi. Suonavano con la pazzia di chi tenta sempre il tutto per tutto… anche arrampicarsi su un’americana per scorgere meglio il pubblico, da lassù.

E poi sono arrivate le presentazioni: Aimone Romizi, Alessandro Guercini, Jacopo Gigliotti, Alessio Mingoli. “Salve, noi siamo i Fast Animals and Slow Kids e veniamo da Perugia”. Una formula magica, uno stringersi la mano per non lasciarsela più.

È stato amore a prima vista.

La scoperta e la riscoperta di una parte di me in ogni canzone, in ogni verso, ad ogni concerto. Empatia pura. Sono volata a Berlino lo scorso dicembre, solo per ascoltarli dopo il periodo di pausa dedicato alla scrittura del quarto album, Animali Notturni, pubblicato il 10 maggio.

Un nuovo disco. Consapevolezza, personalità, professione di libertà e coesione rafforzate nel tempo e confermate traccia dopo traccia. Un nuovo tour inaugurato ufficialmente dalla data allo Strike Up Festival di Tolentino.

Quel primo giugno cerchiato in rosso sul calendario ormai da mesi e una location da togliere il fiato: il Castello della Rancia, illuminato e imponente sullo sfondo.

Un anfiteatro gremito di persone che, dopo aver applaudito i Bruxa e i Caracalma, si è acceso in un’ovazione sull’intro di Radio Radio intonato da quelle che sono ancora ombre avvolte nel fumo.

I musicisti sono al loro posto, la formazione è schierata. Manca solo Aimone.

Arriva anche lui, nella sua autentica semplicità.

Capelli al vento, microfono in aria. Si inizia.

È Radio Radio ad aprire la setlist. L’inno coraggioso e cantato all’unisono,che celebra la volontà di continuare a dire ciò che si pensa e metterlo in musica. Una fusione perfetta e complementare tra vecchi e nuovi brani: se Coperta, con i suoi ricordi illusori confusi nella nebbia è l’antenata ideale di Non potrei mai, Dritto al cuore è il pezzo che segna il primo apice emozionale della serata.

Questo è un brano a cui teniamo davvero tanto” – confessa il frontman – “Non vedevamo l’ora di suonarla live. La dedichiamo a tutti quelli che sanno di aver sbagliato, una volta. Perché una volta si può sbagliare”.

“Non vedo l’ora di ascoltarla live” ho pensato la primissima volta che ho fatto girare il cd in macchina, appena comprato, appena scartato. Il “locale” è esploso sul serio. 

Un groviglio di corpi, nomi, voci sempre più attaccati e tesi verso Aimone, già a strettissimo contatto con le transenne. Tra ombre di Demoni e la fotografia nitidissima di Annabelle, il palco si popola di quelle figure misteriose che sono gli Animali Notturni: Questa è per tutti quegli amici che abbiamo perso lungo la strada”.

Una canzone che sembra composta appositamente per la dimensione, per narrare quelle storie di vita vissuta, di chilometri, di incontri, di domande, tra le righe delle corde di chitarra. Un invito ad avvicinarsi al palco, a fare un passo in avanti, per eliminare qualsiasi barriera, qualsiasi distanza tra artista e pubblico, perché, in fondo quegli animali notturni sono uomini.

Sono loro, siamo noi.

Abbiamo voluto chiudere l’ultimo disco con una nota di speranza. Questa è Novecento”. Ecco il secondo picco d’emozioni: una ballata incorniciata da un titolo d’amore. Il nome del secolo dei grandi cambiamenti, delle cadute e delle rinascite, dell’orizzonte comunque aperto. Un brindisi al futuro, con i bicchieri, i sorrisi, le lacrime, gli occhi rivolti al cielo.

Poteva mancare lo stage diving di Romizi? Lui che, da anni, cavalca l’onda umana che si innalza ad ogni tempesta di suono generata dai Fast Animals And Slow Kids? No, non poteva mancare.

E per l’occasione si tuffa e arriva in un attimo su un piccolo palco preparato vicino al mixer, con bacchette e timpani.

“Ragà, con quel bastardo (Alessio) abbiamo indetto una sfida super tamarra. Daje”. Un intermezzo strumentale di sole percussioni che crea il ritmo e le vibrazioni in modo perfetto per introdurre Forse non è la felicità, urlata a squarciagola.

Si spengono le luci, ma solo per un attimo. Il tempo per L’urlo e il finale è tutto per una canzone che rappresenta una parte integrante del cuore e dell’anima di questo gruppo e dei loro fan.

“Questa risale al 2012, quando eravamo quattro stronzi e non ci cacava nessuno. La musica era un obiettivo lontano ma da quel momento abbiamo iniziato a suonare ovunque. Per dieci anni. E dopo dieci anni la musica è la nostra vita. Quindi grazie amici”.

Aimone chiede un ultimo grande applauso per quella formula magica. “Buonasera, noi siamo i Fast Animals And Slow Kids e veniamo da Perugia”.

Un boato che si esaurisce soltanto alla fine di A cosa ci serve. Quel brano lontano, ora, nel tempo. Quella domanda, sempre attuale. quella risposta che ci diamo dopo ogni concerto: serve a sentirsi vivi. A credere ancora in qualcosa. A sorridere, pur avendo perso completamente la voce.

Serve a sentirsi meno soli.

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Testo: Laura Faccenda

Foto: Luca Ortolani

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SETLIST:

 

scaletta fask

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Grazie a Ma9Promotion e Strike Up Festival

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The Minds of 99 @ Heartland Festival

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