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Mese: Ottobre 2019

Norma Jean “All Hail” (Solid State Records, 2019)

(Sempre sia lodato il metalcore!)

 

Le cose non sono mai come le vedi. La filosofia (o follia?) dietro ai Norma Jean è intrigante. 

No, non si parla della famosa Norma Jean (in arte Marylin Monroe) ma di una band cresciuta nei sobborghi di Atlanta. Iniziano a farsi notare nel 1997, all’attivo contano sei album, e hanno sempre posseduto un’anima profonda con la quale filtrano la loro visione del mondo, rendendocela attraverso la musica e i testi per condurci in un universo fatto di riflessi, di complotti e di pseudo-utopia.

All Hail, rappresenta un’idea, un pensiero derivato dalla loro crescita, uno strumento per comunicare un messaggio attraverso il metalcore.

Cosa c’è dietro allo specchio? È solo un riflesso oppure ha vita propria? E se esistesse una vita all’intero, parallela alla nostra? Oppure siamo noi il riflesso, e la realtà è dall’altra parte?

Questa la filosofia alla base dei nuovi brani, che dona un’aurea di inquietudine e dannazione al disco.

Ci scaraventano in un bel trip, impattando con l’intro di Orphan Twin, primo brano dell’album, battaglia di batteria e chitarra elettrica, accompagnata da una voce calda, confortante. Il ritmo degli strumenti si scatena, ed il tono del brano cambia, l’eterna lotta tra bene e male, tra il canto delicato e uno scream graffiante. Il riflesso, e il mondo dell’altra parte.

Dipingono un mondo decadente, che sta per collassare, una terra maledetta, dove gli eroi sono dei bugiardi, e la loro presenza non serve per salvarci, ma per sottolineare quanto gli esseri umani siano perdenti, malvagi, nel brano Landslide Defeater.

Questo clima di insoddisfazione e crisi si ripercuote anche in [Mind Over Mind] in cui la morte è una rinascita, dove lottare per un futuro migliore è un’utopia. Tutto è circolare, ci porta all’abbattimento morale, e questa è un’arma pacifica per stroncare la nostra anima.

I testi presenti in questo ultimo album sono molto complessi, quasi dei saggi sull’interpretazione del mondo da parte del gruppo, dove esplicano la loro personale visione di situazioni specchio (Cosa c’è dentro? Che cosa è fuori?), riflessi dannati che tramite la morte risorgono alla vita, ad una nuova possibilità di essere. Esempio di questo è Safety Last, in cui sogni e incubi sono reali, e distruggere tutti i rapporti velenosi è l’unica soluzione per allontanarsi, per non incontrarli di nuovo.

Attraverso uno stile metalcore melodico ci trasportano attraverso lo specchio con /with_Errors, dove incontriamo la nostra nemesi, cioè noi stessi, e ci invitano a far pace con il nostro avversario, dimostrando che il peggior nemico siamo proprio noi stessi. 

L’apice di questa interpretazione distopica è per l’appunto raggiunto in Trace Levels of Dystopia, manifesto della band, la quale crede fermamente di un futuro con risvolti negativi sia sul piano sociale che politico. L’umanità sta andando verso una catastrofe, tutto si sta distruggendo, e lo comunicano con un brano estrememante metalcore, colmo di scream, chitarre elettriche, batterie  pesantemente pistate.

Nel disco troviamo anche una canzone dedicata alla scomparsa, il giorno dell’inizio della registrazione dell’album, di una loro fan poi diventata loro amica, Anna: un brano turbolento e malinconico, tributo alla memoria di una ragazza simbolo delle centinaia che popolano i concerti del gruppo.

L’intenzione della band è gettarci nella loro concezione di realtà, di confondere le nostre sicurezze, fino ad instillare nelle nostre menti un dubbio, usando il metalcore per rendere tutto estremamente spiazzante e reale. 

 

Norma Jean

All Hail

Solid State Records, 2019

 

Marta Annesi

La Scala Shepard “Bersagli” (Cubo Rosso Recording, 2019)

Canzoni d’autore distorte

 

Parole in sottofondo e poi uno scoppio improvviso di energia, tra chitarra e batteria: esordisce così Bersagli, il primo LP della band alt-rock romana La Scala Shepard, registrato presso gli studi della Cubo Rosso Recording.

L’album è stato anticipato da due singoli, Potesse Esplodere Questa Città e Camera con Vista, molto diversi nella forma – il primo caratterizzato da un ritmo quasi ossessivo mentre il secondo ricorda più una ballad – ma non nella sostanza. Sono infatti la paura e una solitudine declinata in varie forme a dominare, ma non solo in questi due brani: esse ci prendono infatti per mano e ci accompagnano lungo tutte le dieci tracce del disco.

C’è la solitudine di Paranoia, quella che usiamo come scudo quando tenere le distanze dagli altri ci sembra più sicuro che apparire vulnerabili, ma c’è anche quella di Groove 2 o Via Dupré, dove l’assenza della persona fa stare male, ma nonostante tutto non si riesce – o forse non si vuole – dimenticare, perché questi ricordi sono tanto dolorosi da tenere quanto da lasciare andare.  

Ma non solo di solitudine si nutre il disco: emergono anche un forte sentimento di smarrimento, di immobilità nei confronti di una vita che non si riesce ad affrontare. In Giro di Giostra si affaccia, inoltre, l’idea del crollo e tuttavia dover resistere, ma questa resistenza non viene esattamente apprezzata. Anzi, viene definita una sconfitta, come se lasciarsi andare, provare anche odio o comportarsi da stronzi ogni tanto sia proprio ciò che ci rende umani.

Quelli di Bersagli sono dunque testi che scavano nel profondo di ognuno di noi, ma a cui spesso e volentieri si accompagna un sound elettronico, distorto e sintetizzato a regola d’arte, anche se non mancano melodie più classiche come quella intonata alla fine di Dall’Altra Parte. Probabilmente è proprio questo mix particolare ed equilibrato di cantautorato e distorsioni, il tutto accompagnato da influenze direttamente dall’alt-rock inglese, a far distinguere La Scala Shepard sulla scena indipendente italiana.

La chiusura dell’album è affidata alla traccia che fa anche da titolo, Bersagli. 

Ma cosa sono, alla fine, questi bersagli?

Siamo noi quando decidiamo di non mostrare i nostri veri sentimenti, quando piuttosto che mostrarci vulnerabili creiamo una corazza di orgoglio che ci sembra inscalfibile ma in realtà fa solo danni. 

In dei conti, “sbattere il cuore in faccia” a chi ci ferisce può soltanto che aiutarci a guarire.

 

La Scala Shepard

Bersagli

Cubo Rosso Recording, 2019

 

Francesca Di Salvatore

The Softone “Golden Youth” (Self Released, 2019)

Dalle pendici del Vesuvio arriva un album carico di emozioni, di sonorità delicate accompagnate da una voce particolare e rilassante.

Giovanni Vicinanza in arte The Softone torna sulla scena musicale dopo cinque anni di pausa ed emozioni (positive e negative) da condividere. Autoprodotto, questo album è stato ispirato dai paesaggi vesuviani, ma mixato e chiuso a Milwaukee, negli USA.

Un cantautore vecchio stampo, che ci regala un album colmo di sensazioni reali, uno spaccato di vita vera.

Un full length di 12 pezzi che si apre con un’Intro (tema armonico del quinto pezzo I Wish), e chiude con un’Outro, in cui affronta varie tematiche con uno stile pop folk, acustico, e con l’ausilio di vari strumenti (violino, pianoforte, chitarra acustica) che conferiscono un’atmosfera intima, privata.

Il secondo pezzo è Alone and Weird, in pieno stile pop, il quale possiede un ritmo e una positività derivante dalle lacrime degli angeli caduti, che ripuliscono l’anima dell’artista per purificarlo e permettergli di  intraprendere questo viaggio (dell’album), infondendo la forza e l’incoraggiamento per comunicare all’ascoltatore le sue più profonde emozioni.

Vicinanza ci spiega subito che questa forza da cui attinge proviene da un lutto recente, la morte della madre, alla quale dedica una preghiera straziante e al contempo dolcissima, Sweet Mom, resa ancor più malinconica dall’assolo di sax.

In contrapposizione alla perdita e al dolore, ci propone però anche la gioia di un dono sceso dal cielo per alleggerire questa perdita inestimabile, Little Star, in cui ci trasmette la felicità della paternità usando uno stile blues.

La nostalgia per il passato, per una giovinezza perduta, la brutalità del diventare adulti, è espressa intensamente in Golden Youth, pezzo che da nome all’album. Il concetto della malinconia per l’adolescenza, i bei ricordi e la leggerezza di questa età è presente anche in The Place. L’era della spensieratezza lascia una scia di tristezza però quando ci rendiamo conto delle scelte che abbiamo fatto, delle situazioni che ci siamo lasciati sfuggire e di quel tempo che non tornerà più.

L’età adulta arriva senza quasi che ce ne accorgiamo, portando con sé perplessità sulle decisioni che abbiamo preso, sulla strada che abbiamo imboccato: spesso ci domandiamo se potevamo fare di più, essere di più, e l’artista, in Still Believe, mette in evidenza questi dubbi esistenziali, cercando rassicurazioni. Sulla stessa tematica di insicurezze esistenziali è Lost Memories, un monito che il cantante fa se stesso, per tutte quelle volte che ha preferito la vita effimera, allontanandosi dalle cose concrete.

Psycho Visions, sul finire dell’album, è un pezzo a metà strada tra i Pink Floyd e Brian Eno, un viaggio mentale per sfuggire dalla realtà, una visione extracorporea dell’anima intenta a vagare nello spazio-tempo.

In questo suo album, Giovanni Vicinanza crea un universo di emozioni composto da pianeti di sofferenza, via lattee di malinconia e soli di felicità. Il tutto immerso in un’atmosfera pop-folk-rock dove lascia intravedere la sua anima umana, colma di dolore e sazia di gioia.

 

The Softone

Golden Youth

Self Released, 2019

 

Marta Annesi

The Amazons @ Covo Club

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• The Amazons •

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Covo Club (Bologna) // 25 Ottobre 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Un Covo Club SOLD OUT ha ospitato il quartetto di Berkshire.

I The Amazons, definiti migliore nuova rock band inglese, hanno infuocato il pubblico del club bolognese.

Matt Thomson e compagni hanno suonato quasi tutto il nuovo album Future Dust, in una scaletta che non ha lasciato un attimo di respiro al pubblico del Covo Club.

Junk Food Forever e la bellissima Black Magic hanno chiuso in bellezza una di quelle serate che dimenticheremo difficilmente.

Esplosivi.

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Foto: Luca Ortolani

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SETLIST:

 

the amazons covo club

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Grazie a: Comcerto

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Aspettando Indie Pride 2019: Sem&Stènn

Sem&Stènn, insieme nella vita e nella passione che li unisce, si conoscono nel 2007 in un blog di musica ma si incontrano solamente dopo quattro anni, nel 2011. Da lì suonano come dj in diversi club milanesi fino al 2015, quando decidono di dedicarsi ai loro inediti. Nel 2016 pubblicano Wearing Jewels&Socks, progetto interamente indipendente. L’anno seguente partecipano a X-Factor 11 e vengono selezionati tra i dodici finalisti in gara. Dopo questa esperienza pubblicano The Fair, inedito presentato alle audizioni del programma e registrano Baby Run con la partecipazione di Manuel Agnelli. Nel 2018 esce Offbeat, album di 10 tracce, seguito da un tour nelle principali città italiane. Quest’anno pubblicano due nuovi singoli: K.O. (feat. YaMatt) e OK VABBÉ, entrambi in lingua italiana. 

Il 26 ottobre 2019 Sem&Stènn presenteranno al TPO di Bologna l’ottava edizione dell’Indie Pride Festival, evento attraverso cui i protagonisti del mondo musicale lottano contro bullismo, sessismo e omotransfobia. 

Come si aderisce a Indie Pride e voi quando lo avete fatto?

Sem: Abbiamo firmato l’adesione a Indie Pride un anno e mezzo fa ad un festival. La cosa carina è che noi, come gli altri artisti, abbiamo aderito firmando la carta d’intenti con un bacio (bacio che si “stampa” sul modulo cartaceo). Abbiamo quindi dovuto mettere un rossetto ed eravamo contentissimi perché potevamo scegliere il colore. Ovviamente io e Stefano abbiamo fatto a gara per fare l’impronta più grossa.

Vi aspettavate di essere chiamati per presentare quest’evento?

Sem: No, però ci aspettavamo di essere chiamati prima o poi. Non sono tanti i pionieri in Italia del mondo queer e lgbt. Questo era un evento che avevamo già “puntato” ma non avevamo pensato di presentarlo. Quando ci hanno chiamato siamo stati felicissimi.

Stènn: In realtà eravamo vicino al telefono ad attendere lo squillo (ride). Il debutto all’Indie Pride sarà un debutto in grande stile soprattutto perché lo presenteremo.

Avete avuto personalmente esperienza di bullismo e/o omofobia? Quale comportamento avete adottato?

Sem: Guarda, si può dire che lo viviamo quasi tutti i giorni. La discografia è molto maschilista e omofoba, c’è tanto pregiudizio. In generale lo show business omosessuale è visto ancora come una cosa che viene presa raramente sul serio e che viene collegata a degli immaginari non di spessore. L’esperienza mediatica che abbiamo avuto ci ha dato visibilità ma ci ha esposto anche a molte critiche, però abbiamo reagito in grande perché se stai lì a leggere tutto quello che la gente scrive e a dare tanto peso ad ogni cosa, ti fermi. Invece noi abbiamo la pellaccia dura.

Stènn: Indie pride è importante anche per questo. Fondere la musica con le lotte e i valori della società lgbt ci dà molta forza e non ci fa sentire soli.

È uscito il vostro nuovo singolo Ok Vabbè. Nel video c’è una grande rappresentanza del mondo dei “meno giovani”. Com’è stato girare un videoclip insieme alle vecchie generazioni, emblema dell’intransigenza verso tutto ciò che si discosta dal loro ordinario?

Sem: Nel video in realtà ci sono un po’ tutte le generazioni: sia i vecchi raccattati in piazza sia i bambini ma anche una donna incinta. Tutto questo racconta la realtà del paese in cui io sono cresciuto (Rosolini) e vuole un po’ rappresentare questo: il diverso approccio delle diverse generazioni a questa realtà ma anche come ci siamo sentiti integrati in un contesto del genere, rompendo il pregiudizio.

Stènn: Con grande sorpresa la partecipazione è stata molto sentita e molte delle comparse sono state spontanee. Siamo contenti di aver realizzato questo video come un esperimento sociale. È andato a buon fine. C’è speranza.

 

Cecilia GuerraFrancesca Di Salvatore

L’impulso dei Diraq

I Diraq nascono nel 2009 e da quell’anno non hanno mai smesso di fare rock. 

“Il nome è un homage alla figura singolare di Paul Dirac, al romanticismo di alcune sue teorie, al suo essere misterioso e notturno. All’epoca eravamo ragazzacci di periferia che usavano abitare umidi scantinati, avevamo vent’anni o poco più e spesso suonavamo la domenica pomeriggio in un’angusta sala prove in località Palazzo Mancinelli (Gualdo Tadino – Perugia), fra una jam e l’altra ci capitava di andare a far visita a un anziano che aveva la cantina lì vicino, ci offriva sempre il suo vino artigianale nell’unico bicchiere che aveva per gli ospiti, dal quale bevevamo a turno quella bevanda agricola, era tipo un patto di sangue.”

Il 23 ottobre esce il vostro nuovo LP Outset per Jap Records. Da quanto tempo è in lavorazione?

Abbiamo iniziato a scrivere l’album il 10 Dicembre 2017, quel giorno eravamo a Modigliana, a casa di Antonio, quello che sarebbe stato poi il nostro produttore artistico. È stato un incontro gradevole, che ci ha motivato e messo di buon umore. Durante il viaggio notturno per tornare in Umbria eravamo tutti svegli, ma nessuno parlava, stavamo già iniziando a scrivere Outset.

Potete descriverci ogni singolo pezzo di Outset con un aggettivo? 

  • With me – fangosa
  • Make up – godereccia
  • Sunday bending – distesa
  • Shelter – sexy
  • Turning days – speranzosa
  • Naked – arrogante
  • Show your blood – scarna
  • Desert – evocativa
  • Mauer Mauler – minacciosa
  • Pray – sciamanica
  • Inglorious – bollente

Come nascono i vostri pezzi? C’è un particolare processo creativo che vi accompagna? 

Siamo a tutti gli effetti un gruppo rock, ma le canzoni nascono da un’urgenza estetica abbastanza assodata, la volontà di evitare i cliché di genere, favorendo l’apertura verso mondi sonori apparentemente lontani dal nostro, linguaggi che usiamo con la giusta dose di inconsapevolezza, ma che si spera diano un’impressione diversa al suonare musica rock, una freschezza nuova alle canzoni.

C’è un motivo preciso per il quale avete scelto la lingua inglese per esprimervi?

La nostra ambizione musicale è quella di creare musica che possa interfacciarsi con dignità a livello internazionale: c’è da dire che certi linguaggi che inizialmente erano nati in delle geografie particolari sono diventati di uso comune più o meno ovunque, si pensi al blues o al rap, musiche importate e inglobate dentro altre tradizioni. Cerchiamo di avere questo tipo di attitudine e confidiamo sul fatto che oggi, essere una band italiana che canta in inglese, non sia un freno ma una suggestione.

Qual è stato il brano più complesso da creare? 

Turning Days, senza ombra di dubbio: è un pezzo che va sensibilmente fuori da quello che è il nostro seminato, volevamo avventurarci in territori più leggeri e melodici, ma il risultato non ci piaceva e si era addirittura deciso di scartare il pezzo per lavorare su altre cose. Una sera eravamo con JM e abbiamo avuto la fantasia di suonare Turning Days con lui, è stata una nuova epifania, la canzone com’era da principio è diventata qualcos’altro, ma era quello che cercavamo.

Qual è la canzone alla quale siete più affezionati?

Questa è una domanda molto soggettiva e ognuno di noi risponderebbe in maniera differente, ma insieme ci sentiamo di premiare Turning Days, sia per quanto detto sopra, ma anche perché questo pezzo ci ha riavvicinato ai ragazzi di Jap Records, con i quali c’è stima e amicizia da sempre, ma non c’è stata mai vera collaborazione come in questo momento. Tutto è questo è una fortuna, perché stiamo lavorando con persone che hanno abbastanza chiaro il nostro percorso ed hanno a cuore la nostra musica.

 

Diraq 1 High

 

Il vostro album è stato registrato in presa diretta. Cosa ha voluto e vuol dire per voi utilizzare questo metodo di registrazione?

L’Amor mio non muore è uno studio dove ci siamo trovati alla grande, registrare su nastro in presa diretta è nel nostro DNA, ci piace stare nella stessa stanza e suonare insieme, registrare all’unisono. Lo abbiamo fatto anche in altre occasioni, non siamo di quelli che riprendono uno strumento alla volta, e nel 2019 crediamo ancora che questa sia la modalità migliore perché si crei la magia.

Com’è stato lavorare con Antonio Gramentieri? 

Fondamentale. Lavorare a certi livelli, con professionisti così bravi ti fa crescere, e con lui ci sono stati molti momenti di condivisione, ascolto e rispetto dei ruoli, cose che poi portano ogni canzone ad avere un proprio carattere, oltre ad aver dato a noi una visione più a fuoco di quello che siamo. 

Affidare la propria musica a una persona esterna comporta abbassare le proprie difese e mettersi in ascolto, bisogna essere predisposti, e trovare il produttore giusto. Antonio per noi lo è stato.

Cosa significa per voi questo album?

Dietro al gesto di pubblicare un lavoro discografico di questo tipo ci sono diversi significati: avere la possibilità di scrivere la propria musica con persone a cui vuoi bene, registrarla insieme, impegnarsi davvero su qualcosa, investire del denaro, spingere anche quando tutto intorno sembra volerti chiedere con preoccupazione se ti conviene farlo. Outset è considerare ogni giorno come un nuovo inizio, con nuove possibilità, nuove fortune o nuove sfighe che siano.

Ci raccontate un aneddoto legato a Outset?

Antonio, nel tempo ha ospitato a casa sua grandi personaggi della musica, tra i quali di certo spicca per fama Sir John Paul Jones, proprio lui, il bassista dei Led Zeppelin e di altre cose mitiche. Avendo anche noi soggiornato a casa sua per qualche giorno ci approcciavamo ad ogni oggetto come fosse un feticcio sacro, potenzialmente usato o anche solo sfiorato dal grande artista, qualsiasi cosa, il divano, i soprammobili, i libri, il water… ma lo facevamo così, per giocare, in realtà atteggiamenti di eccessivo divismo non ci appartengono.

È presto per parlare di progetti futuri?

Assolutamente, i progetti futuri per questo disco sono di portarlo live in maniera consistente per diverso tempo. Stare su un palco è la sublimazione finale, l’omega di tutto questo lavoro, ci piace suonare difronte a un pubblico che a malapena sa chi sei, ma che ascolta e assiste al rito del “qui e ora”. Speriamo di avere ancora la possibilità di fare belle cose.

 

Cecilia Guerra

Aspettando Indie Pride 2019: UNA

C’è chi la chiama Marzia e chi la chiama UNA, ma la sostanza non cambia: una delle musiciste più attive contro razzismo e violenza di genere, nonché parte integrante della comunità Queer. La sua partecipazione ad Indie Pride, quindi, appare del tutto naturale. 

Abbiamo fatto due chiacchiere con lei al telefono in attesa della sua esibizione sul palco del TPO il 26 ottobre insieme a Honeybird e Diana Paiva Cruz, un trio femminista creato proprio per l’occasione. 

Secondo te, perché è importante aderire all’Indie Pride?

È sicuramente un modo per prendere posizione e dare più visibilità a chi di solito rimane ai margini. Mi esibirò con Monique (Honeybird) e Cruz e ognuna di noi è attiva nella lotta per i diritti LGBTQ+, ma diciamo che la nostra partecipazione si concentra più sulla questione della parità di genere. Anche nel mondo della musica i dati parlano chiaro: la maggior parte dei progetti e delle band presentati nei festival sono maschili. Noi vorremmo mostrare che esiste una forte compagine femminile nel mondo della musica e dell’arte in generale, anche se spesso bisogna scavare per trovarla.

Essere consapevoli di ciò che accade intorno a noi è fondamentale per lo sviluppo di una coscienza critica e morale. Credi che la musica possa aiutare ad informare le persone, a sensibilizzarle e a combattere sessismo, bullismo e omotransfobia?

Assolutamente sì, ma non è importante solo il contenuto delle canzoni. Ormai siamo più presenti sui social che sui palchi e la comunicazione passa per un buon 70% attraverso quei canali. La rappresentazione che diamo di noi stessi dal palco, nelle interviste o in un semplice post ha un valore politico molto forte ed è anche attraverso questi mezzi che si possono far passare quotidianamente valori come la tolleranza, l’inclusione e l’abbattimento di ogni forma di marginalizzazione sociale. La musica può avere un forte impatto sociale, ma questo ovviamente implica un’enorme responsabilità che ogni musicista deve sapersi assumere.

Quest’anno è uscito il video ufficiale di Marie, un pezzo contenuto nel tuo ultimo album AcidaBasicaErotica, che parla di femminicidio attraverso la vicenda dell’attrice Marie Trintignant. Alla luce del suo contenuto, può una canzone essere più potente e diretta rispetto ad altri mezzi di informazione?

Le canzoni hanno il potere di essere trasversali, di poter colpire ed emozionare chiunque a prescindere dalla loro cultura musicale. Possiedono un linguaggio universale che ha anche il pregio di poter essere tramandato di generazione in generazione. Inoltre, scrivere e cantare di una problematica sociale così importante ha permesso anche a me di crescere. Parlando della canzone nello specifico, si è trattato di un progetto molto difficile, dove ho dovuto approfondire le mie conoscenze sul tema e confrontare la mia visione con quella di altre persone che la pensavano in modo più o meno diverso: oltre all’impatto sul pubblico, quindi, c’è stato anche quello su me stessa.

 

Cecilia GuerraFrancesca Di Salvatore

Allusinlove: fate sentire la vostra voce, senza paura

Cambiare è sempre una scelta coraggiosa. Dopo l’esperienza come Allusondrugs e centinaia di concerti, la giovane rock band di Leeds ha deciso di spiccare il volo con nuove ali, un nuovo – vero e proprio – LP It’s okay to talk e un nuovo nome: Allusinlove. Ci hanno raccontato le tappe del loro percorso musicale, tra tematiche profondamente attuali, i punti di riferimento da cui traggono ispirazione e il ricordo dei live italiani.

 

Vi sentite una nuova band ora che avete cambiato nome? Sono mutate alcune dinamiche all’interno del gruppo?

A dire la verità, cambiare nome è la conseguenza di un lungo processo. Volevamo farlo da un paio di anni ma non trovavamo mail il momento giusto. Avevamo usato l’espressione Allusinlove molte volte sia per firmarci sui social media sia per descrivere la comunità di persone attorno alla band. Abbiamo avuto finalmente l’occasione perfetta per rinascere come farfalle musicali quali siamo, con tanto nuovo materiale, sotto un nuovo nome e un messaggio più positivo. Siamo sempre la stessa band ma maturata. Mi chiedo cosa ci sia dopo lo stadio da farfalla…

 

It’s okay to talk è il vostro primo album vero e proprio. Raccontateci qualcosa su come è nato, come sono state scritte e registrate le canzoni…

Siamo incredibilmente entusiasti di aver creato qualcosa che delinea quanto accaduto in questi sette anni come band. Non abbiamo voluto pubblicare un vero e proprio album fino a quando non ci siamo sentiti pronti. Ora sentiamo che le canzoni sono pronte. Quindi, questa è l’occasione perfetta per dare una reale dimostrazione alle persone di quello che siamo in grado di fare e a chi era già nostro fan quanto siamo cresciuti e maturati negli anni. I brani sono stati scritti in tutte le modalità possibili e immaginabili, da una linea di chitarra proveniente dal retro di un van freddo e bagnato al sedersi con un sacco di frammenti di melodie e metterle insieme come un puzzle. Non c’è un modo giusto o sbagliato di fare musica e l’ispirazione può arrivare da ogni direzione…quindi credo sia più una questione di catturare questi momenti. Per quanto riguarda la registrazione, siamo stati fortunati di poter confrontarci con persone con cui sognavamo di lavorare un giorno. Essere nella stessa sala di Catherine Marks, Alan Moulder e il loro team di fantastici ingegneri che hanno contribuito a parte fondamentale del nostro album, talvolta letteralmente suonando o programmando sequenze è stato un esperimento meraviglioso. Noi siamo sempre rimasti il nucleo della registrazione, avendo inciso live la struttura delle canzoni, ma sulle rifiniture abbiamo contribuito tutti. Una modalità di lavoro davvero illuminante e, naturalmente, l’apprezzamento del team verso ogni canzone è stato motore di incoraggiamento e soddisfazione.

 

IMGL6384

 

Perchè avete scelto il titolo It’s okay to talk? Che messaggio vuole veicolare?

Noi, come società, abbiamo solamente iniziato a capire quanto sia importante la nostra salute mentale. Questo argomento è ancora circondato da tabù ed è davvero ingiusto che le persone interessate sentano di essere trattate diversamente qualora decidessero di parlarne con amici e familiari. Vogliamo diffondere il messaggio che ci si può sentire a proprio agio e condividere un certo tipo di sensazioni e preoccupazioni. Questo non solo può aiutare ma può fare la differenza tra la vita e la morte per molti. Se possiamo sottolineare l’importanza di tutto questo e dare in nostro contributo, è solamente positivo.

 

The deepest è la traccia che chiude l’album. Quando l’ho ascoltata, mi ha colpito molto. Pensate che la musica possa aiutare a superare i momenti più bui?

Assolutamente. Talvolta una canzone può essere qualcosa in cui identificarsi. Ascoltare qualcun altro che si esprime attraverso emozioni simili a quelle che stai provando tu può essere di grande conforto. È una sorta di terapia per molte persone, sia per chi scrive che per chi ascolta.

 

Le vostre canzoni sono un misto di sound differenti, dalle chitarre distorte a elementi shoegaze. Quali artisti o band vi hanno influenzato maggiormente?

Abbiamo un ampissimo raggio di influenze essendo la band composta da quattro persone. C’è sempre un po’ del gusto di ognuno di noi in quello che creiamo. Abbiamo qualche gruppo a cui ci ispiriamo tutti: Deftones, Mew, Yourcodenameis:milo solo per citare i primi che mi vengono in mente. Poi ci piacciono dai Tycho agli Enter Shikari, dai Simply Red a Django Reinhardt ai Pearl Jam…e tutto quello che c’è in mezzo.

 

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Come è stata la vostra prima esperienza in tour in Italia ed essere il gruppo di apertura per una band come gli Skunk Anansie? Che ne pensate del pubblico italiano e quali erano le vostre aspettative? Sono state confermate?

È stata un’esperienza unica. Non così spesso si ha la possibilità di avere di fronte una folla così, in una nazione in cui non hai mai suonato prima e dare tutto te stesso, e tornare a casa con un bagaglio di emozioni del genere è incredibile. Abbiamo avuto la fortuna di visitare molti luoghi incredibili in Italia e conoscere persone fantastiche. Non potevamo chiedere di condividere questa esperienza con una band o una crew migliore. Ci hanno fatto sentire i benvenuti, ci hanno supportato, fatto ridere e ci hanno fatto sentire sempre parte della famiglia. Non sapevamo che cosa aspettarci dal pubblico italiano ma è stato semplicemente fantastico: tutti ballavano, cantavano, sembravano divertirsi insomma. Li ringraziamo profondamente per averci dimostrato tutto questo amore.

 

Una curiosità… se aveste la possibilità di tornare indietro nel tempo, in quale periodo storico vorreste vivere, in termini musicali?

Personalmente, vorrei tornare ai primi anni ’80. Comprerei un sacco di tute di tutti i colori e suonerei solo funk, ballando a tempo con la mia band. È un periodo strano ma penso che sarei perfettamente a mio agio.

 

Laura Faccenda

Aspettando Indie Pride 2019: Cara Calma + Endrigo

Il 26 Ottobre al TPO di Bologna, Cara Calma e Endrigo condivideranno il palco durante l’ottava edizione dell’Indie Pride Festival. 

I Cara Calma sono Riccardo, Fabiano, Cesare e Gianluca. Vengono da Brescia e iniziano a suonare insieme nel 2017. Da quell’anno ad oggi pubblicano due album: Sulle Punte Per Sembrare Grandi (2018) e Souvenir (2019) entrambi per Cloudhead Records e Phonarchia Dischi. 

Gli Endrigo sono Gabriele, Matteo, Simone e Ludovico. Anche loro quasi-bresciani, si trovano nel 2012. Spara (2013) e Buona Tempesta (2015) sono i loro primi due EP, seguiti dall’album Ossa Rotte, Occhi Rossi (2017) per IndieBox Music. Nel 2018 esce il loro ultimo lavoro GIOVANI LEONI targato Manita Dischi. 

Abbiamo fatto due chiacchiere con entrambi i gruppi per sapere come la loro partecipazione confluisce nelle attività dell’associazione.

 

• Cara Calma •

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Innanzitutto, perché avete deciso di partecipare a quest’evento?

Abbiamo deciso di partecipare all’Indie Pride perché in un momento storico come questo, riteniamo sia fondamentale far sentire la nostra voce su temi così importanti come quelli trattati dall’associazione. Noi sosteniamo in pieno lo spirito e le motivazioni dietro ad Indie Pride, quindi ci è sembrato giusto e doveroso essere presenti.

L’associazione Indie Pride si occupa di combattere omotransfobia, sessismo e bullismo. In che modo secondo voi la musica può aiutare questa causa?

Abbiamo sempre visto la musica come un momento di condivisione, di ritrovo in cui fare casino tutti insieme senza badare alle diversità tra ognuno di noi. È una passione che unisce chi sta su un palco e vuole trasmettere un messaggio a chi invece lo sta ascoltando e recependo, quindi è davvero ciò che di più lontano c’è dai concetti di esclusione e diversità. Che poi “diversità” è una parola un po’ povera. Cosa significa? Siamo diversi rispetto a cosa?

Se doveste scegliere una vostra canzone per riassumere il senso di quest’evento, quale sarebbe e perché?

È una domanda un po’ difficile perché non abbiamo mai trattato direttamente questi temi nelle nostre canzoni, ma se dovessi sceglierne una così, su due piedi, sarebbe Domenica (dal loro primo album Sulle Punte Per Sembrare Grandi). Non è stata scritta con l’intenzione di parlare di bullismo o esclusione, ma il testo potrebbe essere abbastanza riconducibile alla lotta contro queste piaghe sociali. 

 

• Endrigo • 

endrigo

 

Quando avete aderito all’associazione Indie Pride e perché?

Non so dirti il momento preciso. Fra le prime persone che abbiamo conosciuto a Bologna, forse 2 o 3 anni fa, c’erano delle ragazze che seguivano i nostri concerti, con le quali poi siamo diventati amici. Loro facevano già parte dell’associazione e appena abbiamo conosciuto quella realtà ci hanno proposto di supportare la causa. Ci riconosciamo in tutti i valori proposti e quindi abbiamo assecondato la cosa con grande piacere.

Eravate in qualche modo già attivi nella lotta contro omotransfobia, bullismo e/o sessismo?

Le nostre canzoni non parlano quasi mai di temi sociali o politici, non per scelta ma perché quando scriviamo parliamo di cose personali. Però ci sono tre canzoni che toccano questi argomenti, perciò ti rispondo “si”. Anche quando non ne parliamo con la musica, lo facciamo sul palco, dal palco, comunicando tra una canzone e l’altra in modo più schietto. Il palco è per noi un riflettore e un momento importante per veicolare questi messaggi.

Ne Il ritorno dello J**i (dall’album Giovani Leoni) parlate di bullismo. Nel video ufficiale c’è un bambino preso di mira dai bulli che, tornato a casa, trova sfogo nel suonare la chitarra. Pensate che la musica rappresenti più un rifugio personale o un’ancora di salvezza collettiva?

Non c’è bisogno di scegliere, è tutte e due le cose. Lo possiamo vedere in diversi momenti: quando torniamo a casa e sentiamo una canzone di cui abbiamo bisogno, o ad un concerto dove le persone che hai accanto, conosciute o sconosciute, si sentono esattamente come te, dove c’è un senso di collettività. Entrambe le cose sono coesistenti e molto potenti. Si integrano.

 

Cecilia Guerra e Francesca Di Salvatore

[Anteprima Video] Le Figurine “Difendimi”

Le frequenze di Vez Magazine trasmettono in anteprima esclusiva il messaggio de Le Figurine, il duo femminile che ha intrapreso un viaggio lunghissimo per provare a risvegliare le coscienze a colpi di beat.

Orecchie, occhi e cuore aperto: ecco il video di Difendimi.

 


 

 

 

Cake @ Alcatraz

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• Cake •

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Alcatraz (Milano) // 21 Ottobre 2019

[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Unica nel suo genere, inclassificabile e definita “alternativa fra gli alternativi”, la band di Sacramento guidata da Jon McCrea, a otto anni dal suo ultimo passaggio in Italia, è tornata a suonare nel nostro paese.

Sia per i loro fan di lunga data, ma anche per le nuove generazioni, questa è stata un’occasione imperdibile per vedere dal vivo i Cake, una band unica nel suo (non) genere.

 

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Foto: Elisa Hassert

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Grazie a: DNA Concerti

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Marlene Kuntz: Nuotando tra Passato e Futuro

30:20:10 MK2 è la formula che annuncia il tour di Ottobre dei Marlene Kuntz in onore dei trent’anni di carriera e del loro album Ho ucciso paranoia: trent’anni di concerti e riconoscimenti a cui si è anche aggiunto il 5 Settembre il premio Migliori Musiche per lo spettacolo teatrale Il castello di Vogelod.
Riccardo Tesio, chitarrista e fondatore della band cuneese, ha risposto ad alcune delle nostre domande riguardanti il tour e l’evoluzione artistica dei Marlene.

 

Il 2019 segna i vent’anni dall’uscita del vostro disco Ho ucciso Paranoia e trent’anni di carriera, che celebrerete con 10 concerti doppi, in acustico ed elettrico. In seguito all’infortunio di Luca Bergia avete dovuto ripensare alle location dei live di Ottobre. Come sono state re-inventate le alternative?

Abbiamo scelto delle location non troppo distanti da quelle originarie, tutto compatibilmente con i club disponibili in quel momento. Stiamo cercando di fare uno spettacolo diverso da quello che il nostro pubblico è abituato a vedere, sia per il fatto che è diviso in due tempi, una parte acustica e una parte elettrica, sia per quanto riguarda la parte dei video. Due esperti hanno realizzato delle immagini che verranno proiettate dietro di noi durante il concerto, sarà uno spettacolo abbastanza particolare. I Marlene hanno suonato molto in Italia, ma nessuno ci ha mai visti come saremo in queste dieci date.

 

Cos’è stato Ho ucciso Paranoia al momento della sua uscita? Che significato ha per voi oggi?

I primi tre album sono i pilastri della nostra carriera e della nostra storia musicale. Catartica, Il Vile e Ho ucciso Paranoia hanno delimitato il perimetro dei Marlene Kuntz. Ho ucciso Paranoia è quello più sperimentale, abbiamo introdotto la componente improvvisativa che negli altri album non c’era, le cosiddette Spore, inteso come semi di nuova musica. Credo che sia stato il primo album ad entrare nella top ten della classifica. Tutti i nostri album li consideriamo tuttora validi ed attuali, sono stati tutti meditati in termini di scelte e produzione. Nel momento in cui un album esce ne siamo sempre soddisfatti, ed è sempre il meglio che possiamo fare.

 

Marlene Kuntz 4

 

A chi parlano i Marlene Kuntz nel 2019?

In generale ci piace pensare di rivolgerci a chi è interessato alla musica in maniera curiosa ma anche attenta. La musica può essere fruita in modi e momenti diversi, può essere di sottofondo o qualcosa che fa riflettere. Noi siamo più motivati verso un pubblico attento. Un disco nostro se ascoltato distrattamente può non piacere. Le sonorità sono un po’ strane, scelte armoniche possono risultare un po’ troppo ardite o i testi possono sembrare ostici, non ammiccanti, scomodi. Il primo ascolto può essere anche fastidioso. Chi invece è interessato ad argomenti meno semplici o non divertenti, approfondisce e piano piano trova delle sintonie o delle chiavi di lettura. I contenuti non sono necessariamente scomodi magari sono trattati in una maniera più particolare.

 

Tre momenti cardine di questi trent’anni?

Sicuramente gli inizi: nei primi 3-4 mesi dall’uscita del primo album successero diverse cose importanti.
Il primo, quando Ferretti, dei CSI si innamorò di Lieve: ci telefonò per spiegarci cosa era successo mentre ascoltava l’album e in particolare quel pezzo e poi ne fece una cover ai loro concerti. Quello è stato un momento molto importante perché noi eravamo all’inizio ed eravamo grandi ammiratori dei CCCP… è stato un momento molto emozionante. E’ stato il primo momento in cui mi sono detto che stava succedendo qualcosa.
L’incontro con Skin nel 2000. In quel periodo gli Skunk Anansie videro i nostri manifesti e chiesero al nostro discografico, che era anche il loro, di far loro sentire i nostri dischi. Nacque una collaborazione e fu una svolta per i Marlene Kuntz, ottenemmo maggiore visibilità e con questo arrivarono anche molte critiche. Pochi mesi dopo, il loro discografico gli fece ascoltare i provini del nostro nuovo album e da li nacque l’idea di fare un duetto per La canzone che scrivo per te, il cui testo si prestava in modo particolare all’interazione tra un uomo e una donna.
Il terzo momento non è molto conosciuto dal nostro pubblico, ma è stato molto importante: l’incontro artistico con Nick Cave. Cristiano, che capitava spesso ai suoi concerti perché amava molto Nick Cave, piano piano riuscì ad entrare anche nei suoi camerini. Nacque una specie di amicizia, una conoscenza tra artisti di paesi diversi, scambi di mail e di provini. Quando iniziammo a pensare di tradurre i nostri testi in inglese, Cristiano chiese a Nick Cave di dargli qualche dritta in merito alle traduzioni. Fu qualcosa di molto gratificante, dal punto di vista personale e artistico, fu uno scambio a livelli altissimi.

 

Milano 21 Settembre 2018, era in programma un concerto ai Magazzini Generali, annullato un giorno prima per motivi di forza maggiore. Avete suonato per i vostri fan davanti ai cancelli in acustico. Cosa pensate sia cambiato durante questi trent’anni nel vostro rapporto con loro?

Prima cosa si è alzata l’eta media del nostro pubblico. Il rapporto è molto diverso. Internet e i social fanno si che le informazioni viaggino molto più velocemente. Venticinque anni fa iniziammo a suonare tanto dal vivo e sostanzialmente incontravamo il pubblico solo nei concerti. All’epoca avevamo anche reso pubblica questa casella postale e chi voleva poteva scriverci. Ricevevamo molte lettere dai fan in giro per l’Italia. La comunicazione era molto diversa: le cose che arrivavano erano molto dense di sentimenti e di sostanza, perché inevitabilmente prendere carta e penna implica impegnarsi. Arrivavano meno lettere rispetto alle mail che arrivano oggi, ma ciò che arrivava era molto ponderato. Il contatto con il pubblico era attraverso i concerti e la casella postale. Oggi, scrivi una cosa su Facebook e dopo pochissimo hai già tutti i commenti. La sera prima dell concerto ai Magazzini Generali, quando arrivò la chiamata riguardo l’annullamento del concerto, scrivemmo un messaggio su Facebook per spiegare l’accaduto ai nostri fan. Di colpo ci arrivarono molti messaggi in cui i fan ci spiegavano la loro frustrazione per la notizia: c’era gente che veniva dalla Sicilia e aveva prenotato alberghi e comprato biglietti aerei. L’idea che qualche nostro fan potesse ritrovarsi li davanti con le porte sbarrate, ci rendeva molto frustrati. Da questo senso di sconforto nacque l’idea di annunciare che qualcosa sarebbe accaduto lo stesso senza essere troppo specifici, visto che c’era anche la questura di mezzo e c’era già molta tensione. Una volta arrivati lì, c’erano cento persone ad aspettarci. Una cosa del genere una volta non si sarebbe potuta fare perché non ci sarebbe stata l’opportunità di avvisare tutti così velocemente.

 

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Il 5 Settembre siete stati riconosciuti del premio Migliori Musiche per lo spettacolo teatrale Il Castello di Vogelod. Com’è scrivere musica per il teatro? In che modo avete reso vostra l’opera di Murnau?

Da un po’ di anni facciamo sonorizzazione di film muti, consiste nel guardare le immagini e immaginarsi delle atmosfere. A noi piacciono i film un po’ inquietanti. Ci facciamo una struttura sentimentale, un canovaccio a cui corrispondono delle idee musicali come un giro di chitarra, un riff di tastiere ecc. Per questo spettacolo abbiamo utilizzato una componente improvvisata sviluppatasi ai tempi di Ho ucciso Paranoia. Questa scelta nasce dal volersi adeguare allo svolgimento del film senza essere troppo rigidi nel contare i giri. Osserviamo quello che sta per succedere nelle immagini e ci spostiamo su un altro livello musicale per gradi in modo più fluido. C’è una traccia ma anche una componente improvvisata. Il film è stato arrangiato in accordo con il regista lì in teatro facendo le prove, questo approccio ha permesso di creare uno spettacolo unico e diverso per ogni sera della messa in scena. Lo spettatore avverte in questo modo che ciò che sta accadendo è un happening unico e irripetibile. Questo approccio ci obbliga ad eseguire lo spettacolo molto attentamente senza rendere meccanica l’esecuzione. C’è un maggiore coinvolgimento emotivo e una maggiore attenzione da parte della band che si traduce in una resa migliore.

 

Quale sound avranno i Marlene Kuntz del futuro: si tratterà di un’ evoluzione dei range espressivi o dobbiamo aspettarci un crossover dalle tinte più attuali?

Sicuramente stiamo sperimentando cose abbastanza nuove, però è anche vero che il nostro modo di scrivere la musica è quello che abbiamo sviluppato in trent’anni di carriera. Noi cercheremo di fare qualcosa di diverso ma non so come verrà colto questa cosa, vedremo. Preferisco non svelare troppo: sicuramente lavoreremo con una strumentazione diversa e ci saranno dei cambiamenti nel modo in cui scriviamo, quale direzione dovremo prendere è ancora da definire.

 

Giulia Illari

 

Credit foto Full Band: Alex Astegiano

Credit foto Cristiano Godano Live @ Vidia Club: Simone Asciutti

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