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Anno: 2020

IDLES “Ultra Mono” (Partisan Records, 2020)

Quale è l’atto più rivoluzionario per contrastare l’odio?

La risposta più ovvia è l’amore. 

Odio genera odio, una spirale autodistruttiva per l’animo umano.

Nelle menti neanderthaliane il romanticismo è noioso, scontato; sentimenti come l’amore, la gentilezza e la delicatezza sono fuori moda. Chi vince è sempre chi ama di meno, e la scelta più punk che possiamo fare è provare e dimostrare amore. 

Distruggendo gli stereotipi più comuni attraverso la loro personalissima visione ed interpretazione del punk, gli Idles, controverso gruppo proveniente da Bristol, ci presentano il loro nuovo album Ultra Mono, anticipato da vari potentissimi singoli, che girano sul web da vari mesi.

La band rifiuta l’idea di essere etichettata in un genere unico, tanto che si definiscono heavy post punk. Esordiscono nel 2009 e dopo un lungo processo di auto-definizione e ricerca del proprio sé ci regalano questo album. Un lavoro complesso, dove la rabbia di Joe Talbot  verso le problematiche del mondo moderno esplode in testi poetici incazzosi, accompagnato da strumenti indemoniati. L’accento tipico inglese conferisce ai brani quell’aura di eleganza, distrutta da chitarre pesantissime, batterie pestate a sangue e bassi profondi. La loro unicità stilistica ed emotiva è un diamante grezzo nel panorama musicale moderno.

Gli Idles sono come grassi lottatori di sumo che atterrano sulle tematiche più scottanti della nostra società, frantumando ogni pregiudizio, ogni forma di odio razziale o di genere, portando un messaggio di amore e pace in una maniera assolutamente non banale.

“Black is Beautiful” urla Talbot in Grounds, spezzando le reni al razzismo, tema ripreso anche in Model Village, brano iconico, dove si scagliano contro la mascolinità tossica, questo senso errato di ricerca di una vita perfetta in linea con i canoni della società. Qui ci esortano a prendere il volo, inteso non tanto in senso fisico ma come distaccamento mentale verso questi obsoleti stereotipi sociali.

Ci inducono a lottare, non come scelta ma come necessità contro le avversità della vita in War, utilizzando ritmiche spartane e chitarre distorte, tentando di riportare la musica a quello che è, ossia un mezzo comunicativo reale, sincero, dove non conta l’intonazione e la perfetta esecuzione dei brani, quanto il messaggio contenuto nei testi. 

Il suono intenso della chitarra nell’introduzione di A Hymm, alla quale si aggiunge la voce profonda di Joe che sussurra “I want to be loved, everybody does” trasforma il pezzo in qualcosa di introspettivo, di quel bisogno di essere amati che risiede in ognuno di noi, che molto spesso viene rinnegato per la vergogna o per la paura di essere rifiutati. Un brano che porta in alto la libertà dei sentimenti.

La loro poetica romantica dai toni bruschi è dimostrata anche in The Lover, manifesto del loro heavy post punk (“Fuck You, I Am A Lover”), dove distruggono questa moderna ondata di disfunzione emotiva, rigenerando il concetto di amore.

L’armonia caotica è destabilizzata dai 30 secondi di pianoforte dell’intro di Kill Them With Kindness, dove l’intento di Joe è proprio rompere ogni regola, utilizzando la gentilezza per portare scompiglio. 

L’intenzione è di abbattere tutti i tipi di cliché, in Mr. Motivator, donandoci quella carica positiva di cui abbiamo tutti fortemente bisogno.

Adrenalina, Libertà e Contenuti Profondi.

Una band controversa, reale, viscerale, romantica. 

Gli antieroi di cui avevamo fortemente bisogno. Tutto l’album sembra dire chi se ne frega della perfezione musicale, l’importante è il messaggio che vogliamo mandare.

Prendetevi ‘sto casino e fatene quel che volete.

 

IDLES

Ultra Mono

Partisan Records

 

Marta Annesi

Nirvana ”Nevermind”: Riflessioni da Anniversario

24.01.1991

Esce Nevermind, secondo album dei Nirvana.

Però, questa volta, andiamo sul personale.
Il 1991 è stato l’anno di Gish, di Ten, di Spiderland, di Nevermind.
È stato l’anno in cui sono entrato in un liceo, e per la prima volta in vita mia mi sono sentito sperso. Di colpo condividevo spazi con ragazzi che mi sembravano adulti, avevo accesso all’improvviso a un mondo a me ancora sconosciuto, fatto di tribù, di riti iniziatici, di codici, di divise.
Fedele alla (mia) linea “fatti i cazzi tuoi”, in un basso profilo esplorativo figlio della mia devozione per Jacques Cousteau, mi lanciai nell’esplorazione della fauna locale, alla ricerca di un’appartenenza che mi concedesse l’accesso a riti magici e conoscenze superiori.
MTV e un walkman Sony con cuffie a spugnetta erano le mie chiavi, un primo argomento con cui cercare i miei simili in quel mare di giacche e scarpe tutte uguali.
La cassetta di Nevermind fu l’inizio. Mi venne regalata copia artigianale con titoli scritti a caso, ma fu il contenuto a folgorarmi, un nuovo e aggiornato San Paolo, folgorato su corso Damasco. Mi ritrovai davanti all’inizio, al primo capitolo di una storia fatta di gruppi, di musicisti, di ragazzi che cantavano il lato debole della loro vita, una consapevole esposizione del loro lato oscuro, del loro essere fuori tempo e luogo. Era un’adolescenza protratta nel tempo, forse un pelo elaborata, ma finalmente raccontata per quello che spesso sembrava: una merda.
Fu la magia degli anni novanta: una generazione di artisti che non ebbe alcuna paura a raccontare in musica le ansie e le paure dei propri coetanei, che delle hair bands di fine anni ottanta presero davvero poco (anzi, a volte se le diedero proprio), che ostentarono con fierezza il loro essere deboli, sfigati, sensibili, feriti, umani. Ci siamo riappropriati il diritto di non essere cotonati e felici, rompendo lo specchio dei narcisissimi anni ottanta in cui ci siamo specchiati privandoci della visione periferica.
Per un quattordicenne fu totale e indefessa identificazione. Era un S-I-P-U-O’-F-A-R-E urlato al cielo da una generazione che, non era più la caricatura di se stessa.

Nevermind puzzava di palestra ogni volta che MTV passava il video di Smell Like Teen Spirit.
Nevermind era subacqueo come certe serate in cui affogavi in parole e risate e vino. 

Nevermind era lo stato d’animo giusto al momento giusto perché dentro di sé aveva lo spettro completo delle tue emozioni, era un prontuario per l’adolescenza, era testo sacro da sapere a memoria.
Nevermind era argomento utile a dividere il mondo tra chi ascoltava – ancora – i Guns e chi li avrebbe sepolti l’anno successivo, allo stadio, con l’aiuto di Cornell e Patton.
E il 1991 diventò l’anno degli Smashing  Pumpkins, dei Pearl Jam, dei Temple of The Dog, dei Nirvana, dei Red Hot Chili Peppers, dei R.E.M, e chissà cos’altro che ora non ricordo.

Quel disco è perfetto. Ha scorci incredibili. Quando le cuffiette del walkman salivano, regalando al mondo 49 minuti di mia assenza, i Nirvana sembravano essere in sei. C’era la batteria che suonava, non accompagnava, suonava proprio, la chitarra faceva anche i cori, dissonava, dissentiva. E sotto Novoselic ciondolava rimbalzando.
Nevermind appartiene alla categoria “unskippable”, saltare un brano sarebbe uno sgarbo agli dei, una ὕβϱις, degna di prometeiche punizioni, come essere incatenati per l’eternità a una roccia, accompagnati fino alla fine del tempo da una playlist di B-side dei Nickelback.

Ah, dimenticavo.
Un segreto: per me Nevermind si rivela, scopre le sue carte, insomma ti lancia quello sguardo che non puoi non capire in un punto preciso: sta tra la fine di Territorial Pissings e l’inizio di Drain You. La prima finisce in tragedia: Cobain perde la voce, Grohl è stato denunciato dalla batteria per maltrattamenti, insomma, dopo due minuti e ventidue di disperata e paranoide ricerca siamo alle urla, allo sguardo annebbiato, si sentono solo più un paio di calli sulle corde della chitarra. Un secondo di silenzio per sentire meglio lo schiaffone appena preso e inizia Drain You. Lì, in quella pausa, in quell’attimo alberga lo spirito del disco. Ci trovo il suo gusto, ci ritrovo i miei anni novanta.

 

Andrea Riscossa

Quiet Is the New Loud “Hidden Code” (Self Released, 2020)

Dieci tracce, sessanta minuti e un’unica storia che si srotola nell’arco di 46 anni, dal 1945 al 1991, ma è la parte centrale, ambientata nella San Francisco degli anni ’60 ad esserne il cuore pulsante. Così si presenta Hidden Code, il primo album della band triestina post-rock Quiet Is the New Loud. 

Un progetto rock strumentale decisamente interessante e fuori dagli schemi della discografia contemporanea, dove il singolo rapido tende a vincere sul disco e i concept album, che richiedono una certa attenzione e lentezza, sono sempre più rari. Al contrario, qui non c’è solo una storia da seguire – un vero e proprio noir che ruota attorno a quei cardini della vita che sono amore e morte – ma si potrebbe dire addirittura da ricostruire. L’ascoltatore deve così rimettere insieme i pezzi, prestando soprattutto attenzione ai numerosi salti temporali, e in questo modo diventa una parte attiva dell’album. Certo, nulla vieta di ascoltare Hidden Code come un semplice disco di rock strumentale, per rilassarsi o per caricarsi a seconda dei vostri gusti, ma così si rimarrebbe solo sulla superficie di questo lavoro. 

Ogni canzone infatti è collegata ad un pezzo del noir e queste didascalie sono leggibili sia sul sito Bandcamp sia presenti fisicamente nel packaging dell’album, che diventa quindi fondamentale per comprendere appieno la narrazione dietro a questo lavoro. O forse dietro non è la parola più esatta, dato che storia e musica si compenetrano, sono indissolubili e inscindibili l’una dall’altra: una vera e propria soundtrack che scandisce i vari avvenimenti nella vita dei due protagonisti. 

Ed è una soundtrack decisamente rock, che alterna momenti di quiete come l’inizio di Mistakes, Lights and Breaths ad altri che sono vere e proprie esplosioni di suoni, come il finale di Like A Daydream or a Fever, o ancora quel climax musicale che è Nemesys, che rappresenta un po’ un punto di svolta per il che questa band triestina ha voluto raccontare. 

Tensione, angoscia, amore, desiderio di vendetta: tutte queste sensazioni viaggiano, senza quasi mai proferire parola, tra chitarra, basso e batteria. Però, ad un ascolto più attento, prendono forma e diventano visibili come una fotografia, seppur mentale. Hidden Code si potrebbe così definire un album sinestetico, dove la musica non si esprime mai attraverso le parole, ma solo tramite i suoni e anche – o forse soprattutto – per immagini. 

Un lavoro difficile da realizzare, ma decisamente ben riuscito. 

 

Quiet is the new Loud

Hidden Code

Self released, 2020

 

Francesca Di Salvatore

Three Questions to: Random Ties

Hey everyone, it’s Youssef from Random Ties a heavy hitting, feel-good rock band. A big thanks to you for giving us a voice via your interview.

How have you been doing during these hard times for music in general?

“Our goal has always been to remain consistent, provide quality music to our audience and reach a wider fan base geographically. We’ve been very busy this year despite the pandemic. In June we released our EP Believe, which I had put on hold for many years, with a couple of music videos on our YouTube channel. We also had an East Coast summer tour that ended last month at the Goose Lake Festival 50th anniversary in Michigan and a couple of weeks ago we released our latest single, Thawra, inspired by the deadly explosion that happened in Lebanon and rocked the nation, leaving over 300,000 people displaced and thousands still missing or dead. We worked with the incredible Layal Jebran, who produced the video with the most authentic shots. We hope this song will shed light of what’s going on down there and all proceeds will go towards supporting the Lebanese Red Cross.”

What would you like to inspire in those who listen to your songs?

“Don’t be afraid to speak up against injustice or corruption. If you are oppressed, stand up to the bully and know that every day is a chance to turn things around.”

What about your future projects?

“September is suicide prevention and awareness month, so we decided to release on the 27th the video for our song Why, which talks about the struggle of losing someone close to you. We will also release our second EP in October, but we haven’t picked a title yet.”

 

Abbiamo fatto due chiacchiere con Youssef dei Random Ties, una rock band emergente di Detroit.

Come state vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?

Il nostro obiettivo è sempre stato quello di rimanere costanti, garantire ai nostri ascoltatori musica di qualità ed estendere il nostro pubblico a livello geografico. Nonostante la pandemia, siamo stati parecchio impegnati: a giugno abbiamo pubblicato il nostro EP Believe, che avevo lasciato da parte per anni, insieme ad un paio di video musicali sul nostro canale YouTube. Quest’estate siamo anche stati in tour sulla East Coast e abbiamo concluso il mese scorso suonando al cinquantesimo anniversario del Goose Lake Festival, nel Michigan. Inoltre, qualche settimana è uscito il nostro ultimo singolo, Thawra, riguardo la terribile esplosione che ha scosso il Libano, lasciando più di 300.000 sfollati e migliaia di persone tra vittime e dispersi. Abbiamo lavorato con l’incredibile Layal Jebran, che ha realizzato il video usando filmati autentici. Speriamo che questa canzone faccia luce su cosa sta succedendo laggiù e tutti i proventi andranno alla Croce Rossa libanese.

Cosa vorreste trasmettere a chi vi ascolta?

Di non avere paura a farsi sentire per combattere le ingiustizie o la corruzione. Se vi sentite oppressi, alzatevi in piedi e sappiate che ogni giorno è un buon giorno per poter cambiare le cose. 

Per quanto riguarda progetti futuri?

Settembre è il mese della prevenzione del suicidio, quindi abbiamo deciso di rilasciare il 27 il video della nostra canzone Why, che parla proprio di quanto sia difficile perdere una persona cara. Ad ottobre uscirà anche il nostro secondo EP, ma non abbiamo ancora scelto il titolo. 

 

Francesca Di Salvatore

Movements “No Good Left to Give” (Fearless Records, 2020)

Il buio in mezzo al tunnel

 

Partiamo subito con una confessione: non appena questo gruppo californiano aveva annunciato l’uscita del loro secondo album, a distanza di tre anni dal loro primo LP Feel Something, la prima cosa a cui avevo pensato era stata che forse quest’anno sempre più simile al remake di Una Serie di Sfortunati Eventi avrebbe avuto una colonna sonora quanto meno appropriata.

Ovviamente in senso buono.

Già, perché se c’è una cosa che i Movements sanno fare bene – e lo avevano già dimostrato con il loro album di debutto – è parlare di tutti quegli argomenti decisamente poco piacevoli ma contro cui, volenti o nolenti, questo 2020 ha contribuito a farci scontrare e non sempre nel modo in cui eravamo abituati: la malattia, la perdita, la salute mentale, le difficoltà nelle relazioni. 

Lo fanno con un sound ruvido e dei ritmi quasi ossessivi, di matrice primi anni duemila e che ricordano band come i Mayday Parade o i Good Charlotte. 

No Good Left To Give inizia con In My Blood, canzone dai toni che sulle prime sembrano quasi sommessi, per poi esplodere verso la fine e lasciar intendere che anche questo album sarà crudo, graffiante e forse ancora più intenso del primo. In generale, il mood del disco può essere sintetizzato bene dalla quarta traccia, Tunnel Vision, una metafora visiva della depressione dove il cantante ammette di essere “angry and tired”, arrabbiato e stanco. 

Sono proprio loro le due sensazioni predominanti, rabbia e stanchezza. Sono loro che accompagnano l’ascoltatore lungo tutte le 12 canzoni, in un tentativo di mettere su traccia audio cosa significa e cosa si prova quando si ha a che fare direttamente o indirettamente con problemi di salute mentale. 

Non a caso, il singolo Don’t Give Up Your Ghost capovolge il punto di vista: chi canta è già passato attraverso il tunnel delle tendenze suicida e cerca di mostrare supporto e comprensione a chi invece ci sta passando in quel momento. “But there’s a beauty I believe you can find/Under the grief, under the compromise”, canta Patrick Miranda in una strofa. È forse uno dei pochi momenti di luce in un album che invece non ha paura di attraversare posti parecchio bui, ma forse questo si poteva capire già dal titolo. 

No Good Left To Give. Non è rimasto niente di buono da dare. 

Però forse non del tutto vero. 

È rimasta la musica e quella, per fortuna per noi che ascoltiamo, è ancora decisamente qualcosa di buono. 

 

Movements

No Good Left To Give

Fearless Records

 

Francesca Di Salvatore

Daniel Blumberg @ Anfiteatro del Venda

Una magnifica follia

Anfiteatro del Venda (Galzignano Terme) // 13 Settembre 2020

 

Praticamente c’è sto tizio, vestito in maniera leggermente eccentrica di scuro, cappellino da baseball calato sul viso a nascondere lo sguardo, che sta seduto al piano, e tamburella, giochicchia, insiste in maniera seriale, quasi ossessiva, su un paio di note gravi, le quali escono dall’impianto effettate e stridenti, completamente snaturate. 

“Starà facendo il sound check”, presumo sia stato il pensiero mio e dei (non moltissimi) presenti, comodamente sdraiati sul prato inclinato che circonda il palco del Venda, mentre il sole lentamente prosegue il suo tragitto verso ovest, tuttavia ancora troppo alto sull’orizzonte per lasciar spazio allo spuntare delle luci della pianura padana, fondale naturale per le esibizioni da queste parti.

Tra una chiacchiera, un bicchiere di vino ed un paio di risa poco alla volta tutti si convincono del fatto che quella figura longilinea e vagamente “strana”, china sul piano, deve essere lui, dai, il signor Daniel Blumberg, trentenne inglese che in questa domenica settembrina porta in Italia, unica data nella penisola, in una location con pochi eguali, il suo recente On&On….

Il di cui sopra musicista non pare dare molta importanza alla situazione che lo circonda, intento com’è a guardarsi intorno quasi smarrito, a stuzzicare la tastiera, bofonchiare qualcosa in un microfono, accennare un paio di note sull’armonica, veder correre senza sosta una biondissima bambina (che ancora non so se potesse essere sua figlia o comunque appartenente all’entourage), sorseggiare del vino, alzarsi a far nulla in particolare per poi risedersi al piano, sistemare un libretto sul leggio. 

In questo clima tra il bucolico dell’ambientazione, l’informale della domenica pomeriggio orario aperitivo, il surreale del vedere il motivo stesso del tuo pellegrinaggio in cima a queste colline intento a cazzeggiare in mezzo al palco che quasi per caso ti accorgi che gli ultimi due accordi di piano somigliano davvero molto a quelli di Madder, pezzo tratto da Minus, prima gemma regalata al mondo da Daniel Blumberg, risalente al 2018. Quando, diversi minuti dopo, si avvicina al microfono e con il suo timbro inconfondibile scandisce “It’s my morning answer” non ci sono più dubbi, è lei; semmai ti resta qualche perplessità per il semplice fatto che non sai ancora se sia effettivamente iniziato il concerto o meno, ma tant’è, inutile continuare a crucciarsi, meglio assumere una posizione più adatta e rispettosa verso quello che, e non lo dico solo io, è l’autore di uno dei migliori dischi del 2020 ed i cui concerti, e io non lo dico perché è la prima volta per il sottoscritto, sono sempre delle esperienze magnifiche.

Prendendo come assioma dunque che Madder sia stato il primo brano in scaletta, quello che emerge subito, senza troppi fronzoli, è la continua, incessante necessità, il bisogno che Blumberg sembra di avere di alterare, portandoli quasi fino al rumore vero e proprio, quasi fino alla cacofonia, i suoi brani; i quali, beninteso, sono dei capolavori, dei veri miracoli cantautoriali.

Daniel Blumberg ha una facilità e creatività espressiva e compositiva imbarazzante da quanto è sfacciata, brani come Minus, terzo brano in scaletta quest’oggi, o la title track On&On, che ha trovato spazio verso la fine del live, sono composizioni che la stragrande maggioranza dei cantautori al giorno d’oggi pagherebbe per riuscire a comporre, farebbe carte false per avere qualcosa di simile a Permanent in repertorio, credetemi. 

Un incrocio tra Mark Linkous e Keaton Henson ed un pizzico di Sufjan Stevens (con sfumature nella voce di Ben Sollee aggiungerei) sotto il quale scorre una vena rumorista di pura avanguardia, motivo per il quale più che a veri e propri concerti, quelli di Daniel Blumberg somigliano ad esibizioni  che potreste vedere in qualche MoMa o Guggenheim o in qualche galleria d’arte moderna, come quando in un momento di passaggio tra Family and On&On, unite da lenti, lentissimi tocchi di piano e vaneggi di armonica, ha passato svariati minuti a creare un fastidiosissimo rumore con un microfono, o come prima di Teethgritter, quando i minuti sono trascorsi nel guardarlo far cadere all’infinito nella coda del piano diversi oggetti metallici (monete forse?). 

È la struggente, severa carezza di The Bomb a chiudere quest’esperienza così trasversale, così vera; il sole ora sì è giunto a destinazione, dietro alle colline e al contempo le luci del mondo, mai così distanti, disegnano un tappeto intermittente alle spalle di quest’uomo, questo concentrato di creatività e stupore, di dolcezza e frastuono, che stranito, spaesato, si alza dal pianoforte, un abbozzo di inchino, non una parola, due passi a lasciare gli assi del palco del Venda, si siede poco lontano, “Minus the intent to feel, I’m here”.

 

Alberto Adustini

Tricky “Fall to Pieces” (False Idols/!K7, 2020)

Come reagire al dolore

 

Dentro ognuno di noi c’è un’energia vitale che ci spinge verso la realizzazione dei nostri sogni.

Ma che succede quando questa fonte inesauribile di idee e concetti è messa a dura prova? Il dolore sembra spegnerci, risucchiando in un vortice oscuro tutto ciò che era luce.

In tale stato di cose è difficile pensare, creare, tutto è piatto e grigio, monotono. Non siamo in grado di rialzarci e ci crogioliamo nell’apatia.

In questi casi abbiamo bisogno di un mentore, qualcuno che ci indichi la via giusta per risalire dal dirupo. Qualcuno che ci insegni come incanalare questa energia distruttiva verso qualcosa di costruttivo.

Ed ecco il significato che si nasconde dietro Fall To Pieces, il nuovo album di Tricky, che da trent’anni ci delizia con il suo stile stratificato, complesso, che racchiude trip hop, elettronica, indie e rock, caratterizzato da una cupa malinconia.

Ha impiegato tutta la forza, la sua energia in questo disco, dopo la tragica perdita di sua figlia. La vita per il cantante e produttore di Bristol, non è mai stata una passeggiata. Cresciuto nei quartieri disastrati, ha subito la perdita della madre a soli 4 anni, è stato salvato proprio dalla musica. E il suo ringraziamento alla Dea è tutto in questo disco.

In un momento così catartico, dove stava pensando di lasciar perdere ogni cosa ha tirato fuori gli attributi ed è riuscito a realizzare un’album spaziale, complicato ed elaborato, grazie alla partecipazione di Marta Złakowska, cantante polacca scoperta nel suo ultimo tour, quando, essendo rimasto senza voce femminile, ha colto il talento di questa ragazza.

L’album è composto di pezzi dalla durata varia, con cambi repentini sia a livello stilistico che emotivo. Rappresenta un viaggio a tappe verso l’accettazione del lutto, dove il dolore è palpabile, ma c’è anche tanta voglia di lottare per rialzarsi.

L’album è annunciato da Fall Please, risultato di un mix stilistico in cui la voce di Marta si muove sinuosa su una base ritmata composta da percussioni unite all’elettronica, un pezzo che ti fa alzare il culo e scatenare, e fa respirare l’aria dei club londinesi, riuscendo a spegnere la rete neurale.

La vera anima trip hop di Tricky prende il sopravvento in Take Me Shopping, brano più lento, cupo e mentale: ci obbliga a riaccendere il cervello con un testo straziante, disperato reportage di un’apatia lancinante, dove lo stile di canto profondo e riflessivo si fonde con la voce di Marta, morbida e aggraziata.

Hate This Pain sono 3 minuti e 24 secondi di inconsolabile sconforto: questo pezzo ci conduce in lande desolate sferzate da venti gelidi che, straziando l’anima dell’ascoltatore grazie all’accompagnamento di un pianoforte malinconico e alla ripetizione cadenzata della frase “I hate this fucking pain”, racchiude tutto il dolore provato dal lutto.

Con uno stacco pauroso veniamo gettati in Chills to the Bones (che già solo il titolo “freddo fino alle ossa” ci fa intendere la profondità del brano) che presenta un’intro molto stile Prodigy, proseguendo con un flow R&B.

Per sottolineare quanto questo disco sia frutto di un’elaborazione del dolore e una conseguente voglia di rinascere, troviamo Like a Stone, uno dei pezzi più introspettivi dove Tricky spalanca la porta della sua parte più intima, attraverso una base coinvolgente drum’n’bass, molto stile Massive Attack. Quando la canzone si arresta violentemente, possiamo entrare in punta di piedi in Throws Me Around, la cui base riproduce, attraverso il suono del tamburo di una batteria, i battiti cardiaci, quasi a ricordarci che nonostante ogni avversità il cuore è ancora lì, ed è vivo.

La camaleontica personalità di Tricky che gli permette di produrre strutture musicali diversificate emerge indubbiamente in Vietnam, pezzo caratterizzato da schitarrate lunghe e riecheggianti, contestualizzate dalla perfetta simbiosi delle voci: due minuti e mezzo di pura malinconia.

Questo album racchiude tutta la forza, la disperazione, la caparbietà di un artista che dopo trent’anni continua a spaccare i culi, nonostante la perdita subita. Come Tricky stesso asserisce “You’ve gotta fucking get up and fight. Right now I’m in fight mode. And I feel really good. I do.”

 

Tricky

Fall to Pieces

False Idols/!K7

 

Marta Annesi

Francesca Michielin @ Acieloaperto

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• Francesca Michielin •

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+
Gregorio Sanchez

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 Acieloaperto

Villa Torlonia (San Mauro Pascoli) // 01 Settembre 2020

 

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Gregorio Sanchez

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ACIELOAPERTO • Andrea Laszlo De Simone

ACIELOAPERTO | IL RISVEGLIO

16 AGOSTO 2020

ANDREA LASZLO DE SIMONE

Un concerto immersivo nell’Immensità, l’ultimo sorprendente disco  del cantautore torinese

 

Risvegliati. Apri gli occhi e le orecchie, e guardati intorno. Rialzati, muoviti e riappropriati degli spazi comuni della città. Torna a incontrare le persone, e a far parte dellacomunità.
Questo è un risveglio. E il nostro è naturalmente musicale.

La settimana di acieloaperto finisce nell’“Immensità”. Questo il titolo del nuovo sorprendente disco di Andrea Laszlo De Simone, che suonerà per intero alla Rocca Malatestiana di Cesena domenica 16 agosto a pochi giorni dal concerto galvanizzante, intenso e tutto esaurito di The Comet is Coming.

Dopo l’esordio di “Uomo Donna”, “Immensità” ha portato Andea Laszlo De Simone ad essere apprezzato anche all’estero, in particolare in Francia e Regno Unito. Ora torna in Italia, finalmente in concerto, per pochi e speciali appuntamenti estivi. Tra questi, anche acieloaperto.

Sul palco nove musicisti in un concerto immersivo, un’orchestra mista tra synth, elettronica, cori, archi e fiati, un intreccio di strumenti classici e moderni: una versione contemporanea della musica da camera proprio come “Immensità” ripropone il concetto di suite. “Immensità”, uscito nel novembre 2019 per 42 Records e nel 2020 in Francia, UK, USA, Canada e Belgio per Ekleroshock/Hamburger Records è infatti un’opera complessa che lega musica e immagini, divisa in quattro capitoli ma fruibile anche in una sola traccia, come un’unica sinfonia.

Prima del cantautore torinese, sul palco di acieloaperto si esibirà Calabi.

All’anagrafe Andrea Rota, Calabi è un cantautore bergamasco. Prende il nome dello scienziato che più lo ha ispirato nella sua vita parallela che lo ha visto dedicarsi alla fisica teorica. Andrea scrive libri per bambini, e insegna loro la matematica attraverso il linguaggio universale dell’estetica. Le sue canzoni sono caratterizzate da una perfetta alchimia tra il suo cantautorato caldo e avvolgente, e la produzione elettronica di Federico Laini, già suo compagno di avventura nei Plastic Made Sofa, che le veste di un abito pop, colorato e moderno.

La rassegna

Organizzata dall’associazione culturale Retropop Live nella splendida Rocca Malatestiana di Cesena nella suggestiva Villa Torlonia di San Mauro Pascoli (FC), la manifestazione ha portato sui palchi di queste magiche location artisti del calibro di Eels, Calexico, Black Rebel Motorcycle Club, Xavier Rudd, Belle and Sebastian, Mark Lanegan, Niccolò Fabi, Gogol Bordello, solo per citarne alcuni. Ha i patrocini dei comuni di Cesena e San Mauro Pascoli, e della Regione Emilia-Romagna.

L’associazione culturale Retro Pop Live è attiva sul territorio cesenate e romagnolo da quasi un decennio. Ha operato in numerosi locali e rock-club del territorio, organizzando concerti e distinguendosi per la proposta artistica che spazia all’interno del rock alternativo in tutte le sue sfaccettature.

PROGRAMMA

già tenutosi | sabato 18 luglio: REMO ANZOVINO (ingresso libero)

già tenutosi sabato 1 agosto: CALIBRO 35 (tutto esaurito)

già tenutosi lunedì 10 agosto: MAX GAZZÈ (tutto esaurito)

già tenutosi giovedì 13 agosto: THE COMET IS COMING(tutto esaurito)

domenica 16 agosto: ANDREA LASZLO DE SIMONE

sabato 29 agosto: NOUVELLE VAGUE (data unica italiana)

martedì 1 settembre: FRANCESCA MICHIELIN

INFORMAZIONI PER IL PUBBLICO

La Rocca Malatestiana di Cesena apre alle ore 19:00. L’inizio del concerto di Calabi è previsto per le ore 20:30; a seguire alle 21:45 partirà il live di Andrea Laszlo De Simone.
I biglietti della rassegna musicale sono disponibili in prevendita sul circuito TicketOne.

Le aree concerto prevedono esclusivamente posti a sedere, e saranno rispettate le norme anti-covid disposte dal protocollo regionale per lo spettacolo dal vivo.

Info line al 339 2140806 oppure [email protected]. Maggiori informazioni sono consultabili sul sito www.acieloaperto.it o sulla fan page facebook “acieloaperto”

The Comet Is Coming @ Acieloaperto

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• The Comet Is Coming •

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 Acieloaperto

Rocca Malatestiana (Cesena) // 13 Agosto 2020

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Max Gazzè @ Acieloaperto

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• Max Gazzè •

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 Acieloaperto

Rocca Malatestiana (Cesena) // 10 Agosto 2020

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Efterklang @ Sexto ‘Nplugged

Un magnifico riverbero

Piazza Castello (Sesto al Reghena) // 9 Agosto 2020

 

Vengo regolarmente a Sesto al Reghena per il Sexto ‘Nplugged dal 2007, quando esordii in Piazza Castello di fronte a sua immensità Antony and the Johnsons. L’ultima mia volta a queste latitudini è una ferita ancora aperta, leggasi Sharon Van Etten, annullato per maltempo mentre parcheggiavo la macchina con il mio bel biglietto in mano. Il virus mi aveva precluso l’ennesima serata con il mio grande amore Chan, ma non può piovere per sempre, giusto? Ed ecco che i miracoli (perché di questo si tratta) a volte accadono e in piena emergenza pronte tre serate tre per palati fini, perché il pubblico di Sexto oramai ha aspettative che vanno dall’alto in su.

Stasera per me è una primizia, dopo un lungo inseguimento, perché finalmente vedrò il mio gruppo musicale danese preferito (e uno potrebbe dire “sai che concorrenza”, al che io risponderei “e gli Aqua dove li metti?”), ovvero gli Efterklang.

Premettiamo subito che parliamo di un concerto CLAMOROSO.

Cla – mo – ro – so, ve lo sillabo, qualora non fosse passato il messaggio.

In tutta sincerità confesso che mi aspettavo molto, per la caratura della band in primis, poi perché si presentava in formazione a sette, che ha sempre un suo fascino, e perché adoro la loro capacità di cambiarsi d’abito con una disinvoltura e naturalezza fuori dall’ordinario, propria delle grandi band.

Ecco, visto che si parla di abiti, vorrei mi fosse concessa una piccola digressione su Caspar Clausen, voce degli Efterklang e da stasera mio nuovo spirito guida. Si presenta sul palco con un calice di vino bianco, capelli biondi fuori taglio, come un frontman dei Bee Hive senza il doppio colore, una fronte enorme, un abbigliamento che meriterebbe un trattato a parte, total white, camicia abbondante nelle maniche, pantalone fuori moda alto in vita, sandalo forato di dubbissimo gusto (mise che sarebbe stata perfetta nelle commedie anni ’80, nelle scene all’interno delle discoteche, quando ci sono le comparse che ballano in maniera imbarazzante con le braccia lungo i fianchi, spero di aver reso l’idea). Semplicemente perfetto. Ciliegina sulla torta una sorta di bipolarità del nostro che sono riuscito a gestire solo dopo alcuni brani, in quanto mi soffermavo rapito a guardarlo passare in tempo zero dal trasporto del canto al fissare immobile persone a caso nelle prime file, e sorridere loro, con quell’espressione come dire, alla Mariano Giusti per capirsi, il personaggio lievemente eccentrico che Guzzanti interpretava in Boris. Se ce l’avete presente bene, altrimenti non è che posso fare tutto io.

Ad ogni modo un’ora e mezza circa farcita di bellezza, così tanta che si fatica a contenerla in un semplice live report, perché l’iniziale Monument, o Vi Er Uendelig (noi siamo eterni, come ci traduce Caspar), quasi una ninna nanna, piuttosto che The Colour Not Of Love erano state già capaci di irradiare e riempire di magia la piazza, tutta, compresi i vuoti dei distanziamenti, e abbracciare e abbracciarci, sotto la stessa luna, sotto lo stesso campanile che sovrasta il palco.

Una scaletta che attinge principalmente da Piramida e dall’ultimo Altid Sammen, che alterna brani in lingua inglese a brani in danese, e per quei strani, sovrannaturali, inspiegabili meccanismi che solo la musica dal vivo sa creare, sulle note Hold Mine Hænder, tutto il pubblico diventa d’incanto connazionale dei sette sul palco, e per alcuni dolci minuti un canone delicato e sognante tra palco e platea rende più di qualche occhio lucido (eccomi).

Sedna apre i numerosi encore, a cui fa seguito una Black Summer arricchita da una coda di sfacciata bellezza (Siv Øyunn Kjenstad, sappi che sei una meraviglia dietro a quella batteria, ed hai una voce celestiale, e meglio se mi fermo). A questo punto del concerto la famosa quarta parete è stata già abbattuta da tempo, sulle note di The Ghost, Caspar Clausen si siede a bordo palco, a due metri dalla platea, gli si affianca il basso (e il baffetto) di Rasmus Stolberg, il pubblico si alza in piedi e parte un convinto battimani a tempo, si avverte palpabile la sensazione che in condizioni “normali” tutto il pubblico sarebbe già da tempo sotto il palco, a ballare e a cantare, ma non si può, non ancora, per cui “se Maometto non va alla montagna…”, ecco che Alike mette i titoli di coda, con i sette che, uno strumento a testa (tra i quali i cucchiaini e una diamonica), totalmente in acustico, scendono dal palco, percorrono con molto rispetto il periplo di piazza Castello, e voglio pensare che non sia stato un caso che le ultime parole cantate in questa serata indimenticabile siano state queste:

The days are gone and the game was fun
The path was wrong, but it gave us hope
The more we found, the more we grew
Upon the truth, upon the truth
And it made us feel alike

 

Alberto Adustini