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Anno: 2021

Tre Domande a: Jaguar Jonze

How have you been doing during these hard times for music in general?

It’s definitely a challenge but a welcomed one too. It allowed me to step away from comfortable patterns and think outside of the box. I think you can only take on a positive mindset in situations like this to keep moving forward, and through that, we are able to innovate. The strength of humanity I guess!

 

What about your future projects?

I’m currently working on a short film to tie all of my Antihero songs together, which was the plan from the start of me creating this EP. After that, I will go into writing and writing to figure out where I will go in sound next.

 

If you were to choose just one of songs to introduce yourself to those who don’t know your music, which one would you choose and why?

Eeeeeeeeekkk!! That’s such a good, hard question! Depends on my mood, if I wanted to show my softer side it would be Astronaut and if I wanted to show my harder side it would be Deadalive.

 

Come stai vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?

È sicuramente una sfida ma una sfida in qualche modo benvenuta. Mi ha permesso di allontanarmi da abitudini assodate e spinta a pensare fuori dagli schemi. Penso che puoi solo affrontare queste situazioni con una mentalità positiva per poter andare avanti e, grazie a questo, poter essere in grado di innovare. La forza dell’umanità, immagino!

Progetti futuri?

Al momento sto lavorando ad un corto per legare insieme tutte le canzoni di Antihero, che per me era il piano fin dall’inizio per questo EP. Dopodiché, mi butterò a scrivere e scrivere per capire dove andrà il mio sound.

Se dovessi scegliere una sola delle tue canzoni per presentarti a chi non conosce la tua musica, quale sceglieresti e perchè?

Eeeeeeeeekkk!! Questa è davvero una bella domanda difficile! Dipende dal mio umore, se volessi far vedere il mio lato più delicato sarebbe Astronaut e se volessi far conoscere il mio lato più duro sarebbe Deadalive.

Sam Eagle and the need of not repeating himself

Leggi questo articolo in Italiano qui

Sam Eagle is an unstoppable force of nature and after only five months from the release of Something Out of Nothing, he’s out again with a new EP She’s So Nice (Cooking Vinyl). To mark the occasion, we had a chat with him and he told us how his songs come to life.

 

You are just 21 but you already have a strong and heterogeneous release history: can you tell us about your artistic journey?

“Sure, well I started out doing solo stuff when I was 16, having only been in bands up to that point. I wanted to make something super simple and just for fun, just to try out the process. I loved it, and haven’t looked back. I have a strict rule that every song has to be unique to itself in my catalogue. So that every song speaks for itself and I don’t repeat myself. This is really important to me as an artist, and if something doesn’t meet that criteria it won’t be released. People say that writing as many songs as you can is the way to go, but I disagree personally — for me I much prefer taking longer to write a song, and just focus on making it the best it can be, allowing the song to form naturally before moving on.”

 

What do you prefer about your latest EP?

“I think the range of styles, emotions and sounds. That’s another thing that’s very important to me — having as wide a range of feelings as possible across a project. I’d like to think there’s something in there for everyone.”

 

How does its content differ from your previous releases?

“It’s more produced I would say. The last EP Something Out of Nothing and this one She’s So Nice were both made together, so they’re very much a pair, or a body of songs. Before these two EPs though, I used to take a lot more influence from jazz. Now I take more influence from hip hop.”

 

What do you get inspired by?

“Nature has always been a massive inspiration to me. Growing up by the sea and in the countryside of England has definitely influenced me to keep things natural, and not to process the instruments or my voice too much. Other inspirations can be anything from a song, a book, a fun experience, a conversation or anything really! Just trying to have new experiences — which granted has been very difficult over the past year.”

 

You are one of the artists of the year for 2020, a great achievement given the current circumstances. How are you living these challenging times?

“I’ve been very lucky to have put together my own studio to record these EPs before the pandemic. It’s been a real life line as I can keep making music and working on projects without any cost. It’s something I’d really recommend to anyone who can do it, to try and get together some kind of set up so that you’re self sufficient as an artist. It’s been difficult to stay inspired, and the amount of content flying around everywhere has been quite exhausting. I’m certainly ready now, and looking forward to moving forward into whatever the future holds.”

 

Marta Massardo

Sam Eagle e la necessità di non ripetersi

Read this article in English here

Sam Eagle è un’irrefrenabile forza della natura e dopo soltanto cinque mesi dall’uscita di Something Out of Nothing, è arrivato il nuovo EP She’s So Nice (Cooking Vinyl). Per l’occasione, abbiamo chiacchierato con lui, che ci ha raccontato come nascono e si formano le sue canzoni.

 

Sei appena ventunenne ma hai già all’attivo una serie di pubblicazioni solida ed eterogenea: puoi raccontarci del tuo percorso artistico?

“Certo, ebbene… Ho cominciato a fare cose da solista quando avevo sedici anni, essendo stato solo in gruppi fino ad allora. Volevo fare qualcosa di super semplice e giusto per divertimento, per provare a vedere com’era il processo produttivo. Mi è piaciuto tantissimo e non mi sono più voltato indietro. Ho una regola molto severa che ogni canzone del mio repertorio deve essere unica. In questo modo ogni canzone parla da sé e io non mi ripeto. Questo è molto importante per me come artista e se qualcosa non soddisfa questo criterio non viene pubblicato. Molti dicono che scrivere quante più canzoni puoi è l’approccio giusto, ma personalmente non sono d’accordo — preferisco di gran lunga metterci più tempo a scrivere un pezzo, e fare in modo che sia il miglior pezzo che può essere, permettendo alla canzone di formarsi da sé in modo naturale prima di andare oltre.”

 

Cosa preferisci del tuo ultimo EP (She’s So Nice, NdR)?

“Penso l’assortimento di stili, emozioni e suoni. Questa è un’altra cosa molto importante per me — avere la più ampia gamma possibile di sentimenti attraverso un progetto. Mi piacerebbe pensare che ci sia qualcosa per tutti.”

 

In che cosa il suo contenuto si distingue dalle canzoni precedenti?

“Direi che è più prodotto. L’ultimo EP Something Out of Nothing e questo She’s So Nice sono stati fatti insieme, perciò sono fondamentalmente una coppia, o un unico corpo di canzoni. Prima di questi due EPs, comunque, ero solito farmi influenzare molto dal jazz. Adesso mi faccio influenzare di più dall’hip hop.”

 

Che cos’è che ti ispira?

“La natura è sempre stata una forte fonte d’ispirazione per me. Crescere vicino al mare e nella campagna inglese mi ha decisamente influenzato a tenere le cose più naturali possibile e a non processare troppo gli strumenti o la mia voce. Altre fonti di ispirazione possono essere qualunque cosa da una canzone, un libro, un’esperienza divertente, una conversazione o veramente qualsiasi cosa! Provo solo a fare nuove esperienze — che bisogna ammettere essere stato davvero molto difficile durante lo scorso anno.”

 

Sei uno degli artisti dell’anno per il 2020, un grande traguardo dato il periodo in cui ci troviamo. Come stai vivendo questi tempi non facili?

“Sono stati molto fortunato ad aver messo in piedi il mio studio per registrare questi EPs prima della pandemia. È veramente stata un’ancora di salvezza in quanto posso continuare a fare musica e a lavorare su progetti senza alcun costo. È qualcosa che davvero raccomando a tutti quelli che possono permetterselo, di provare e mettere insieme un qualche cosa in modo da essere autosufficienti come artisti. È stato difficile rimanere ispirato e la quantità di contenuti che giravano ovunque è stata davvero sfiancante. Adesso sono decisamente pronto e non vedo l’ora di andare avanti verso qualsiasi cosa il futuro riservi.”

 

Marta Massardo

Tre Domande a: Ianez

Come e quando è nato questo progetto?

Il progetto Ianez nasce appena due anni fa al tavolo di un locale in compagnia di un paio di birre e due amici: Fabio Tumini e Lorenzo D’Annunzio. Un incontro fortuito, niente di pianificato, volevamo farci una chiacchierata dato che non ci vedevamo da tempo. Io e Lorenzo per un bel periodo avevamo suonato insieme in una cover band locale per poi prendere direzioni diverse, io sono uscito con un romanzo, Sette foglie di Oleandro, e lui si è dato allo studio del contrabbasso. Fabio invece aveva avviato la Satellite Rec e probabilmente gran parte del merito è suo se oggi Ianez non è solo l’argomento di una serata. Il giorno dopo siamo andati da lui in studio ad ascoltare i beat, le basi che stava producendo ed erano pazzesche, la collaborazione è nata spontaneamente. Così nascono le cose belle, per caso.
Siamo stati noi il brano che dà il via al progetto lo abbiamo registrato più o meno una settimana più tardi e la cosa più difficile è stata raggiungere il giusto sound, la miscela che accontentasse tre paia di orecchie abbastanza differenti tra loro.
Alla fine i nostri diversi modi d’interpretare la musica si sono rivelati un valore fondamentale per definire le sonorità, lo stile dei brani.

 

Ci sono degli artisti in particolare a cui ti ispiri per i tuoi pezzi?

Artisti in particolare no, non di proposito almeno. Ascolto tantissima musica di generi diversi, da Bill Evans ad Achille Lauro, dai Talking Heads agli Zen Circus ma se dovessi dire un artista di riferimento non saprei proprio cosa rispondere. Prendo ispirazione più da un periodo o da una corrente. Nei brani si possono percepire gli anni ’80, c’è un’influenza elettronica britannica, testi tra il cantautorato e il rap e ancora altre dimensioni. Questo arriva da un frullato di tutto, da ascolti sparpagliati nel tempo. 

 

Se dovessi riassumere la tua musica in tre parole, quali scegliereste e perché?

Questa è una domanda complessa.
Nei miei testi descrivo delle scene, dei momenti cercando di rendere le parole immagini, come tante fotografie che vanno a formare la trama del racconto, quindi posso dire che fotografica è una giusta definizione.
Nei pezzi c’è sempre qualche suono ipnotico che si ripete costantemente, nel caso di Minerva ad esempio è una specie di sirena che rafforza il messaggio della canzone. Quindi ipnotica.
Intima per ultima. Nei testi c’è del personale anche quando non lo faccio trasparire, anche in quelli che sembrano diciamo distratti c’è nascosto un ricordo, un trascorso bello o brutto che sia. Alcune volte uso delle metafore per parlare d’altro come per le canzoni d’amore che in dei casi si scostano dall’idea canonica del sentimento senza perdere di significato. 

Le Endrigo “Le Endrigo” (Garrincha Dischi, 2021)

Manifesto post punk per disagiati

 

25 marzo 2021
“Oggi muoiono Gli Endrigo.
Oggi nascono Le Endrigo.
Perché?
In un mondo in cui un articolo determinativo fa ancora la differenza e comporta privilegi, noi scegliamo di liberarcene e unirci al coro e alle battaglie di chi li vuole sradicare.”

Questo l’annuncio ufficiale che hanno lanciato Le Endrigo ad un mese dall’uscita del nuovo disco Le Endrigo, anticipato dai singoli Infernino, Smettere di fumare, e la dolcissima e malinconica Anni Verdi.

Le “sorelline” Tura (Gabriele voce, Matteo chitarra, basso e tastiere) e la loro amichetta Ludo (Ludovico Gandellini alla batteria) sono la risposta umana sensata a er Faina: sono i Guerrieri dei nostri tempi, cavalieri senza mantello né destriero, pronti a difendere il più debole con una sola arma: la musica. E cercano di abbattere gli stereotipi sulla musica stessa, abbracciando davvero l’idea punk: la protesta. 

Disapprovano una società prevalentemente maschilista, omofoba, razzista, e non hanno paura a dire ciò che pensano.

La lotta contro l’omofobia e la mascolinità tossica è espressa al meglio in due brani. 

Il primo, Cose più grandi di te, con uno stile Verdena, un basso favoloso, frasi tipo “Piangere è da gay” è un attacco aperto alla mascolinità tossica, che ripudia ogni sentimentalismo, e punta ad una società dove “i ragazzi fanno i ragazzi”, dove ognuno ha il suo ruolo prestabilito.

L’altro brano è Stare Soli, una ballata sfrontatamente ritmica, e con la frase “La mia debolezza è uno stile di combattimento” distrugge l’idea dell’uomo “che non deve chiedere mai”, del prototipo maschile duro e privo di emozioni.

Manifestano la loro volontà di esprimersi. Il fatto è questo. Quando avevamo quindici anni eravamo convinti che essere ribelli significasse urlare e spaccare cose. Arrivati ai trenta ci siamo (quasi) stancati di urlare, e abbiamo solo voglia di dire quello che pensiamo, nei modi che riteniamo più giusti. 

Le Endrigo si prendono la libertà di essere sé stessi, senza la pesantezza di sentirsi incasellati dentro ad un genere musicale in cui ci si aspettano sempre lavori molto heavy, pesanti e punk. 

L’eterea malinconia nella voce di Gabriele (già nota nel singolo Anni Verdi, Infernino) è alternata a pezzi vecchio stile, sia nei titoli (Standard rock per chi ci ascoltava prima…; Il cazzo enorme di chi suona) che nelle sonorità. Un lunghissimo errore, sesto brano dell’album, è energia allo stato puro. Qui ci odiano tutti e a casa non apro a nessuno… Un pezzo che ti fa venire voglia di pogare. (per ora, col divano…).

La vera chicca dell’album è la prima canzone, Io non sono capace. Più che una canzone è un’ammissione di colpa. Il manifesto di una generazione disagiata, con evidenti problemi relazionali. Ci ritroviamo a festeggiare trent’anni senza capire come cazzo ci siamo arrivati. Quelli che sentono di non essere adatti alla vita e che soprattutto non si riconoscono negli obiettivi che ci prefissa la società. Quelli che hanno tanti amici, e nonostante tutto la solitudine li accompagna sempre.

Questo album rappresenta l’evoluzione non solo musicale di questi baldi giovani, ma anche quella spirituale, cercando di staccarsi da quello che la società vuole imporci come standard di comportamento. 

Le Endrigo sono disagio, urla, poesia, emozioni, cuore.

 

Le Endrigo

Le Endrigo

Garrincha Dischi / Manita Dischi

 

Marta Annesi

Tre Domande a: Luzee

Come e quando è nato questo progetto?

Il progetto nasce nel 2016 e si ufficializza poi nel 2017 con la pubblicazione del primo album Waterdrops.
La mia è una formazione da musicista, inizio a suonare il basso elettrico nel 2000 e da allora ho sempre suonato nelle band ma a un certo punto ho sentito l’esigenza di uscire dal ruolo di bassista e cercare di esprimermi attraverso composizioni che fossero realizzate da me. La spinta a fare questo passo me l’ha data la scoperta del campionamento che mi ha letteralmente risucchiato nel mondo del beatmaking. A questo sommaci il fatto che mi è sempre piaciuto molto anche l’aspetto legato alla tecnica del suono ed al mixaggio, quindi la produzione è diventata subito una bella sfida che metteva insieme tante parti di me.
Ho poi iniziato a sviluppare un suono che cercasse di rappresentarmi e rappresentare ciò che provavo.
È stato uno dei periodi più belli della mia vita, una sorta di rinascita in cui scoprivo continuamente cose nuove che mi entusiasmavano e questa energia positiva mi ha portato anche a incontrare tante persone stimolanti durante questo percorso.

 

Progetti futuri?

Parlando di futuro prossimo spero di poter suonare dal vivo questo disco e poi se dovessi proiettarmi in avanti sento l’esigenza di alzare i bpm e far ballare di più, soprattutto ai live, perché dopo questo periodo infame credo che avremo tutti voglia di sfogarci e di ballare, io per primo. Sul fronte della produzione invece sto lavorando insieme a Subconscio alla realizzazione del suo secondo disco. Chiaramente con tutti i rallentamenti dovuti al COVID, ma siamo molto contenti del sound che sta venendo fuori.

 

Come ti immagini il tuo primo concerto live post-pandemia?

Con la gente appiccicata sotto al palco che si prende bene, balla, beve, si abbraccia e si bacia. Almeno questo è quello che spero perché è difficile immaginarsi come saranno le cose post-pandemia ma me la voglio immaginare così.

Tre Domande a: Nicholas

Come e quando è nato questo progetto?

Il progetto è nato in modo completamente  inaspettato. Esattamente due anni fa ho deciso insieme a Filippo Colombo e al produttore e chitarrista Andrea Brussolo di registrare alcune mie canzoni, senza un obiettivo preciso ma solo con l’idea di riascoltare tra 30/40 anni qualcosa che rappresentasse la mia infanzia.
Una sera del Novembre 2020 per caso navigando su internet ho trovato la pagina di una piattaforma chiamata Indieffusione, dedicata alla promozione della musica emergente. Così ho deciso di postare delle canzoni che avevo registrato l’anno precedente. Dopo meno di una settimana sono stato contattato da Francesco Tosoni, ideatore di Indieffusione, il quale era rimasto positivamente colpito dalle mie canzoni, in particolar modo da Parole poco libere. Insieme abbiamo deciso di apportare alcune piccole modifiche alla canzone e così è nata la versione attuale del pezzo.

 

Ci sono degli artisti in particolare a cui ti ispiri per i tuoi pezzi?

Ci sono degli artisti che ascolto spesso e che ammiro per la loro capacità di trasmettere emozioni, tra cui Tiziano Ferro, Marco Mengoni, Mia Martini, e altri di cui invece apprezzo molto l’abilità di scrittura, come Ultimo, Ermal Meta e Federica Abate.
Tuttavia, in generale non traggo mai ispirazione dai singoli cantanti, ma dalle canzoni in cui trovo qualcosa che mi colpisca e mi emozioni, tentando una sorta di emulazione.

 

C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare?

Un artista con cui mi piacerebbe molto collaborare è Marco Mengoni. Personalmente, ritengo che il vero valore aggiunto di Mengoni sia la sua capacità interpretativa, di trasmettere sul palco sempre un senso di enorme profondità in ciò che canta. Potrebbe cantare anche una sigla di cartoni animati e riuscirebbe comunque a trasmettere forti emozioni.

Tre Domande a: Piqued Jacks

Se doveste riassumere la vostra musica in tre parole, quali scegliereste e perché?

Energia, sincerità, ambizione.
Energia. Viviamo (vivremmo, se potessimo) per il palco e per quello il live ci dà ogni volta. La nostra musica è fatta per essere suonata e condivisa davanti ad altre persone, per scambiare con loro – appunto – le nostre energie.
Sincerità. Atteggiarci per sembrare chi non siamo non fa per noi, siamo sempre stati genuini sia nel modo di essere ma anche di suonare. Crediamo che essere se stessi sia un punto di forza anziché qualcosa da mascherare, un po’ in controtendenza con la logica abbastanza diffusa dell’apparire e del prendersi forse troppo sul serio.
Ambizione. La nostra storia e il nostro percorso sono abbastanza esaustivi in questo senso; ad ogni disco ed ogni tour abbiamo sempre cercato di alzare l’asticella, confrontandoci con realtà sempre più importanti e internazionali. Sappiamo dove vogliamo arrivare e siamo consapevoli delle nostre qualità.

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

Tutto quello che abbiamo appena descritto, condividere in maniera molto naturale ogni aspetto del nostro mondo, trasmettere quello che la musica dà a noi senza nessun filtro di mezzo. Vorremmo instillare curiosità, aiutare le persone a capire che esiste un grande sottobosco di musica non mainstream con una sua bellezza e un fascino che ha bisogno di essere esplorato e portato alla luce. Ci piacerebbe che arrivasse il nostro messaggio di positività e resilienza, che ci permetta di connetterci con chi ci ascolta attraverso i testi e la nostra visione della vita.

 

C’è un artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare?

Domande del genere sono sempre pericolose perché danno sfogo ai nostri sogni più reconditi e alle idee di featuring più assurde, però stavolta mentre pensavamo ai vari Beck, Jack Black, Ozzy Osbourne, Toyah Willcox e Steve Lukather, avevamo la TV accesa ed è arrivata l’illuminazione. Vi diciamo Seth MacFarlane, il creatore dei Griffin. Da fan della serie, arrivare ad un livello tale da essere inseriti in un flashback politically (s)correct dei Griffin e magari poterci ridoppiare in inglese maccheronico, sarebbe un sogno che si avvera.

Spiderland fa 30 anni ed io mi rompo un piede. Una storia ricorsiva.

Fact: stamattina credo di essermi rotto mignolo (e forse anulare) del piede sinistro, cocciando violentemente contro il divano, il quale, poveretto si trova da svariato tempo in quella posizione del soggiorno ma che stamattina per un qualche remoto motivo ha deciso di frapporsi fra me e la mia destinazione;

Fact #2: due anni fa grossomodo mia mamma ha inopinatamente preso l’iniziativa di cestinare la maglietta degli Slint che avevo acquista al TPO di Bologna il 5 marzo 2005 ed è accaduto solamente perché per lavori in corso nella mia futura casa ero stato costretto ad un trasloco temporaneo, giusto per precisare;

Fact #3: molti anni prima del concerto di cui sopra, con ogni probabilità a ridosso dell’uscita del disco che oggi di anni ne fa 30, l’io bambinetto di quasi 10 anni, fuggendo dalle grinfie della sua (che sarebbe mia) mamma (la stessa di prima), con un improvviso cambio di direzione causò la frattura (o slogatura, ora non ricordo l’esito degli esami strumentali che vennero effettuati all’epoca) della di lei caviglia. Ricordo che col fiatone mi voltai a guardare il misfatto. E allora pensai “Ti sta bene, così siamo pari per quella volta, tra 20 anni circa, in cui deciderai di buttare la mia maglietta più preziosa (che aveva un minuscolo forellino sulla schiena, NdA). Aveva le date del tour sulla schiena. Davanti La Foto. Quella. Quella della copertina.

Era bellissima.

Non credo di averla ancora perdonata.

Ora.

Tutto sto preambolo per dire cosa?

Beh c’è senza dubbio una certa ricorsività in tutto ciò, perché esce Spiderland e mia mamma si azzoppa, Spiderland fa 30 anni e mi azzoppo io. Più o meno a metà quel concerto che resta uno (IL?) dei momenti più memorabili della mia vita. Perché dai, diciamocelo, gli Slint erano sciolti da tempi immemori, non era a memoria ancora partita sta corsa al tour evocativo che poi è stata una pratica iper abusata negli ultimi anni (sia chiaro, non sono affatto contrario a queste iniziative, anzi: c’ero per i Built To Spill, per i Black Heart Procession, per i Neutral Milk Hotel e molti altri), per cui quando credo sul retro di Rumore o di qualche rivista del genere lessi della notizia fu uno shock (sì, first reaction), perché accadeva qualcosa che al tempo non credevo sarebbe mai stata possibile (di fatti poi, al live dei June of 44 di qualche anno fa fui meno sorpreso e un po’ anzi ricordo che fuori dal Locomotiv mi atteggiavo e fingevo disinteresse perché avevo uno storico alle spalle, ma in realtà a Information and Belief stavo piangendo).

E poi che altro. Non lo so, è difficile da dire. Utilizzo quella copertina per tutti i profili social attualmente in uso, ho un pseudo blog chiamato For Dinner, non sono mai stato a Louisville nel Kentucky e quei 39 minuti li conosco meglio di ogni altra cosa con la quale io abbia mai avuto a che fare. 

E anche oggi, e trent’anni dall’uscita, a diciamo 19, 20 dal primo ascolto, trasalgo spesso, e grossomodo negli stessi punti, che sono molti, e ne voglio scegliere uno per traccia:

su Breadcrumb Trail all’attacco di “Spinning ‘Round, my head begins to turn. I shouted, and searched the sky For a friend”. Perché quel motivo lo hai già sentito da poco, ne sei ancora rapito, poi c’è quel piccolo intermezzo recitato e poi di nuovo giù nell’abisso ed io sinceramente ancora oggi fatico a contenere tanta bellezza;

su Nosferatu Man quasi tutta la seconda parte, quel lungo intervallo solo strumentale, perché se lo ascolti in cuffia e ti concentri sul ritmo che imprime la batteria le chitarre ti danno un effetto così straniante che rischi di perdere il pieno possesso delle facoltà mentali;

su Don, Aman mi fa impazzire che sia una canzone che si regge su due sole chitarre, nient’altro. E il momento in cui attaccano le distorsioni al termine del crescendo di “Don left, And drove, And howled, And laughed, At himself. He felt he knew what that was”. I classici momenti epici e dove trovarli. Ah, per inciso le chitarre sono una di Pajo, eh vabbè, e l’altra è di Britt Walford, che nelle altre cinque sta dietro le pelli (e la foto che vedete, scattata da me medesimo, è proprio relativa a questo brano;

su Washer cosa dire… sarebbero così tanti i momenti da segnalare che dico che il passaggio “Wash yourself in your tears / And build your church / On the strength of your faith” è illegale sia stato partorito da un ventenne;

su For Dinner, che è la cosa più bella successa alla musica in ogni tempo (fino al 16/09/2005 e non dirò mai perché a meno che qualcuno non arrivi con la risposta) l’ipnotico finale, da 4:11 a 4:51 grossomodo (dio mio quanto adorò la serialità);

per la conclusiva Good Morning, Captain non dirò quel disperato “I miss you”, no. Troppo ovvio. Ciò che mi fa impazzire è quello che accade poco prima, dal minuto 6:01 fino al finale, il crescendo orchestrato dalla batteria di Walford, che per tre giri tiene le briglie corte agli altri tre, dosando i colpi, per poi mollare tutto al quarto e scatenare il pandemonio, ed il resto è storia.

Il finale non c’è perché devo fare ghiaccio perché qua se non migliora la situazione mi tocca andare a fare una visitina al Pronto Soccorso a fare un paio di radiografie.

 

Alberto Adustini

Tre Domande a: Lumache Rosse

Come stai vivendo questi momenti così difficili per il mondo della musica?

Sinceramente male. Momento difficilissimo per il mondo in sé e di conseguenza per la musica che è una delle sue diramazioni più dirette. Io come tutti coloro che si esprimono in questo modo, vivo un periodo incerto. Noi tutti viviamo di emozioni, ed è difficile provarle in questo momento.
Sono sincero nel dire che le prime giornate in cui obbligatoriamente dovevamo stare rinchiusi, mi hanno fatto bene. Venivo da un periodo di forte repentinità in cui raramente riuscivo a trovare del tempo per me. La prima esperienza è stata positiva, necessitavo di tempo per riflettere; desideravo quella condizione momentanea per ristabilire l’ordine interno e dedicarmi a quello che dovevo fare. Certo che appena quella momentanea sosta si è tramutata in mesi, ad oggi in più di un anno, non è più stata e non è una condizione piacevole.
Penso di viverla male come tutti. Guardo molti film e mi fa strano vedere le scene per strada, dove la gente si abbraccia; quello che era la normalità ora pare inusuale.
Oggi è dura, con continui spiragli di apparente quiete per poi ritornare nuovamente rinchiusi; è un continuo sbalzo altalenante che fa perdere la fiducia e fa scendere il morale. Vivo di tisane che mi scaldano e mi tengono quieto, con sottofondi ambientali e pacati per sovrastare i caotici rumori di città.
Il mondo si è fermato e noi con lui; molti locali storici hanno chiuso e il sipario dello spettacolo si è inginocchiato. A volte penso ai vari tour interrotti e spero di veder presto la luce alla fine di questo tunnel.

 

Come è quando è nato questo progetto?

In realtà questa storia non penso di averla mai raccontata fino in fondo: questo progetto è nato nel 2015, quando conobbi per caso un certo Ciga, un amico di amici; entrammo subito in sintonia, vivevamo esperienze folli e bevevamo vino ascoltando la stessa musica.
Un giorno ero solo in camera mia con un ukulele, acquistato qualche giorno prima, ad un certo punto suonando le prime quattro note che impari è uscita una canzone, che ho subito registrato con un messaggio vocale, mandandola a lui; mi chiese di chi fosse, io gli risposi mia. Mi ha chiamato immediatamente dicendomi che era una delle cose migliori che avesse mai sentito. Da allora ci trovammo spesso dopo i pomeriggi delle superiori a casa mia, a casa sua, nei prati, nelle case di altri. Io suonavo e insieme davamo voce a quelle parole scritte dalla mia penna.
Registravamo in cantina con un computer vecchissimo, con una ventola che surclassava il volume della nostra voce, fuori tempo, stonati, ma quello che usciva era speciale, per noi e per i nostri amici.
Lumache Rosse era il nostro nome, nato da un disegno di Domer (un altro nostro socio). Scrivevo principalmente io, ma eravamo un duo e la sua presenza era tanto essenziale quanto la mia. Forse non avrei mai scelto questa via senza il suo supporto e nel suo apparente silenzio, mi dava la forza per urlare. Le prime nostre canzoni le abbiamo pubblicate su YouTube.
Come spesso accade, ad un certo punto le nostre strade si sono divise; Ciga sarebbe partito per l’Australia e alla festa per il suo addio abbiamo litigato per vari motivi.
Ho deciso di continuare, prendendo atto di tutte quelle piccole sfumature che mi avevano portato fino a lì. Ero solo, ma tenni il nome plurale, perché le persone possono anche allontanarsi, ma si insediano dentro a dei solchi profondi nella nostra vita, senza mai andarsene davvero.
Ho deciso di registrare nuovamente tutti brani e racchiuderli in un EP, titolato Via Cavour’, uscito nel 2018; Via Cavour è una delle parole contenute nella canzone che anni prima gli mandai in quel messaggio vocale.
Io e Ciga ci siamo riappacificati e ancora oggi mi supporta.

 

Progetti futuri?

Sto lavorando a un album da più di due anni ormai; la pandemia ha notevolmente rallentato la produzione e la possibile uscita, ma siamo a un buon punto. Quando sarò pronto, lo farò uscire.
È una tappa importante e vorrei che fosse valorizzata al meglio; racchiuderà i quattro singoli già editi, Rondine / Polvere / Ragnatela / Pale Eoliche, con altri brani di questo stampo che parlano dello stesso periodo di stesura. Mattia Tavani, il risolutore dei miei problemi, è il produttore che sta curando queste uscite ed è un onore lavorare con un artista che stimo moltissimo, così come i miei soci Riccardo e Alberto, hanno contribuito a rendere tutto questo reale, ma soprattutto speciale.
Lo ritengo una tappa essenziale, solo quando potrò condividerlo con tutti passerò al livello successivo.

Sanremo 2021: Apologia di un Festival

Disclaimer: in questo articolo si parlerà solo di musica. Eviterò quindi i riferimenti a siparietti, politica e monologhi vari su qualsiasi questione perché non è questa la sede.

 

“Non credo di esser superiore/anche io guardo Sanremo” cantavano nel 2011 gli Zen Circus ne I Qualunquisti, una canzone che come poche riassume l’essenza del nostro paese. Ed è vero, perché ogni anno questo concentrato di italianità in mondovisione (e viene anche omaggiato in tutto il mondo) tocca vette altissime di share e unisce un’intera nazione sotto il segno della ballad. 

Ma c’è un però.

Da qualche anno a questa parte, infatti, il “genere Sanremo” è andato in crisi. Un genere che ha dei canoni ben precisi e sono convinta che tutti voi, sentendo questa parola, abbiate già in mente un tipo di canzone in particolare. È quindi per questo che la kermesse sta spopolando sempre di più nella fascia 18-25 — basta farsi un giro su Twitter per rendersene conto — contro qualsiasi pronostico. 

Da un lato abbiamo il tentativo, quest’anno più forte che mai, di svecchiare il festival con artisti giovani, freschi, usciti spesso e volentieri da club e locali vari. Nomi come Fulminacci, Madame, La Rappresentante Di Lista, Coma_Cose che, al momento della presentazione dei cantanti in gara a Dicembre, hanno piacevolmente sorpreso me e lasciato un po’ sbigottita mia madre, che invece continuava a chiedersi chi fossero. 

Il target è cambiato, e di conseguenza anche la musica è cambiata. Certo, non possiamo prescindere del tutto dalla quota “Tipica Canzone Sanremese”, ovviamente presente e apprezzata in particolare dalla giuria demoscopica, ma c’è anche stata varietà. L’egemonia culturale della ballad è stata sconfitta e i premi assegnati sono uno specchio di questo cambiamento: non a caso abbiamo avuto miglior testo a Madame (così come lo vinse Rancore lo scorso anno, uno dei primi a portare il rap all’Ariston), ma soprattutto dobbiamo parlare dei vincitori. 

I Måneskin.

Possono piacere o no piacere (io personalmente ho la loro canzone a rotazione da martedì) ma è innegabile che siano dei performer clamorosi. Nel 2016 aprirono gli Imagine Dragons al Milano Rocks davanti a 60.000 persone, sotto un diluvio universale, e tennero il palco come se lo facessero da tutta una vita. Sono spavaldi, energici, sopra le righe e forse non saranno una rivoluzione nel panorama mondiale della musica, ma per il Festival sicuramente lo sono, quindi la loro vittoria può solo che farmi piacere (e darmi speranza per l’Eurovision di maggio).

Insomma, è stata premiata una band che fa un genere che non ha niente a che vedere con lo standard festivaliero, in cui il cantante è classe ‘99 (ha la mia età e qui devo ripetermi: il target è cambiato, la rappresentazione è cambiata con buona pace di chi si lamenta) e che durante la serata cover si è esibita con Manuel Agnelli, quindi se lui ci vede qualcosa, chi sono io per negarlo.

Ma non è solo lo svecchiamento della scaletta a far sì che a 21 anni qualcuno pensi che sia una buona idea fare nottata per seguire Sanremo. 

Perché Sanremo, come tutta la TV da qualche anno, sa che lo show (sì, lo show, perché non dimentichiamoci che non c’è solo la musica in ballo, ma è un evento di portata mondiale) non lo fai soltanto in televisione, ma anche e soprattutto su internet. 

Guardare il Festival — o per i più assennati solo le performance il giorno dopo, riducendo così i tempi di un terzo — significa avere accesso alla quantità stratosferica di meme, video e in generale contenuti prodotti sul web. Insomma, senza aver visto la performance di Aiello della prima sera, il video in cui il suo pezzo è stato ridoppiato con la voce del signore di “signora i limoni” perde di significato e magia. 

E sono proprio i meme a far sì che anche le vecchie, vecchissime glorie — da Ornella Vanoni a Donatella Rettore passando per Orietta Berti (che sono sempre più convinta sia stata invitata per la quota meme e non per far piacere al vecchio pubblico target) — abbiano un seguito enorme e creino più interazioni di molti altri che invece non hanno lo stesso potenziale sfruttabile da internet.

Insomma, il Festival può piacere o meno, ma è anche vero che negli ultimi anni si sia ricreduto anche chi non avrebbe mai pensato di guardarlo perché “è sempre la stessa musica”.

E invece, fortunatamente, la musica sta cambiando. 

 

Francesca Di Salvatore

Foto di Copertina: Instagram @maneskinofficial

La Rappresentante di Lista “My Mamma” (Woodworm, 2021)

Quando penso a La Rappresentante di Lista, immagino un abbraccio tra l’arte e la politica e quando ascolto My Mamma, il quarto album del duo composto da Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina, mi immagino come una donna resistente.

My Mamma è un disco che ha deciso da che parte stare, che si schiera. È un disco libero, fluido, accogliente e pieno di spigoli” ha scritto La Rappresentante di Lista sul suo account ufficiale di Instagram, ponendo nuovamente l’accento sul tema della fluidità. Il gruppo ha dichiarato più volte di non voler essere definito con un genere specifico e quindi Lucchesi, Mangiaracina e la loro band hanno preso in prestito dalle rivendicazioni sull’identità sessuale il termine “queer”, che indica una non conformità alla cultura predominante e che descrive la loro musica. 

L’album mette al centro la figura femminile e lo annuncia con una copertina esplosiva che ritrae un nudo che gravita intorno alla vulva in primo piano: un’opera dell’artista palermitana Manuela Di Pisa, che si è ispirata a L’origine del mondo di Gustave Courbet. L’immagine richiama la vicinanza del gruppo alle lotte femministe attuali. Nel formato fisico sono previste tredici tracce, tra cui tre brani strumentali (Preludio, Lavinia e Invasione) che, invece, non sono presenti nel formato digitale. 

Alieno, uscito il 12 febbraio, è il primo singolo di My Mamma e con tutta la potenza della voce di Veronica Lucchesi, racconta la voglia di sconfiggere il dolore e provare amore. La Rappresentante di Lista su Instagram ha affermato che “Alieno è una canzone fuori posto, racconta di quando ci si sente a pezzi, avvilite, presi a botte dalla vita, spaesate”. Con il ritmo incalzante e il ritornello “Sono più forte del piacere, sono l’amore/Sono più forte dell’amore, sono il dolore/Sono più forte dеl piacere, sono l’amore/Sono più fortе dell’amore”, è difficile restare fermi. Si conferma, quindi, quella che per molti ormai è una certezza: La Rappresentante di Lista fa riflettere, ma fa anche ballare. Certezza che, peraltro, è arrivata anche sul palco del Festival di Sanremo con Amare e con la presenza scenica grintosa di Veronica Lucchesi, ben nota a chi ha assistito ai concerti del gruppo. 

Se si vuole fare una riflessione sull’attualità, non può mancare il tema dell’ambiente. Sarà è una canzone che parla della fragilità del pianeta che si riflette inevitabilmente nella dimensione individuale dei suoi abitanti e nella collettività. Il brano si apre con i drammatici versi “Sarà che la mia terra lentamente/Smette di respirare.”

Ma arriviamo ora alla canzone forse più emotiva di tutto l’album: Resistere. Le prime note accompagnano l’ascoltatore verso una strofa parlata che poi si apre nell’armonia del canto “Voglio provare ad esistere/La mia natura è resistere/E non mi importa di perdere/Quello che mi serve adesso è vivere.” A un certo punto, la voce di Veronica Lucchesi sovrasta la musica con quello che si potrebbe definire un monologo recitato, una riflessione carica di dolore e speranza. “Cosa vuoi che ti dica?/Sono a pezzi ma vado avanti.”

My Mamma è un viaggio introspettivo, un album che racconta il dolore, la fragilità e la voglia di andare avanti e amare, aiutandoci a conservare la voglia di ballare, che di questi tempi è tutt’altro che scontata. La Rappresentante di Lista ha scritto una storia travolgente che abbraccia l’attualità e la politica e noi dovremmo ascoltarla nell’attesa del primo concerto possibile. 

 

La Rappresentante di Lista

My Mamma

Woodworm

 

Marta Massardo