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Anno: 2021

Julien Baker “Little Oblivions” (Matador Records, 2021)

“Chiedo perdono in anticipo per tutto ciò che manderò in frantumi in futuro”. 

Wow.

Si presenta così Julien Baker nella furiosa Hardline, apertura del suo nuovo Little Oblivions, terzo album della musicista americana.

Dopo un esordio magnifico con Sprained Ankle, ed un seguito letteralmente clamoroso di quattro anni fa, Turn Out The Lights, attendevo con grande, grandissima attesa questo terzo capitolo, non fosse altro perché in Julien Baker ho sempre visto la prosecuzione naturale di ciò che per me rappresenta Shannon Wright, ovvero musica viscerale, cruda senza essere rozza, diretta eppur elegante, al bisogno.

Little Oblivions fuga da subito un primo, possibile dubbio: Julien Baker è ancora ispirata, ha una facilità di scrittura disarmante; per dirla alla Keaton Henson “I still have art in me yet”, un disco che rimane con la giusta dose di tensione e lirismo per tutte e dodici le tracce, non si ha mai l’impressione di essere di fronte a riempitivi, o brani tappa buchi. Anzi. è compatto senza risultare piatto e il cui unico limite, se vogliamo trovarne per forza uno, è l’assenza di un acuto, inteso nell’accezione di brano totalmente superiore alla media, come potevano essere Appointments o Claws In Your Back nel precedente lavoro.

Probabilmente Little Oblivions è nella sostanza un concept album senza necessariamente esserlo nella forma, portando avanti temi centrali nella produzione bakeriana, quali dipendenza o depressione, “Until the I’ll split the difference / Between medicine and poison” in Hardline o nella successiva Heatwave, “I was on a long spiral down” lasciano pochi spazi d’interpretazione.

Faith Healer, con un arrangiamento molto meno banale di quanto un primo ascolto farebbe immaginare, contiene echi della Baker degli esordi, al contrario di Relative Fiction, più matura e per certi versi controllata, dalla quale emerge ancora con più forza la situazione di fragilità e contestuale consapevolezza della propria persona, capace di ammettere che “I won’t bother telling you I’m sorry / For something that I’m gonna do again”.

Torna a dispiegare molta della sua sconfinata potenza vocale nella tenebrosa Crying Wolf ma poi arriva Bloodshot, magnifica e martellante, quasi asfissiante nel suo incedere incalzante, con quel “There’s no one around / who can save me from myself” e il conclusivo, terribile “Drag me away in the dark / take me and tear me apart”.

Capita quando si ha a che fare con quelli bravi davvero di trovarsi di fronte a combinazioni di suoni, immagini e parole che mozzano il fiato per la potenza espressiva di cui sono capaci. E nel caso della Baker parliamo di una musicista che vanta collaborazioni con artisti di enorme valore, e le Boygenius (il trio del quale fanno parte anche Lucy Dacus e Phoebe Bridgers e delle quali la star, checché se ne dica, è Julien) sono solo una di queste; i Frightened Rabbit del compianto Scott Hutchison per dirne uno, o Matt Berninger dei National, o i Manchester Orchestra. 

Comunque si volge verso il finire del disco, con i cori di Ringside o la tambureggiante Favor, per giungere a Song in E, mia personale scelta tra tutte, per la sua durezza e quasi disperazione, per quegli accordi di tastiera, per quella fredda sincerità che mi riporta ai momenti più personali di Cat Power.

Sono gli incubi ricorrenti (che si entri in zona Lisa Germano?), o forse sono sogni, quelli che affollano Repeat, ed il travolgente finale di Highlight Reel fa da preambolo alla conclusiva Ziptie, quasi una preghiera, un’invocazione, “Good God / When you’re gonna call it off / Climb down off of the cross / And change your mind?”.

 

Julien Baker

Little Oblivions

Matador Records

 

Alberto Adustini

Tre Domande a: Alessandro Martinelli

Come stai vivendo questi momenti così difficili per il mondo della musica?

È stata una bella botta. Ho avuto la fortuna di trasformare la mia passione in lavoro, e negli ultimi cinque anni mediamente suonavo almeno due, tre volte al mese in giro per il mondo. Ti senti vivo. Conosci costantemente nuove persone, nuove culture, nuovi ambienti. Viaggiare ti apre la testa, se in più lo fai perché il tuo lavoro te lo consente, sei in uno stato di grazia. Quando tutto questo è venuto a mancare mi è crollato il mondo addosso. I miei viaggi in aereo erano diventati i sei passi che facevo tra camera da letto e sala, le mie cene con amici e promoter erano diventati un piatto di pasta in solitudine davanti a YouTube e i momenti dietro la consolle erano diventate le ore passate al piano in casa. Un senso di vuoto ti pervade. Solo il piano è riuscito ad aiutarmi a superare questo brutto ed incerto momento.

 

Come è quando è nato questo progetto?

Ho avuto bisogno di buttare fuori. Ho percepito la necessità di spogliarmi in qualche modo. E ho avrei voluto mostrare anche il mio lato più introspettivo. Durante il primo lockdown mi sono ritrovato chiuso in casa, solo, con una storia d’amore appena finita. Malinconia, solitudine ed incertezza hanno preso possesso del mio corpo e mi hanno spinto a portare avanti brani che già avevo ideato ma soprattutto di scriverne di nuovi.

 

Se dovessi riassumere la tua musica in tre parole, quali sceglieresti e perché?

Solitudine, Malinconia, Rinascita. Sono i sentimenti che più mi hanno accompagnato durante la creazione di questo album. E’ stato un percorso: mi sono sentito profondamente solo, da solo con il mio pianoforte, ho provato tristezza e rassegnazione, ma è suonando che sono riuscito a ritrovare la positività, e rinascere ancora. In ogni brano ho cercato di creare queste atmosfere, ogni brano ha una sua parte malinconica, contrapposta alla parte più risolutiva.

Tindersticks “Distractions” (City Slang, 2021)

Allora, chiariamo subito che partiamo male. Molto male.

Sto parlando di Distractions, il nuovo disco dei Tindersticks.

Siamo seri, dai, questa Man Alone (Can’t Stop Fading) è una canzone che, doveste un giorno trovarvi nella situazione di dover riempire una cristalliera di sole gemme della band di Stuart e compagni (e ce ne sono a dozzine), senza dubbio scartereste tra le prime. Che poi mi ricorda un sacco gli LCD Soundsystem, che piacciono a tutti voi, lo so, ma a me non sono mai andati giù, nemmeno quando facevate diventare This Is Happening uno dei dischi imprescindibili della storia della musica tutta.

Fine sfogo.

Comunque stiamo parlando dei Tindersticks, motivo per il quale anche fossero alle prese con una rivisitazione raggaeton di Tiny Tears o Until The Morning Comes ska non si skippa, non ci si allontana dalle casse, non ci si distrae, si sta pazientemente in attesa che passino questi 667 secondi (!), sperando che le cose cambino. Radicalmente possibilmente.

Presto (non tanto, invero) accontentati. I Imagine You ci riporta dove vogliamo stare. O dove io voglio stare. Il recitativo baritonale di Staples è quello di cui avevo bisogno, che meraviglia, con quell’attacco che pare preso in prestito dai Sigur Ros di (), poche note, qualche sussurro, non serve poi molto a creare la magia. 

Poi è la volta di A Man Needs A Maid. Toh, guarda, stesso titolo di quella di Neil Young. Ma ancora quella batteria elettronica dannazione. Ah ma è proprio quella di Neil Young! Ma sai che a dirla tutta non mi dispiace, anche se il paradosso è che sembra più vicina ai Tindersticks la versione del dio canadese rispetto a quella dei Tindersticks stessi.

Altro giro, altra cover, altra drum machine o qualche tipo di artificio. È la volta di Lady With The Braid, originale di Dory Previn del 1971. Mai sentita nominare. Nemmeno la canzone. Ma che testo magnifico! Poi in questa nuova veste viene totalmente dismesso il vestito folk cantautorale in vece di una più austera e composta, che siamo sempre i Tindersticks, ricordiamolo al mondo. 

You’ll Have To Scream Louder fa parte del versante soleggiato della band inglese, addirittura Stuart A. Staples te lo puoi immaginare farla dal vivo e ballarla col suo iconico (non è vero) passo col quale fa scivolare i piedi in un verso e nell’altro, su queste congas e queste chitarre funkeggianti.

Ma basta scherzare, Tue-Moi è il classico pugno nello stomaco che ti manda diritto al tappeto, un toccante, sofferto, sentito brano, piano e voce, in lingua francese, sull’attacco al Bataclan di qualche anno fa. 

Ma ahinoi è già tempo dei titoli di coda su questo tredicesimo capitolo in studio per la band di Nottingham, giunta ormai al trentesimo anno di vita. Ed è un meraviglioso finale, poche storie, questa The Bough Bends, coi suoi quasi dieci minuti di durata, è la perfetta nemesi dell’iniziale Man Alone (Can’t Stop Fading). 

E anche a sto giro, cari miei amori, fate un disco brutto la prossima volta.

 

Tindersticks

Distractions

City Slang

 

Alberto Adustini

Tre Domande a: Riccardo Morandini

Cosa vorresti fare arrivare a chi ti ascolta?

A prescindere dal contenuto, spero che qualcuno possa riconoscersi nelle tematiche che tratto. Penso che potersi rispecchiare in un brano musicale (o in una qualsiasi opera d’arte, se vogliamo utilizzare questo termine) accresca le gioie e lenisca i dolori legati al sentimento o al pensiero che viene descritto. Si esce dall’isolamento e ci si sente più vicini all’altro. Già ottenere questo è un immenso privilegio. A livello di contenuto posso riassumerti i temi dei tre brani contenuti in questo EP (Eden, NdR): ossessione per la fuga all’estero, eterno ciclo di produzione/consumo in rapporto alla pandemia, maturità, disillusione e atomizzazione familiare. Direi che le tematiche dipendono molto dalle mie riflessioni del momento e spero che per chi ascolta possano costituire un punto di vista interessante.

 

Come è quando è nato questo progetto?

Ho iniziato a scrivere brani cantautorali poco più di un anno fa. Come chitarrista ho una lunga esperienza e finora mi ero concentrato prettamente sull’aspetto strumentale della musica, coltivando l’interesse per la lettura e la scrittura in parallelo.
Con questo progetto mi è sembrato di integrare le mie due inclinazioni, facendo si che si sostengano e si completino a vicenda.

 

Se dovessi riassumere la tua musica in tre parole, quali sceglieresti e perché?

Dialettica: sia nei testi che nelle musiche c’è un dialogo continuo tra il “basso” e l’”alto”, tra parole di registro più elevato e più popolare, tra materiali musicali “colti” e pop.

Mistica: i testi pur partendo da fatti contingenti aspirano sempre all’universale e un tema che ricorre spesso è il peso dell’individualità. Il senso del misticismo è cercare di spezzare le catene dell’individualità nella continua ricerca dell’assoluto, che lo si chiami Dio, Uno o Nirvana. Forse vi si nasconde anche una sorta di aspirazione alla morte, al nulla.

Barocca: dal punto di vista musicale mi piacciono le melodie, le armonie e gli arrangiamenti ricchi e d’effetto. Per quanto lo apprezzi in altri contesti, non sento mio il minimalismo.

Tre Domande a: Le Zampe di Zoe

Come state vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?
La Pandemia ha tagliato le gambe a tutto il settore. Avremmo avuto veramente tanti concerti da Marzo scorso in avanti che sono saltati. Soprattutto uno, che sarebbe dovuto essere l’8 di Marzo 2020, ovvero il primo giorno di Lockdown. Avremmo dovuto suonare al Covo in apertura a La Municipal, che stimiamo e seguiamo sempre. Speriamo un giorno di poterla recuperare!
Non  ci siamo comunque persi d’animo e abbiamo impiegato il tempo in maniera alternativa: ci siamo messi a scrivere e, se non dovessimo selezionare, facendo bene i conti, oggi saremmo pronti per pubblicare altri 5 album! Scherzi a parte, abbiamo diversificato, quindi non abbiamo sprecato tempo. è un momento di pausa e come tale va trattato. Speriamo di poter tornare su un palco presto insieme ai nostri fidi destrieri Jay e Martino, ma, per ora, ci facciamo bastare il poco che i DPCM ci lasciano fare.

 

Come e quando è nato questo progetto?

Le Zampe di Zoe sono nate nel 2017 da due progetti solisti. Eravamo due ragazzi senza esperienza che si incontravano in una stanzina fiocamente illuminata e stavano ore e ore a suonare, registrare, cantare e ascoltare senza mai arrivare a un risultato. Ci siamo così decisi a farci aiutare. Siamo capitati al Turone Studio di Andrea Turone, che ci ha presi, ci ha spiegato tutti i passaggi da compiere, accompagnandoci fino al compimento della nostra demo Cinema Lumière, uscita il 3 Maggio 2019. Grazie a Cinema, siamo riusciti a farci ascoltare in più di 80 occasioni in due anni, esibendoci davanti ad un pubblico sempre diverso: dal bar di provincia allo Stupinigi Sonic Park. Ci siamo fatti un po’ di gavetta insomma: tanto busking e tanto studio. Casa è sicuramente un’opera più completa e matura, scritta da persone che sapevano quel che stavano facendo. L’unione delle forze con Trasporti Eccezionali, Antonello D’Urso, Franco Pezzoli, Daniela Galli, Cristiano Santini e tutti colo che hanno partecipato alla creazione dell’album è stata essenziale per il risultato stesso. Confidiamo molto nel nostro percorso e nell’esperienza che abbiamo accumulato. Oramai ci sentiamo pronti e speriamo che questo debutto venga considerato degno di essere ascoltato.

 

C’è un artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare?

In effetti si! Da tanto, troppo tempo stiamo seguendo la carriera e la poesia di Dario Brunori. Ne siamo affascinati per la semplicità, la chiarezza e la verità che riesce a trasmettere. Sarebbe un vero sogno poter scrivere una canzone a sei mani insieme a lui. Abbiamo avuto l’occasione di conoscere Matteo Zanobini, ma non c’è stata occasione di proporre niente, soprattutto perché siamo ancora ad una fase embrionale del progetto, perciò non troppo appetibili per un progetto come Brunori, però, chissà, un domani magari..

Tim Hart: being happy with what you have

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With his new upcoming album Winning Hand (Nettwerk Records) about to be released, we took the chance to ask a few questions to Tim Hart on this intimate and contemplative work recorded with Simon Berkelman at the Golden Retriever Studios in Sydney.

 

How did Winning Hand come to life and what does the title stand for?

Winning Hand for me is the concept of being happy with what you have and not always looking enviously to all those around you. It for me is a very freeing concept.”

 

Is there a red thread through Winning Hand

“The album is almost a tour diary that I’ve written over a couple of years of touring. At times it’s about what’s going on in my mind and at times about what’s going on around me. There’s lots about love and family and loss. Ultimately Winning Hand is about discovering a sense of self.”

 

In your third single Steady as She Goes you talk about what home is to you. What is then “home” during these difficult times? Do you think that its meaning has changed?

“When I wrote this song I was writing less about a place and more about a feeling. A sense of belonging. I know that sounds strange because I mention Sydney. But it’s more how being around friends and family make me feel. And in that sense it hasn’t really changed. You can feel just as at home while going through the horrible times we currently are I think.”

 

This is the first time recording your album with a full band. Can you tell us something more about this decision? 

“Recording with the full band was a way of me letting go of control. Previous albums I have played the majority of instruments. This time I just wanted to focus on the songs and let other great players focus on their thing!”

 

How was born the collaboration with Bianca Braithwaite and her artwork?

“Bianca is such a talented artist in many mediums. I was really drawn to the honesty and detail of what she does. She was amazing at getting what was in my head into artwork. She is very very talented!”

 

You have created a mixtape on Spotify that you update every month. How do you select the songs you add?

“I love creating these playlist and the simple answer is that I love listening to lots of music. Last year when lockdown started I realised I’d been so immersed in the music world that I stopped loving the simple pleasure of listening to music. That’s why I make these playlists to share and discover new music with other people.”

 

Cecilia Guerra

Tim Hart: essere felici con quello che si ha

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In occasione dell’imminente uscita del suo nuovo album Winning Hand (Nettwerk Records), abbiamo fatto due chiacchiere con Tim Hart riguardo a questo suo lavoro intimo e riflessivo registrato con Simon Berkelman nei Golden Retriever Studios a Sidney. 

 

Com’è nato Winning Hand e cosa significa questo titolo?

“Per me Winning hand rappresenta il concetto dell’essere felici con quello che si ha e non guardando sempre con invidia le persone attorno. Questo concetto per me è molto liberatorio.”

 

C’è un fil rouge in Winning Hand?

“L’album è quasi un diario che ho scritto durante un paio d’anni in giro in tournée. In certi passaggi parla di quello che mi passava per la testa e in altri momenti di quello che succedeva intorno a me. C’è un sacco d’amore e famiglia e perdita. Si può dire che Winning Hand racconta la scoperta di un senso di consapevolezza di sé.”

 

Nel tuo terzo singolo Steady as She Goes, parli di cos’è per te “casa”. Cosa vuol dire in questo periodo così difficile? Credi che il significato di “casa” sia cambiato?

“Quando ho scritto questa canzone non mi riferivo tanto a un posto quanto a un sentimento. Un senso di appartenenza. So che suona strano visto che cito Sydney ma si tratta più di come mi fa sentire lo stare insieme agli amici e alla famiglia. E in quel senso il significato (di casa, NdR) non è molto cambiato. Puoi sentirti a casa anche durante il periodo orribile che stiamo vivendo, credo.” 

 

Questa è la prima volta che registri un tuo album con una band. Puoi dirci qualcosa in più circa questa decisione?

“Registrare con una band al completo è stato un modo per me per mollare la presa. Negli album precedenti ho suonato la maggior parte degli strumenti. Questa volta volevo solamente concentrarmi sulle canzoni e lasciare altri grandi musicisti concentrarsi sulle loro cose!”

 

Com’è nata la collaborazione con Bianca Braithwaite e con i suoi lavori?

“Bianca è un’artista molto talentuosa su più fronti. Sono stato attratto dall’onestà e dai dettagli di ciò che fa. È stata fantastica nel trasformare in opere d’arte quello che era nella mia testa. È davvero molto talentuosa!”

 

Su Spotify hai creato un mixtape che aggiorni ogni mese. Come scegli le canzoni? 

“Amo creare queste playlist e la semplice risposta è che amo ascoltare molta musica. L’anno scorso, quando è iniziato il lockdown, mi sono reso conto di essere stato così immerso nel mondo della musica che avevo smesso di amare il semplice piacere di ascoltare musica. Ecco perché faccio queste playlist, per condividerle con altre persone e scoprire nuova musica.”

 

Cecilia Guerra

Keaton Henson “Supernova OST” (Lakeshore Records, 2021)

Non ho mai recensito una colonna sonora. Non so come si faccia, né se si possa fare; o meglio, non sono sicuro si possa recensire una OST (Original Sound Track), senza aver visto il film per la quale è stata pensata, creata, arrangiata e realizzata. 

Non sono del resto nemmeno un grande cultore del genere, voglio dire conosco diverse persone che tra gli ascolti consueti hanno proprio le colonne sonore; ma io, un po’ per abitudine, un po’ forse per ignoranza, non mi sono mai mosso verso quei litorali, partendo da un assunto, certamente sbagliato, che non sia molto sensato scindere un film dalla sua musica, come se entrambi potessero aver vita solo se uniti, e che dividerli vorrebbe significare snaturarli e renderli altro. Il cinema muto del resto non è muto, sin dagli albori immagini e musica sono stati un connubio inscindibile e a dar maggior peso a questa considerazione piuttosto condivisibile ci sono anche le parole di Claudia Gordbman, che nel suo Unheard Melodies (una pubblicazione di diversi anni fa incentrata sulla musica nel cinema), sostiene che “change the score on the soundtrack and the image-track can be trasformed”.

Ad ogni modo non potevo lasciarmi sfuggire questo Supernova, esordio assoluto di Keaton Henson nel mondo del cinema. Il film in questione è uscito da appena qualche giorno negli Stati Uniti, è diretto da Harry Macqueen e vede come protagonisti, raffigurati anche in una splendida locandina, Colin Firth e Stanley Tucci. 

Non si tratta di un prime assoluto per l’artista inglese in ambito strumentale/orchestrale/sinfonico, avendo egli già dato alla luce un paio di anni fa lo splendido Six Lethargies, e questo nuovo lavoro continua ed espande quel clima di pathos e drama che sono da sempre presenze fisse ed imprescindibili della poetica del nostro. E credo sia proprio quello che cercava il regista, perché quando decidi di affidare la colonna sonora del tuo film ad un artista così particolare, che fa della malinconia e del rimpianto il suo terreno preferito, ti aspetti esattamente un lavoro come questo: i primi 40 secondi dell’iniziale The Night Sky sono otto, forse nove note di piano, lente, sotto le quali con un lungo crescendo si fanno strada gli archi, per sbocciare in una rapida sequenza che si esaurisce presto, per lasciar strada ad un intermezzo, Losing Tusker (Tusker è il nome del personaggio interpretato da Stanley Tucci, giusto per dare qualche riferimento in più). The Lake dona un minimo di apertura e respiro, con i violini che adagio s’incrociano in splendide volute, come nella successiva The Road To Lilly’s.

Un violoncello ed un contrabbasso compongono i quattro minuti abbondanti di A Silent Drive, dove ad una prima parte riflessiva seguono momenti incalzanti e sincopati, subito limati da un secondo passaggio più arioso ed orchestrale, Stargazing. Let Me Be With You è puro Keaton Henson, con quel pianoforte di una dolcezza abbagliante ed una coda d’archi dove non c’è molto spazio per la luce. La conclusiva Supernova è la composizione più articolata, che si manifesta in maniera quasi solenne, si sviluppa con una malinconica viola che sfocia in un finale tanto drammatico quanto magnifico.

La parola fine vien in realtà posta da Jeremy Young, un compositore ed improvvisatore, dedito principalmente alla musica concreta con registratori, tape e nastri (à la Basinski per intenderci) che ci regala un’interpretazione commovente del Salut D’Amour di Edward Elgar, qui lievemente rallentata per aumentarne, se possibile, la potenza evocativa.

Questa colonna sonora è un lavoro che trasuda Henson in ogni brano, in ogni nota quasi, dai momenti più narrativi a quelli più cupi, per cui adesso è forte la curiosità di andarsi a vedere il film, per scoprire quanto di ciò che emerge dall’ascolto trova effettiva rispondenza nella pellicola.

 

Keaton Henson

Supernova OST

Lakeshore Records

 

Alberto Adustini

Leptons “La Ricerca della Quiete” (Beautiful Losers, 2021)

Uno splendido, variopinto mosaico

 

Non sempre l’azzardo paga.

Non sempre, ma sta volta sì. Decisamente.

Il nuovo lavoro di Leptons, cantautore veneziano che risponde al nome di Lorenzo Monni, intitolato quasi provocatoriamente La Ricerca della Quiete e pubblicato dalla Beautiful Losers, è in realtà una centrifuga di idee, suoni, voci, colori, un disco vulcanico, quasi smodato nella sua apparente assenza di organicità e misura. 

È un disco abbondante ma non sovrabbondante, pregno, denso, quasi mai però pacchiano o affettato. Il suo maggior pregio è l’essere credibile nella sua densità.

Ci sono infiniti rimandi, citazioni, ci sono momenti più folk, altri ai limiti della dance, si strizza l’occhio alla musica tribale e a quella popolare, c’è del cantautorato e trovate il più delle volte decisamente azzeccate.

L’iniziale Il Canto Di Lavoro rimanda neanche tanto lontanamente all’Iosonouncane di Stormi, c’è anche un cameo in inglese con Great Escape (anche se a onor del vero lo si preferisce e convince di gran lunga di più in italiano), stralunate evoluzioni vocali di pura naturalezza e istinto in Una Lunga Vacanza, intermezzi strumentali in puro fingerpicking ne Il Diario Di Un Vulcano o ne Il Lago delle Favole, la davvero splendida Così Lontani, che rappresenta una sorta di compendio di quanto Leptons abbia messo in questo disco, una summa quasi. La Trilli finale (cos’è? Una quadriglia? Un qualche brano folkloristico? Ma arrivati a questo punto importa davvero?), è forse la perfetta conclusione di un lavoro che ha molti più meriti e pregi che limiti, un disco fatto di azzardi, rischi, non sempre calcolati, talvolta forse nemmeno necessari, ma che ce lo fanno apprezzare ancora di più. 

Si criticano spesso certi artisti perchè fanno sempre lo stesso disco, beh in questo La Ricerca Della Quiete, Leptons non fa mai nemmeno la stessa canzone.

 

Leptons

La Ricerca della Quiete

Beautiful Losers

 

Alberto Adustini

Tre Domande a: Lou Mornero

Come e quando è nato questo progetto?

“Se devo pensare a un inizio bisogna tornare indietro negli anni, molto prima che Lou Mornero avesse un nome e una forma.
2006/2007, ero in Sicilia per una vacanza in camper con amici cari e tra questi Andrea, il mio partner musicale, fece apprezzamenti alla mia voce mentre cantavamo su una canzone per farci passare il tragitto, e aggiunse che avrei dovuto mettere in piedi un progetto dove cantassi. In quel periodo iniziava l’avventura dei Male di Grace nei quali suonavo chitarra e basso. Non avevo mai considerato l’idea, mi reputavo uomo da band ma in quel momento esatto la cosa mi stuzzicò parecchio.
Passò qualche anno e nel frattempo i Male di Grace diedero alla luce l’album Tutto è come sembra, entrai poi come bassista ne I Paradisi con cui producemmo l’album Dove andrai e ad un certo punto il pensiero di un progetto solista riaffiorò dal nulla.
Tornai quindi a riabbracciare la chitarra acustica, snobbata per anni a favore dell’elettrica, e da lì partì tutto; iniziai a comporre atmosfere più lievi del solito e mi ci ritrovai con molto agio.
Con naturalezza è poi giunta l’esigenza di dare forma a quella nuova veste e proposi ad Andrea, compagno di banda ne I Paradisi, di collaborare per arrangiare e produrre questa mia idea musicale ed eccoci qui: è nato un EP, uscito qualche anno fa, e oggi GRILLI.”

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

“Rallentamento, tregua, viaggio!
Mi piace pensare che chi ascolta GRILLI possa godere di una mezz’ora sospesa dalla frenesia che è la vita e non alludo solo alla parte tangibile ma soprattutto alla zona invisibile, quella fatta di pensieri e angosce, quella dei mondi interni, spesso i più subdoli e complicati da gestire.
Sarebbe un gran piacere sapere che questa musica favorisse simili sospensioni poiché penso che si presti particolarmente in quanto ad atmosfere sognanti e leggere, senza considerare che nasce da una personale esigenza di rincorrere quel tipo di oblio.
E aggiungerei che il lavoro di passione e genio che Andrea ha aggiunto alle canzoni, parlo di suoni che fluttuano e arrangiamenti che avvolgono, si sposa perfettamente con la filosofia dell’abbandono e del distanziamento, non sociale, ma da se stessi.
Sospensione quindi ma non solo; anche immersione nelle suggestioni della musica, nei suoi colori e nelle sue virtù.
Dai i testi è invece arduo aspettarsi qualcosa poiché è un campo di assoluta soggettività dal momento che scrivo di quello che vivo e di come lo vivo e non è detto che ciò corrisponda al comune sentire, ma se qualcuno si ritrovasse nelle mie parole allora significherebbe che c’è qualche essere simile a me là in giro e questo m’incuriosirebbe.”

 

Progetti futuri?

“Non mancano mai! Fanno parte del mio inconscio ottimismo. Tra questi sicuramente comporre altra musica che mi aggradi al punto da volerla condividere in un futuro.
Direzioni nuove e nuovi suoni piuttosto che qualcosa di più essenziale, nuove collaborazioni.
La parte godereccia del comporre è che potenzialmente non ci sono limiti alla creatività, gira tutto intorno al mood del momento, al coraggio, alla curiosità e in questa prospettiva progettare il futuro è assolutamente eccitante. Trattandosi più di idee che di progetti sono ancora in fase nebulosa e accennata ma ci sono e già per questo sono galvanizzanti, solo che al momento non riuscirei a dirne oltre.
Come si dice: stay tuned.”

Tre Domande a: Wabeesabee

Come state vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?

Saverio: “Come molti credo, abbiamo indubbiamente tanta voglia di suonare, ma sfruttiamo questo momento per continuare a scrivere e riflettere.”
Andrea: “Il virus purtroppo ha infettato anche il mondo della musica, soprattutto a livello di industria e ha avuto ripercussioni in modo particolare su quegli artisti che avevano visto il 2020 come un anno di svolta. Ovviamente un po’ di preoccupazione c’è, ma siamo fiduciosi per il prossimo anno. Avevamo bisogno di far partire il progetto e per ora siamo davvero soddisfatti di come sta andando. L’unica cosa che ci manca è l’aspetto live; è triste il fatto di non avere la possibilità di potersi esprimere dal vivo e di poter interagire con un pubblico.”

 

Ci sono degli artisti in particolare a cui vi ispirate per i vostri pezzi?

Saverio: “Ad oggi Jeff Buckley, Jordan Rakei, Tom Misch, Hiatus Kayiote, Nick Hakim e D’Angelo su tutti, mentre nel percorso che ci ha portato a questo disco ho saputo amare Joni Mitchell, Patrick Watson, Lucio Dalla, Niccolo Fabi e Igor Lorenzetti (alias di Dead Poets Society). Ultimamente Kendrick Lamar, August Greene, Anderson .Paak ed Eriykah Badu sono a ruota nelle cuffie.”

Andrea: “Nel nostro sound si possono trovare artisti che piacciono molto ad entrambi come ad esempio Jordan Rakei, Tom Misch, Hiatus Kayiote, D’Angelo, Anderson .Paak.”

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

Saverio: “La possibilità di andare altrove con la mente.”
Andrea: “Personalmente vorrei far arrivare ciò che provo io mentre ascolto la musica che mi piace, quindi: generare coinvolgimento durante l’ascolto, far entrare in sintonia l’ascoltatore con l’autore, far capire che i pezzi sono stati scritti con il cuore e non a tavolino, e suscitare interesse per la produzione musicale.”

Oremèta “Saudade” (Glory Hole Records, 2021)

Il Maestrale trasporta musica esotica, la samba si mischia con le risate di tre ragazzi sul balcone.

Ma qui non siamo a Rio, siamo a Ostia.

E qui, non stiamo festeggiando il Carnevale, siamo in lockdown.

I loro ricordi, le loro esperienze ora diventano racconti, le idee si trasformano in speranze per il futuro.

Uno di loro ha una chitarra, strimpella qualcosa mentre l’altro butta giù due frasi. La ragazza guarda lontano verso l’orizzonte. Dopotutto sono fortunati, loro hanno il mare. 

Quello che all’inizio era un passatempo si evolve, cresce, fino alla creazione di una band, gli Oremèta (Chiara Pisa voce e testi, Dario Cangreo testi e voce, Giulio Gaigher compositore) che presentano il loro primo album Saudade, una serie di storie dai profumi esotici, una bossa nova romana che narra di malinconie, di viaggi, di claustrofobia, di routine temporaneamente sospese e affetti lontani.

Chiusi nelle nostre case bramiamo spazi aperti, i banconi appiccicosi dei bar, gli abbracci, la calca dei concerti; soffochiamo nella nostra fame d’aria. La malinconia ci schiaccia, appiattendoci al suolo, e l’unica via d’uscita per la sanità mentale è ricercare nella memoria i momenti in cui ci sentivamo liberi, e rivivere quella sensazione. Se fatto in gruppo poi, diventa più potente. 

Con il loro sound particolare diventa difficile “etichettare” il loro stile, si passa da testi molto profondi, temi delicati e flussi di coscienza prosperosi, a tracce molto commerciabili, fluttuando con la bossa nova in un universo contaminato dall’hip hop, invaso dall’elettronica e dal soul.

Questo album ha un cuore, poderoso, che batte dentro a tutti i brani.

Rime eleganti che feriscono come spine di rose, un flow vellutato in Pangea (feat Soulclore); la nostalgia tagliente per gli affetti lontani è il tema di Se alle Sei, la cui intro è una telefonata vera della nonna di Chiara durante il primo lockdown e racchiude tutta la saggezza che solo gli anziani hanno con la frase “Quando sei obbligato vorresti uscì”.

Il tema degli affetti al di là del mare è anche in Bakarak, la storia di un loro amico congolese, della nostalgia di casa sua, del lavoro al porto che lo fa sentire quasi vicino alla sua patria.

Saudade e Interludio sono il frutto di ricordi di un viaggio in Brasile, versi nostalgici su come il progresso alla fine approdi anche nel paesino di pescatori sperduto, e distrugga la semplicità di una vita che bastava a se stessa. Le rime serrate, affilate, colpiscono nel profondo, Dario possiede un flow autentico, caldo.

Meta, quinto brano dell album, è una ballata pop, uno sfogo post lockdown, pieno di solarità e positività, si poteva di nuovo uscire, sembrava la libertà e, altezzosi, si poteva ripensare a quel periodo di clausura quasi sorridendo.

La rabbia verso gli oppressi scoppia violenta in un hip hop denso e scomodo in Passaporto; i toni rimangono accesi in Diario, condanna verso i pestaggi di Ostia, Salvini e Casa Pound, delle spedizioni punitive ai campi di rom di Torre Maura.

Da un balcone di un palazzo di fronte al Lido di Ostia questi tre ragazzi non ci parlano solo di nostalgia e mancanza, ma anche di speranza e rinascita. Abbiamo bisogno di esprimerci, di lasciare un pezzo di noi per buggerare la morte, un motivetto che continua ad essere canticchiato rende eterna la storia di qualcuno.

 

Oremèta

Saudade

Glory Hole Records

 

Marta Annesi