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Anno: 2021

The Jesus And Mary Chain @ Alcatraz

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• The Jesus And Mary Chain •

play Darklands

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Milano // 12 Dicembre 2021

 

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Wrongonyou @ Locomotiv Club

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• Wrongonyou •

+

LYL

LAURINO

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Bologna // 10 Dicembre 2021

 

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LYL

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LAURINO

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Tre Domande a: Roberta Giallo

Se dovessi riassumere la tua musica in tre parole, quali sceglieresti e perché?

La mia musica è ispirata, istintiva, onesta. Gli aggettivi cambiano in base ai giorni,  ma questi tre sono una specie di costante.
Scrivo quando “mi arrivano” le note e le parole, seguendo il vortice; ho una specie di settimo-senso che mi guida e mi suggerisce che strade percorrere, anche nel buio.
Mi metto al piano, abbasso la luce, mi metto in ascolto e le canzoni nascono fluide.
E poi sì, sono onesta, soprattutto quando scrivo e canto.
La mia voce “si sa”, e sapendosi non può e non vuole tradirsi o mentire.
Devo sentire tutto “appartenermi”, devo crederci: mettere al mondo la musica che sento di poter rappresentare, incarnare la sola storia che posso cucirmi addosso, difendere pure l’indifendibile, combattere pure l’imbattibile, ma crederci!
Sentire fino al midollo ciò che canto, suono, musico, interpreto.
Trarre il meglio, il necessario delle mille parole dette e sentite, piangere per piangere davvero, amare e basta, gioire per ridere forte dentro, fino ad avere quasi male al cuore.

C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare?

In un certo senso la cosa si è già avverata ma non aggiungo altro, se non il nome e qualche aggettivo a precederlo… una mosca bianchissima: lo straordinario, talentuoso, luminoso, insuperabile, chitarrista e produttore, Corrado Rustici.

 

Progetti futuri?

Parlo solo del “certo e confermato”, e metto le virgolette perché di questi tempi, tocca essere prudenti… Ma con gioia e fiducia quasi infinita nei confronti dell’avvenire, vi segnalo un godibile e coinvolgente spettacolo scritto insieme al giornalista e critico musicale Ernesto Assante, con cui debutteremo a gennaio a Montecarlo, al Thêatre Des Variétés, Il Mio Incontro con Lucio Dalla (poi naturalmente, anche in Italia, e lì vi aspettiamo al varco).Vi segnalo inoltre che tornerò sul grande schermo come protagonista e voce narrante del nuovo film che racconta i 25 anni del MEI – Meeting degli Indipendenti, con i super registi Marco Melluso e Diego Schiavo, che tra l’altro mi hanno tenuta a battesimo sul grande schermo col pluripremiato film Il Conte Magico.
Inoltre ritorneremo live con il giornalista e scrittore Federico Rampini, con le nuove date dello spettacolo Morirete Cinesi, di cui ho curato tutta colonna sonora.
Last but not least: presentare live, ovunque sia il luogo giusto, il mio nuovo album Canzoni Da Museo.
Certamente farò la mia prima tappa al Museo della Musica di Bologna, e non solo… seguitemi sulle mie pagine web (FB, IG, Telegram), se desiderate essere aggiornati, perché ne combino di tutti i colori: per esempio il 9 dicembre sarò al teatro Ponchielli di Cremona per omaggiare Mina con l’Orchestra della Filarmonica Italiana, poi l’11/12 dicembre a Bologna, al Laboratorio San Filippo Neri, ospite, comme d’habitude alla giornate tutte dedicate all’errore, poi a Marzo sarò a Roma, con L’Orchestra Sinfonica dell’Aquila, diretta dal Maestro Valentino Corvino per interpretare i Beatles in un altro amatissimo spettacolo, di e con Federico Rampini… basta, mi taccio, altrimenti si fa notte!

Tre Domande a: The Tangram

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?
Fondamentalmente quello che facciamo è provare a trasmettere quel momento d’ispirazione che avviene o accade nella fase di creazione artistica; quella sensazione è comprensibilmente variabile, ci sono canzoni che descrivono momenti differenti, quello che possiamo augurarci e che chi ci ascolta possa cogliere quelle sfumature ed empatizzare su ogni livello la nostra musica. Quando qualcuno viene a dirti “Quella canzone mi ricorda un evento della mia vita”, o quando viene detto “Quel brano l’avete scritto per me”, oppure “Quel pezzo mi smuove un qualcosa dentro” … ecco, ha un’importanza fondamentale per noi, ciò che facciamo è finalizzato alla condivisione, ed anche se partisse da uno sfogo o dalla voglia di raccontare esperienze personali e non, crediamo che le cose siano collegate e che gli altri possano comunque entrare in contatto con quel tipo di sensazioni, e sopratutto che possano provare la cosa più importante di tutte… l’autenticità e la sincerità.
Come vi immaginate il vostro primo concerto live post-pandemia?
Quest’estate è stata ricca di appuntamenti; anche se è stato gratificante respirare quegli attimi di libertà, provare ad immaginare un qualcosa dove non ci sia più quel tipo di preoccupazione generale sarebbe un sogno, ci auguriamo presto di poter rivivere i live accompagnati da quei momenti di totale abbandono.
Quanto puntate sui social per far conoscere il vostro lavoro?
Il discorso social per noi è molto dicotomico… seppur comprendendo l’effettiva utilità e potenzialità c’è una parte di noi che riesce a dare un senso alla cosa, e un’altra invece che è restia all’eccessivo utilizzo, sopratutto per una propria “scelta”, dettata principalmente dallo spavento d’essere intrappolati in “abitudini virtuali”, che a nostra veduta potrebbero minare la creazione di contesti e movimenti vitali per la condivisione artistica e sociale. In ogni caso proviamo ad utilizzare i social in maniera mirata e ad essere coerenti sempre con la nostra visione.

Tre Domande a: Carsico

Come e quando è nato questo progetto?

È nato circa tre anni fa quando iniziammo a mettere mano all’arrangiamento di Itaca, brano che aveva una forza, almeno in potenza, che dovevamo riuscire a veicolare al meglio. Conclusa Itaca il resto dei brani arrivò nel giro di pochi mesi; si era innescato un processo virtuoso, sapevamo avremmo prodotto un buon disco. S’innescò, quindi, in Manuel Volpe ed in me, il desiderio di tentare di rendere omaggio ai modelli musicali di riferimento di entrambi cesellando i testi nel modo più accurato possibile, parola per parola, verso per verso.

 

C’è un artista particolare con cui ti piacerebbe collaborare?

Si, si chiama Susan O’Neill, una polistrumentista e cantante irlandese dall’espressività vocale poderosa, magnetica. Il folk-pop anglo irlandese, da Damien Rice e Lisa Hannigan, Beth Oton, John Smith, Mick Flannery, è uno dei modelli musicali, melodici, armonici e vocali che ha senza dubbio influenzato le atmosfere di alcuni brani del disco.

 

Come ti immagini il tuo primo concerto post-pandemia?

Me lo immagino ogni giorno, perchè sta per arrivare, sarà il 27 Novembre, giorno della presentazione del disco, e voglio che sia un’esperienza totalmente gratificante per chi verrà ad ascoltarci. La band sarà composta da alcuni dei musicisti già presenti nelle sessioni di registrazione del disco e da componenti nuovi, giovani virtuosi con alle spalle grandi palchi e collaborazioni prestigiose tra Italia, Francia e Svizzera.

Tre Domande a: Michael Sorriso

Come stai vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?

Fortunatamente ho passioni trasversali e sfogo la mia verve creativa seguendo da vicino le evoluzioni e il percorso di un brand che ho fondato qualche anno fa, Italia90.
Mi è mancata particolarmente la dimensione live, seppur non avessi dei tour programmati, ma è sempre stata la parte che preferisco e in cui so di potermi esprimere al meglio.
È stato anche difficile e lo è tutt’ora, dover attendere più di un anno per l’uscita delle canzoni registrate precedentemente, ma ho sfruttato l’attesa per iniziare a lavorare a del nuovo materiale. A inizio novembre, per esempio, è uscito il mio nuovo singolo, Pianoforti.

 

Come e quando è nato questo progetto?

Michael Sorriso nasce artisticamente con lo pseudonimo di Lince nel lontano 2005, anno in cui, quindicenne, feci la mia prima battle di freestyle.
Dopo più di un decennio di concerti, diversi mixtape e un disco pubblicato con un’etichetta indipendente torinese, ho deciso di virare sul mio nome di battesimo e di far coincidere il mio primo disco in Major, da professionista, con l’adozione di questa nuova identità, che poi è la successione naturale di quella precedente.

 

Se dovessi riassumere la tua musica in tre parole, quali sceglieresti e perché?

Rap, anarchia, ricercatezza.
Rap perché è quello che faccio, lo strumento che utilizzo per esprimermi e con il quale mi approccio alla stesura dei testi.
Anarchia perché per me la musica è il luogo in cui potersi esprimere liberamente, senza preoccuparsi di pensieri e costumi imposti dalla società. È un posto in cui, chi ci vive, legifera; senza sovrastrutture e burocrazia.
Rap ed anarchia si alimentano a vicenda, nonostante il genere sia nato nella culla del capitalismo e nonostante prevalgano fenomeni che ne alimentano una visione stereotipata.
Ricercatezza perché odio le cose dozzinali e le cose fatte emulandone altre. Ogni canzone è stata composta con musicisti di grande spessore e con un certo gusto, con la speranza, assolutamente controtendenza rispetto alle necessità attuali e di mercato, che possa invecchiare al meglio e resistere ai segni del tempo, sia dal lato musicale che da quello autoriale.

Viagra Boys @ Link

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• Viagra Boys •

+

Automatic Band

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Bologna // 28 Novembre 2021

 

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It was nice even though we ain’t nice

 

Dopo più di un anno di snervante attesa finalmente la data zero è arrivata: domenica 28 novembre la band svedese dei Viagra Boys si è finalmente esibita a Bologna. Inizialmente il live era previsto nell’intimo Freakout Club, ma a causa delle restrizioni covid e all’enorme richiesta (sui social si è assistiti ad una caccia all’ultimo sangue per avere dei biglietti, nonostante fosse sold out da mesi) l’evento è stato spostato al più capiente Link.

In poche parole, l’hype era alle stelle.

La serata è stata aperta dalle californiane Automatic Band, un gruppo tutto al femminile post punk, a mia detta niente male, ma l’attenzione era poca, tutti aspettavamo con impazienza il noto Sebastian Murphy solcare il palco e sbalordirci tutti.

E così è stato: la band entra e senza fronzoli attaccano con i pezzi dell’ultimo disco, Welfare Jazz, uscito ad inizio 2021, che trasuda critica sociale e surrealismo, marchio di fabbrica degli svedesi. Il pogo parte in maniera istantanea, il pubblico canta e si dimena seguendo il post punk ricco di sfumature jazz, grazie all’aggiunta nella band del talentuoso sassofono di Oskar Carls. 

Sebastian Murphy incarna il leader punk per eccellenza, bramoso di attenzioni del suo pubblico accompagnato da una totale mancanza di attenzione per se stesso e per tutto ciò che lo circonda. Sul palco, a petto nudo, mostra la sua tonda pancia da birra con orgoglio e si diletta in balletti poco aggraziati, come quegli zii avvinazzati che ti mettono in imbarazzo alle feste di famiglia. Beve, bestemmia, rutta, si butta a terra, sputa sul pubblico. In molti lo descrivono come la risposta svedese a Joe Talbot, il leader degli Idles, ma questa noncuranza estrema (NB: sulla fronte ha tatuato la parola Lös, traducibile come perdente) mi ha fatto pensare più al controverso e dissacrante GG Allin.

Il live è stato ricco anche di brani tratti dal disco precedente: in Sports, Worms e Slow Learner, tutti accumunati da testi colmi di denuncia sociale e satira e nonsense che sfiora il dadaismo. Ovviamente, più volte sono stati nominati gli shrimps (gamberetti), un vero chiodo fisso che ha portato la band a fondare un’impresa fittizia dal nome Shrimptech Enterprises. 

Non sono mancati i grandi classici come Ain’t nice, Girls & Boys e Creatures, caratterizzati da quelle sonorità dance punk ma con aggiunte di garage, jazz e basi quasi country. Inserirli in un esatto genere musicale oltre ad essere riduttivo è un’impresa e loro non ne sarebbero contenti: nel video di Girls & Boys appare la scritta: “Middle aged men fight in comments on which band this sounds like”, che ci fa capire senza giri di parole la loro idea a riguardo.

È stata una serata surreale, folle e coinvolgente, con volumi esagerati ed entusiasmo alle stelle. Non potevo chiedere di meglio: tornare ad assistere ai concerti senza distanziamento con una band di matti da legare come i Viagra Boys è un sogno che si avvera.

 

Alessandra D’aloise

Foto: Linda Lolli

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Automatic Band

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The Black Veils @ Covo Club

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• The Black Veils •

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Bologna // 27 Novembre 2021

 

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Tre Domande a: Yosh Whale

Se doveste riassumere la vostra musica in tre parole, quali scegliereste e perché?

Spontanea: pensiamo che la nostra musica risulti essere spontanea o almeno speriamo arrivi questa sensazione. Abbiamo lavorato molto nel nostro ultimo singolo Ceneresole per cercare di far succedere la nostra musica, cercare di comporre senza filtri, far si che le nostre canzoni siano espressione diretta di ciò che siamo e viviamo.
Sensibile: la nostra è una musica che prende vita dai sensi; la vista, i suoni, gli odori che ci circondano prendono vita e si trasformano nell’immaginazione dando vita ai testi delle nostre canzoni.
Luminosa: è una musica che vive la luce in varie forme. C’è spesso, altre volte non si vede perché la si cerca ma alla fine da qualche parte viene fuori ed è sempre vita. In Ceneresole tutto questo è abbastanza chiaro.

 

Cosa vorreste far arrivare a chi vi ascolta?

Nulla in particolare. O forse la libertà. Ci piacerebbe che le persone ascoltando la nostra musica non si sentano ingabbiate nel testo ma che siano libere di pensare e immaginare cose diverse da quelle che abbiamo detto noi. Speriamo di donare alle persone la libertà di aggiungere significati nuovi alle nostre visioni, alla nostra musica.

 

C’è un artista in particolare con cui vi piacerebbe collaborare?

Ci piacerebbe molto collaborare con Venerus. È un artista che per i nostri ascolti è stato come un’illuminazione. Da sempre ci siamo ispirati a musica genericamente internazionale come James Blake, Bon Iver, ma ad un tratto Venerus ci ha fatto capire che alcune trame di quella musica si potevano fare e sopratutto bene e in maniera originale anche in Italia, ci ha suggerito delle nuove strade per un obiettivo che inseguivamo da tempo.

Tre Domande a: Sgrò

Come stai vivendo questi tempi così difficili per il mondo della musica?

Riorganizzando l’orizzonte di ogni mio desiderio. Non sono padrone del tempo, non posso controllarlo, e programmare ha perso di senso. Quello che cerco ormai di fare, è, appunto, fare, sapendo che ci sono altre mille variabili non direttamente controllabili. Non ne vale la pena rimandare, come ho fatto io per anni.

 

Come e quando è nato questo progetto?

Non so se ci sia o meno una data di nascita, perché Macedonia è un progetto che mi è salito su su dallo stomaco fin dall’adolescenza. Anche se il mio primo singolo (In Differita) è uscito a marzo 2020, pochi giorni prima del lockdown, io sento che quel filo di voce, se lo seguo, mi riporta dritto dritto alla mia prima stanza e alla mia adolescenza.

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta?

Spero arrivi quella cosa che chiamano verità, cioè urgenza. Un’urgenza che non è urlata, ma sussurrata. La voce di questo mio primo disco, Macedonia, è una voce a tratti apatica, stanca, intima e ha il colore delle pareti verniciate l’ultima volta ormai decenni fa. Spero si senta che sono canzoni fatte con lo stomaco, con la testa e con il cuore. Non ho cercato una via d’uscita dal mondo, ma una via d’entrata.

Strappare Lungo i Bordi

Attenzione: questo articolo contiene spoiler

Che cos’hanno in comune Xdono di Tiziano Ferro, Clandestino di Manu Chao e Non Abbiam Bisogno di Parole di Ron? 

All’apparenza niente, e soprattutto niente prima del 17 novembre. Poi Michele Rech, al secolo ZeroCalcare, ha deciso che era una buona idea posizionarle una dietro l’altra in quella che è l’unica opera in grado di mettere d’accordo tutto il paese dai tempi del compromesso storico: la serie animata Strappare Lungo i Bordi.

Dell’attesissima serie se ne sta parlando diffusamente, e – tranne qualche voce fuori dal coro sui social volutamente da bastian contrario – sempre con toni lusinghieri ed entusiasti, perché è oggettivamente un gran bel lavoro, frutto di una cura per i dettagli magistrale. E di conseguenza, altrettanto curata è la colonna sonora, eclettica e trasversale, talmente variegata da mettere anche lei d’accordo tutti, o quasi.

Partiamo dalle basi: esistono film in cui la colonna sonora a volte sembra quasi estranea. Magari decontestualizzata non sarebbe neanche malvagia, ma lì, in quella specifica situazione, in qualche modo stona. Qui invece, in sei episodi per un totale di un’ora e mezza, non c’è una nota fuori posto. Anche la giustapposizione fra Clandestino e Xdono per andare a descrivere i decisamente diversi input musicali di un adolescente nel 2001, per quanto suoni strana e faccia pensare “ma che c’azzecca Manu Chao con Tiziano Ferro”, funziona come la voce di Valerio Mastandrea sull’Armadillo, e cioè alla perfezione.

E poi c’è la varietà. Momenti accompagnati dal pop più ballabile a cui possiate pensare accanto ad altri in cui invece è la base strumentale a fare da padrona, lasciandosi avvicinare solo da qualche rara parola, come nel caso di Wait degli M83. Canzoni nazional-popolari vicine ad altre più ricercate, meno note sulla scena italiana, una su tutte Haut Les Coeurs del collettivo francese Fauve. Più che una canzone sembra quasi un discorso messo su una base; un ritmo incalzante fino a diventare ansiogeno, che poi si stabilizza nel ritornello e invita alla speranza molto più di quanto ci si aspettasse. Nonostante non sia nell’ultimo episodio, questo pezzo del 2013 riassume benissimo, a mio parere, il senso della serie.

“Tu vois, moi aussi j’ai peur, j’ai peur en permanence (Vedi, anch’io ho paura, ho paura in continuazione)
Qu’on m’annonce une catastrophe (che mi venga annunciata una catastrofe)
Ou qu’on m’appelle des urgences (che mi chiamino dal pronto soccorso)
Mais on a la chance d’être ensemble, tous les deux (ma abbiamo la fortuna di essere insieme, noi due)
De s’être trouvés, c’est déjà prodigieux” (di esserci trovati, ed è già un miracolo)

Bisogna poi parlare nello specifico di due pezzi. Il primo è ovviamente la sigla, Strappati Lungo i Bordi, realizzata ad hoc da Giancane. È una canzone potente, che ti si appiccica in testa e non ne vuole sapere di andare via. È una canzone che ti fa sentire giovane ma non incompleto, e mi perdonerà il Signor Italo Calvino, perché a suo modo ti fa sentire parte di un qualcosa e soprattutto ti fa sentire compreso, come se dicesse “Tranquillo che ce sta qualcun altro su ‘sta barca”. Anche altri pezzi strumentali apparsi nella serie sono stati curati da Giancane, che già aveva prestato a ZeroCalcare la sua Ipocondria per i video usciti durante il periodo del primo lockdown, a conferma di come questa collaborazione sia ormai già ben collaudata e fruttuosa.

L’altro pezzo che merita una menzione speciale è The Funeral dei Band of Horses, o come ormai può essere definito, dato il suo utilizzo nel mondo cinematografico e televisivo, “il colpo di grazia”. Fin dalle prime note, chi la conosce può presagire che stanno per arrivare le lacrime, ma in realtà è una canzone così eloquente che può intuirlo anche chi invece non ha familiarità. Ed è proprio questa eloquenza, questo quasi invitarti a piangere con i suoi silenzi e i suoi cambi di intensità studiati, che la rende perfetta per il commoventissimo finale della serie. 

Proprio come la voce dell’Armadillo.

 

Francesca di Salvatore

Pan American @ Tipoteca Italiana

Tundra, Paesaggi Sonori Contemporanei
Cornuda (TV) // 19 Novembre 2021

 

Pan American: un viaggio ad occhi chiusi

Non credo sia ancora stato fatto, almeno non che io sappia, e sta di fatto che al momento non ho voglia di cercare e magari smentirmi, tuttavia credo che qualche giornalista, scrittore, critico musicale, dovrebbe prima o poi scrivere una sorta di apologia per “coloro che chiudono gli occhi durante i concerti (ma non stanno dormendo)”.

Ieri sera, circondata da una leggera nebbiolina padana, la Tipoteca di Cornuda (primo inciso, luogo che meriterebbe una visita, quando incidentalmente doveste passare da quelle parti) ha ospitato, grazie a quegli impavidi di Lynfa, la prima data del mini tour italiano di Pan American (l’indomani sarebbe stata la volta di Jerusalem in My Heart, e sfido chiunque a trovare una doppietta più azzeccata per un festival che s’intitola Tundra – Paesaggi Sonori Contemporanei), il progetto solista di Mark Nelson, già chitarra e voce dei Labradford, ai quali il sottoscritto sarà eternamente grato.

Ero già stato in Tipoteca, almeno un paio di volte, per Chris Brokaw e Julia Kent se non erro, e il piccolo auditorium va pian piano riempendosi quando poco dopo le 21.30 il nostro guadagna il centro del palco, un timido (ma timido timido davvero) saluto al microfono un po’ in italiano, un po’ in inglese, e imbracciata la chitarra le prime note iniziano a diffondersi nell’aria.

Ora, il cappello iniziale non era buttato lì a caso, ma era un pensiero che ho elaborato mentalmente durante buona parte dello svolgimento del primo brano in scaletta, che in realtà trattavasi più di una suite lunga quasi mezz’ora, fatta di synth e arpeggi di chitarra, dilatati, languidi, dove verso la metà fa capolino anche la magnifica Memphis Helena, tratta dall’ultimo disco a nome Pan American, A Son con un sussurrato “I′m away from home / I’m away from home in time / We left it all behind”.

Non c’è illuminazione sul palco, la poca luce che si diffonde sulla scena è data dalla proiezione di una serie di video (riprese dal treno o da un auto durante una pioggia, semafori, palazzoni, campi di girasole, riprese subacquee da una piscina pubblica e a parere dello scrivente non così centrali e funzionali alla narrazione, ma si tratta di certo di un mio limite), e Mark Nelson, escluse la rare volte nelle quali si affaccia dalle parti del microfono, è spesso chino o davanti al laptop o accucciato ad armeggiare con i multieffetti della pedaliera, ed è chiaro che il messaggio che mi sta rivolgendo è “non c’è niente da vedere qui, dirigi il tuo sguardo altrove”; però con tutto il rispetto, non siamo all’interno di una sala rinascimentale rivestita di affreschi e decorazioni, il pur confortevole auditorium offre bianche pareti e lucido legno moderno, è chiaro che il viaggio da fare è più astratto, spirituale direi, e quale modo migliore per farlo che chiudendo gli occhi e abbandonandovisi.

Ed è quello che faccio.

Per oltre un’ora mi lascio condurre e trasportare, il concerto scivola via sorprendentemente veloce, nonostante la musica di Pan American sia lenta, minimale, impercettibile a volte, sfuggevole, dall’andamento e dalla struttura spesso simile eppure mi trovo a pensare che sebbene io abbia l’impressione di ascoltare sempre lo stesso pezzo mi trovi ogni volta in posti diversi, ugualmente affascinanti.

Ed in effetti in vita mia non sono mai stato tanto a nord, la tundra per me è solo una reminiscenza scolastica “tundra, taiga, muschi e licheni” e mi avvio verso casa, la nebbia di prima è ancora lì ad aspettarmi, d’altronde mi pare si sposi bene col contesto generale. 

Am I away from home?

 

Alberto Adustini