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Anno: 2021

Noah Gundersen “A Pillar of Salt” (Cooking Vinyl, 2021)

Spesso, gli incontri più significativi sono quelli che sfuggono ad ogni possibilità di previsione. Ero lì, assorta nel tentativo di fare ordine nella mia stanza o in qualche luogo interiore, tra battiti accelerati e lacrime nascoste. La porta? Credevo di averla chiusa. Invece no. Non ha bussato, è entrato con delicato fragore. Irrinunciabile, da lì in avanti. After All (White Noise, 2017) è stato il brano con cui si è presentato. Tra parentesi, in maiuscolo, apparivano anche altre quattro parole: (Everything All the Time), per un universo di senso. Ho voluto sapere chi fosse, da dove avesse ereditato quei tratti tanto decisi quanto fragili, da dove venisse. Sulla provenienza, molte delle fonti hanno sempre rimandato a Seattle, città sacra per coloro che sono cresciuti con il suono sinonimo degli anni Novanta, della rabbia che diventa urgenza espressiva, dell’imprinting del grunge. Ed è proprio dalla città di smeraldo che si snodano i fili di A Pillar Of Salt (Cooking Vinyl), il nuovo album di Noah Gundersen. 

Per presentare il singolo apripista, Sleepless in Seattle — suonato per la prima volta in un’insospettabile diretta nel marzo 2020, durante il lockdown, e riproposta in anteprima un anno dopo all’interno del format in streaming Songs & Conversation — l’artista ricorda il suo trasferimento nella metropoli, nel 2009. Un bagaglio carico di passione per quei luoghi, per le band che li hanno resi sacri, per lo spirito che animava un’intera scena. Un sogno da trasformare in realtà a qualunque costo, crescendo tra club e performance live, pubblicando sei dischi, stringendo amicizie, perdendo persone care. La bussola, però, sempre posizionata su un “nord” chiamato Space Needle che vegliava sulla possibilità di far sentire la propria voce. Dieci anni dopo, quella voce — accompagnata da una chitarra malinconica — racconta della fine di un capitolo, di una metamorfosi fredda e tecnologica, di passeggiate notturne esaurite in un vagare insonne, di bar in bar. Banconi ed ombre appoggiate ad essi che testimoniano i fasti passati — i “Glory Days” di matrice springsteeniana, come riporta un post su Instagram – senza cui certi uomini come Brian, protagonista dei versi, non sarebbero potuti essere chi sono, nella loro benedizione e maledizione. 

Oltre a lui, altri due personaggi appaiono ad inaugurare la tracklist, muovendosi sullo stesso pattern, intimamente acustico, al piano. Laurel and Hardy (gli Stanlio e Olio italiani) vestono i panni di un amore distillato in opposizione e complementarietà: un valzer in cui il ticchettio di sospiri e dolci errori — “My favorite poison / My honey mistake” — sfuma in passi che si allontanano. Un allontanamento, già dalla traccia numero due, anche da un’impronta cantautoriale mai rinnegata ma arricchita e volutamente sviluppata dall’ultimo lavoro in studio, Lover (2019), in poi. Body si impone come inno generazionale: lo specchio di chi — tenendo per mano la giovinezza ed affacciandosi sulla responsabilità adulta — stringe la pace con un certo fatalismo attivo (“Whatever happens is probably gonna happen anyway”), pur non rinunciando alla confessione più profonda di rimpianti e rimorsi (“If I told you then, what you could have been / Would you have turned around? / Would you have even listened?”).

 

 

Intersezioni di tempo e di suono, livellato — quest’ultimo — su un’impostazione ibrida tra alt-rock ed elettro-pop. Una costruzione a più strati di arrangiamenti contemporanei e soluzioni melodiche nitide che attestano raffinatezza e ricercatezza. Se per The Coast a prevalere è una linea vocale empatica ed ineccepibile che dichiara tregua alle continue battaglie esistenziali per ristorarsi di fronte all’oceano con un cuore pronto a mettersi in gioco, in Blankets e Back To Me l’obiettivo è quello della destrutturazione, sia nella forma sia nel contenuto. Un’ispirazione che rimanda, da una parte, agli Editors più elettronici e, dall’altra, al Justin Vernon più iconico con le suggestioni dei Bon Iver. Il contesto perfetto in cui far dialogare memorie che svaniscono, realtà inedite da affrontare e la tentazione di ripiombare in meccanismi antichi ed ancestrali. Qui, le frequenze timbriche di Gundersen — talvolta campionate in effetti distorti, talvolta al limite del meccanico e robotico — lanciano messaggi di identificazione universale.

Tra brani di raccordo più classici come la radiofonica Exit Signs, Magic Trick e la denuncia al mondo patinato e ingannevole della comunicazione digitale e Bright Lost Things con il riverbero del clavicembalo e delle luci abbaglianti di Broadway, Atlantis si staglia in qualità di punta di diamante. Il featuring con Phoebe Bridgers, stella attualissima del firmamento musicale internazionale, rimarca un emozionante sodalizio (oltre che un’amicizia) andato in scena già nel 2017 con il video mashup di The Killer, perla dello strabiliante disco d’esordio dell’artista di Pasadena, Strangers in the Alps (2017), e The Sound, estratto da White Noise di Noah. La naturalezza e la fluidità che avevano già caratterizzato quella collaborazione si confermano in Atlantis, trasposizione in note e strofe poetiche ed ipotetiche della leggenda di Atlantide. Le due tonalità si fondono proprio come il mare con il perimetro dell’isola ed ondeggiano in una marea di risonanze lontane: sembra di udire il canto delle sirene o il sibilo intrappolato in conchiglie colorate.

A Pillar of Salt si chiude con quella che l’autore stesso elegge a sua canzone preferita. Always There è il compimento orchestrale che, su un dolce arpeggio, distende gli scenari per elevarli a potenza onirica. Il sapiente falsetto, assieme al trionfo di archi e alle sonorità eteree, racchiude la promessa di una nuova alba. La matura consapevolezza del proprio desiderio di amare, nonostante tutto, nonostante possa essere considerata una prova di coraggio anacronistica, rischiosa, al limite della patologia. È una delle frasi più impattanti riportate, durante il periodo di promo, all’interno del puzzle di citazioni pubblicato sui canali social ufficiali: “Love grows like a cancer”. Una condanna come quella che — nella tradizione biblica — colpì la moglie di Lot per essersi voltata a guardare Sodoma, subendo la trasformazione in una statua (o colonna) di sale. A Pillar of Salt, appunto. 

La cristallizzazione dal dolore e del dolore, la metabolizzazione e la scelta di andare oltre — apprendendo la lezione, alleviandola e non dimenticando — accendono il luccichio più chiaro e sfavillante del disco. Granello dopo granello, a sciogliere le riserve, ad infondere rinnovata fiducia può essere d’aiuto l’ascolto di un album di così pregiata bellezza ed autenticità. 

 

Noah Gundersen

A Pillar Of Salt

Cooking Vinyl

Laura Faccenda 

Zucchero Fornaciari @ Ultravox

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• Zucchero Fornaciari •

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Firenze // 6 Ottobre 2021

 

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Tre Domande a: JacksonT

Ci sono degli artisti in particolare a cui ti ispiri per i tuoi pezzi? 

Si, ci sono diversi artisti che sono la mia fonte di ispirazione, per tantissimi motivi. Artisti del calibro di Ernia, Rkomi, Il Tre, e così via, potrei elencarne qua molti altri. Io ascolto molta musica, prevalentemente italiana, prevalentemente rap, pop. Sono in assoluto i generi che preferisco. Questo non esclude la musica straniera, perché artisti come Justin Bieber, The Kid LAROI, Ed Sheeran, sono comunque tra i miei preferiti. Degli artisti sopracitati mi piace molto la scrittura, le linee melodiche che vanno a cercare, il significato dei loro testi. Insomma io credo che bisogna sempre imparare da chi è più bravo e da chi ha più esperienza di te e, se possibile, prendere spunto per poi andare a costruire un progetto nuovo e fresco.

 

Cosa vorresti far arrivare a chi ti ascolta? 

Beh, vorrei far arrivare in primis le emozioni; le stesse emozioni che ci metto dentro quando scrivo una canzone e quando la vado a registrare. Scrivere canzoni non è facile, perché è un qualcosa di prettamente personale e, se a qualcuno non piace, ti senti in un certo senso ‘ferito’. Mi piacerebbe davvero raccontare delle storie, alcune felici, altre un po’ meno, anche perché la musica è la metafora della vita, ci sono giorni tristi e ci sono giorni felici e così sono le canzoni. Le mie prime tre pubblicazioni hanno un senso logico, però credo che non sia facilmente percettibile. Io sto costruendo un vero e proprio percorso artistico, con la speranza che prima o poi quest’ultimo venga capito e apprezzato per quello che è.

 

Quanto punti sui social per far conoscere il tuo lavoro?

I social, ahimè, sono molto importanti oggi giorno. Se torniamo indietro di qualche anno, il buon vecchio passaparola non smentiva mai, adesso invece purtroppo non è così. I social sono letteralmente il tramite tra artista e pubblico. La comunicazione è importante. Io personalmente per ogni pubblicazione ho cercato di catturare l’attenzione del mio pubblico virtuale, per cercare di incuriosire. Purtroppo non è facile, viviamo in un periodo storico dove l’ascolto della musica è passivo, totalmente passivo. Bisogna cercare di farsi spazio e dire a tutti ‘hey, guardate che ci sono anche io!!’. Sono sicuro che non mollerò, anche perché sono all’inizio di questo percorso, sto seminando tanto, spero di raccogliere i frutti in futuro.

Tre Domande a: California

Come e quando è nato questo progetto?
Il progetto nasce da una forte amicizia con il  chitarrista Fabio Brando (ex Canova), una sera di agosto di due anni fa. Dopo una pizza entrammo nella sua stanza per chiacchierare, lui si sedette al pianoforte e mi disse “Dai, io invento un giro e tu ci canti delle frasi sopra!” . Quella sera nacque una della canzoni a cui siamo più legati, la prima del progetto (di cui ora non posso dire il titolo, lo scoprirete più avanti).
Tutto comunque è nato in maniera naturale senza forzature, dalla passione che hanno in comune due veri amici, che sfogano le proprie ansie e i propri problemi con la musica. Da lì in poi sono arrivate altre canzoni, come Mediterraneo appunto.
Fabio mi ha inoltre seguito in studio durante il processo creativo nella lavorazione dei brani, insegnandomi e consigliandomi un sacco di cose che non conoscevo, è stato un vero e proprio guru, non smetterò mai di ringraziarlo!
Ci sono degli artisti a cui ti ispiri per i tuoi pezzi?
Solitamente ascolto davvero tutto, soprattutto nell’ultimo periodo, dove il mercato discografico è ricco di uscite.
Io però sono cresciuto con il pop/rock americano: Blink 182, Sum 41, Green Day, Offspring, ma anche la scena britpop come Oasis, Blur e The Verve. Ci sono poi altri gruppi ai quali sono molto legato come i Nirvana, quando ho cercato di scrivere e comporre musica in studio mi sono sempre ispirato a loro. Il suono di quei gruppi per me rimarrà sempre il mio preferito, tant’è vero che nonostante ascolti un sacco di altra musica, torno poi sempre a quella, perche è l’unica che ancora oggi mi dà forti emozioni e mi riporta un po’ alla mia adolescenza.
Per i testi invece è un discorso diverso, nel senso che non mi sento vicino a nessuno, qualcuno mi ha detto che somiglio a Gazzelle, anche se lui scrive da dio, io no!
Mi piace molto inventare racconti, storytelling dove la gente si rivede, ma anche parlare della vita che vivo tutti i giorni. Credo che al giorno d’oggi, scrivere cose autentiche ma soprattutto sincere sia la chiave per far bene.
Come ti immagini il tuo primo concerto live post pandemia?
A volte me lo sogno la notte. Giuro, non scherzo, ci penso spesso con la speranza che arrivi presto.
La cosa più bella della musica è portare alla gente il tuo lavoro, farglielo ascoltare dal vivo, senza filtri, solo loro e la tua musica.
Dopo un periodo così tragico e pesante c’è bisogno di concerti, di aggregazione, e non capisco perché a oggi ancora si sia mosso ben poco.
Nei piccoli live che ho fatto mi piace trasmettere al pubblico energia, ma anche far riflettere con i pezzi più lenti. Insomma, spero arrivi presto il mio primo concerto post pandemia, e spero pure di avere tanta bella gente sotto al palco da invitare a bere una birra insieme finito il live!

Oasis, Knebworth 1996

This is history, right here, right now!

 

Non capitava, da troppo tempo. Percepire quell’impulso di imprimere, anche soltanto con una parola chiave, una scena, una nota, un’espressione dal potere immaginifico che nasce in un frangente lontano ed unico, ma plasma e modella l’attimo presente. Correre, scorrere su una linea del tempo che tiene insieme una generazione, più di una generazione: quella che ha vissuto di cuore, di pancia agli anni Novanta e quella nata nella stessa decade. Anime benedette e maledette, alcune, per vibrare di un lascito passionale, impetuoso, idealista, fatalista. C’è chi può raccontare, con occhi orgogliosi, l’aver assaporato un’epoca nel suo gusto più autentico e chi può assistere ad un carosello di ricordi a bassa definizione, potentissimi in ogni pixel sgranato, in ogni chitarra distorta.

Non capitava da tempo, da troppo tempo. Perché è la sensazione che ha sempre contraddistinto lo stare in piedi di fronte ad un palco, con la transenna conficcata tra sterno e stomaco, quasi a sorreggere l’apparato dell’emotività. In questo caso, un concerto c’è ma su pellicola, sotto forma di documentario, di gioiello d’archivio. Musica e cinema, due dimensioni al limite del fantascientifico — oggi — in un 2021 post apocalittico in cui il sovvertimento pandemico e planetario ha tracciato un confine netto tra ciò che era prima e ciò che sarà. Ma nessun anacronismo, nessuna nostalgia ingiallita, soltanto verità leggendaria e testimonianze da pelle d’oca in Oasis, Knebworth 1996, il film documentario diretto da Jake Scott sui due concerti biblici della band inglese, nell’area verde dell’Hertfordshire, raggiunta — il 10 e l’11 agosto di venticinque anni fa — da 250.000 persone.

Location battezzata da nomi sacri – Led Zeppelin, gli ultimi Queen di Freddie Mercury – e da subito riconosciuta per quel qualcosa di “aristocratico”. La sfumatura complementare di un gruppo nato tra i quartieri popolari di Manchester, tra le mura intrise di birra e frustrazione dei pub, e giunto a distanza di ventiquattro mesi dall’esordio all’apice della propria carriera e del rock planetario. Un record firmato fratelli Gallagher, capaci di radunare una folla oceanica tanto eterogenea quanto accomunata da un’unica missione: vedere gli Oasis. Ed è proprio sulla prospettiva dei fan che viene incentrata la narrazione, non soltanto dell’evento ma anche di tutto quel corollario di esperienze, di avventure che lo precedono e lo seguono. Capitoli di uno dei tomi dell’enciclopedia della vita, quello relativo alla giovinezza, alla leggerezza, alla speranza. Quello che sporge sempre qualche centimetro in più sullo scaffale. La copertina consunta, il tratto inossidabile delle impronte che, pagina dopo pagina, hanno fatto la storia. Una storia pronta ad essere riletta, riguardata, riascoltata.

 

 

“The best of all things that come our way” — La corsa ai biglietti e l’attesa

Nessuna news virale, nessun annuncio ufficiale su siti o social, nessun tweet lanciato alla velocità della luce. Nel 1996, la due-giorni di Knebworth venne accennata da Noel Gallagher durante un’intervista promozionale e, da lì, rimbalzò su cartelloni, riviste musicali, tg nazionali. Il giorno della messa in vendita dei biglietti è riportato alla mente da coloro che parteciparono come un tripudio di sveglie programmate, attese interminabili al telefono, file chilometriche fuori dalle sedi dei circuiti ufficiali, voli dall’Italia con il sogno di due ticket fortunati. Stringerli in mano, vederli arrivare per posta, riceverli in regalo da qualcuno di speciale significava cerchiare in rosso quella data sul calendario. Avere qualcosa di incredibile da attendere. Da organizzare. Non importava quale fosse il modo per raggiungere la distesa più desiderata del Regno Unito (il 5% dell’intera popolazione nazionale tentò in quell’occasione di acquistare i biglietti): a bordo di un’auto sgangherata, di un bus carico di sorrisi e droga o zaino in spalla in direzione di una stazione dei treni dimenticata. Una volta arrivati lì e sicuri che il pass per il paradiso non venisse strappato malamente dagli addetti, tutto ciò che rimaneva fare era correre, correre, correre verso il pit, verso uno scenario in cui tutto era ancora possibile, faccia a faccia con il volto più florido della Cool Britannia e le pose di Liam Gallagher (e magari, prima dello scoccare dell’ora X, assistere all’apertura di band del calibro di Chemical Brothers, Ocean Colour Scene, Manic Street Preachers, Charlatans, Kula Shaker, Cast e Prodigy non troppo valorizzate dalle riprese).

 

“Maybe you’re the same as me” — Le voci

Oasis, Knebworth 1996 è un’opera di elettricità orchestrale di voci. I video dei live sono accompagnati, o meglio guidati, dal parlato fuori campo dei protagonisti del pubblico che rivivono la storia della musica –  “This is history, right here, right now”, per dirla alla Noel – attraverso la loro storia e attraverso le canzoni del cuore della loro band del cuore, quella per cui alla domanda “che cosa regalereste ai vostri idoli?”, qualcuno rispondeva “regalerei anche me stesso”. Dichiarazioni come “Sono fiera di essere loro fan”, “Gli Oasis parlano per noi. Loro sono lì sopra, noi qua ma sono come noi” attivano un effetto di transfert che supera l’ammirazione artistica. Succede quando tra i versi, gli accordi, le pause, le riprese di alcuni brani che hanno rappresentato la colonna sonora di un periodo si intersecano passaggi, tappe e riflessi di chi canta e di chi ascolta. Alla base, un unico comune denominatore: la sincerità. Così con Supersonic ci si elevava allo stato di rockstar, Cigarettes and Alcohol era la fotografia di anni di disoccupazione e tormenti affogati nelle nell’amicizia e nell’eccesso, The Masterplan divenne il manifesto a cogliere le occasioni che l’esistenza riserva come doni, come attimi irripetibili da trascorrere con qualcuno prima che, per la crudeltà del destino, se ne vada per sempre. “È stata l’ultima giornata che trascorsi per intero con mio fratello. Dopo pochi mesi se in andò a causa di un tumore”, confessa una delle fan coinvolte nel progetto. “Alcune ore prima del concerto, scoprii che la mia ragazza era incinta. Sarebbe cambiato tutto. Con la pioggia che scese durante I Am the Warlus venne lavata via anche la mia giovinezza. Non lo dimenticherò mai”, è l’istantanea di un altro speaker, dietro le quinte.

 

 

E poi le voci che animarono il palco. Liam Gallagher che poteva permettersi qualsiasi cosa, avvicinandosi al microfono, digrignando i denti, allungando foneticamente i vocaboli, incrociando le mani dietro la schiena. Lo stato di grazia del miglior frontman del momento. Un timbro nitido, acido e possente che rispecchiava una classe, la working class settentrionale, e un genere, l’indie, che, con loro, diventò a tutti gli effetti mainstream. “Tutto cambiò dopo Live Forever”, ammette Noel Gallagher, autore del singolo spartiacque. Lui, cinque corde, voce e soprattutto penna della band, capace di miracoli – “Scrissi Wonderwall e Don’t Look Back in Anger in una settimana” e che, con quegli stessi capolavori, fece cantare 250.000 anime che si sentivano a casa in quelle melodie, con la cieca fiducia che la modifica del testo fosse il sigillo di un patto rischioso ma autentico: “But please don’t put your life in the hands of a rock and roll band / Who’ll never throw it all away”.

Provando a sorvolare sul peso specifico pressoché inesistente riservato nel film al bassista Paul Guigsy McGuigan e al batterista Alan White, oltre alle suddette voci, risuonano anche echi di personaggi altisonanti, presenti ed assenti. Richard Ashcroft, “l’uomo senza ombra”, a cui venne dedicata una Cast No Shadow da brividi (ed un “Ripigliati cazzo!”). Il chitarrista Bonehead che sottolinea quanto lo avesse stupito assistere ad un sussulto tangibile di Liam su “Now that you’re mine” di Slide Away (scena che mi ha incollato alla poltrona del cinema). John Squire, chitarrista degli Stones Roses, che salì sul palco per Champagne Supernova, quei 7 minuti della tracklist che tutti aspettavano. Un iconico passaggio di testimone – “Il testimone ce lo eravamo già preso nel ’94″, puntualizza Noel –  ed una scia colorata di azzurro che nacque dagli occhi del cantante per accarezzare le lacrime del pubblico. Quei 7 minuti, quell’intro-mantra che, un paio di sere fa, durante la proiezione, tutta la sala attendeva. Atterrita, impaziente ed emozionata.

 

“You’re gonna be the one that saves me and after all” — Wonderwall 

Trai i racconti che si intersecano nel documentario, uno si distingue per lo spazio in cui vennero vissuti i concerti. È quello di un fan che, il 10 e 11 agosto 1996, chiese ai genitori di non essere disturbato, in quella determinata fascia oraria. Nella sua camera, delle audiocassette vergini, pronte per registrare il live dalla radio che lo trasmise in esclusiva. I tre secondi del “cambio lato”, misurati con il cronometro. “Ho portato con me quei nastri per anni, conoscevo a memoria ogni battuta di Liam”. La sua figura malinconica, ma comunque appagata, appoggiata alla colonna vintage di uno stereo ha racchiuso una delle immagini da Wonderwall, da muro delle meraviglie, al cui contatto tutto sembra possibile. Una superficie di sicurezza che svetta fino al cielo. Può essere la spalla di un amico che canta a squarciagola lì vicino, il compagno di avventure incontrato qualche ora prima dell’apertura dei tornelli, la donna che si abbraccia come se quel brano fosse stato scritto per lei. Oasis, Knebworth 1996 si chiude, inevitabilmente, con Wonderwall, una canzone destinata a diventare un inno al di là delle generazioni. Un inno al potere salvifico della condivisione, della musica e dell’amore. E dell’amore per la musica, quello che supera le differenze, le distanze, le difficoltà. Quello che unisce “after all”, nonostante tutto. Quella matrice di cui oggi, soprattutto nel nostro paese, si sente così tanto la mancanza. Quel motore che non ha bisogno di alcun filtro (neppure di quelli degli smartphone, per fortuna assenti all’epoca). Non necessita di alcun compromesso per rendere realizzabile l’impensabile, per sgranare gli occhi di fronte a Liam Gallagher che scende dal palco e regala il tamburello proprio a te, perché te lo aveva promesso. È ciò che fa le storie. È ciò che fa la storia. 

 

Laura Faccenda

Tre Domande a: Frank!

C’è un artista in particolare con cui ti piacerebbe collaborare?

L’artista, o meglio, la band con cui mi piacerebbe collaborare di più in questo momento sono The 1975, gruppo britannico per il quale ho un debole da molto tempo. Le loro sonorità penso si sposerebbero bene con le mie essendo a metà tra l’analogico e il digitale. L’unione del mio mondo sonoro con il loro amplificherebbe la dimensione ibrida in cui mi piace gravitare.

 

Come ti immagini il tuo primo concerto live post-pandemia?
Il mio primo concerto post-pandemia lo immagino con tante persone che cantano a squarciagola le mie canzoni, che ballano e si divertono tanto quanto me! Se ci penso, riesco quasi a sentire quell’emozione prima di salire sul palco, quell’ansia che poi si trasforma nella spinta giusta! Essendo i miei brani usciti dopo l’avvento del COVID purtroppo non ho ancora avuto occasione di suonarli dal vivo davanti ad un pubblico. I concerti sono sempre stati uno dei miei aspetti preferiti del fare musica. Mi mancano moltissimo i palchi e non vedo l’ora che sia finalmente possibile ritornare a pieno regime anche per quanto riguarda i live show!

 

C’è un evento, un festival in particolare a cui ti piacerebbe partecipare?
Penso che ogni artista abbia sognato almeno una volta di suonare a Wembley. Uno stadio cosi grande e iconico sarebbe il massimo per me oltre che un grande privilegio essendo stato palcoscenico di molte band e artisti che nel corso degli anni hanno fatto la storia. Per quanto riguarda i festival, su tutti mi piacerebbe suonare al Glastonbury Festival, con tutte quelle bandiere che sventolano tra il pubblico!

Melancholia @ Assisi On Live

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• Melancholia •

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Assisi On Live

Assisi // 25 Settembre 2021

 

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Nevermind compie trent’anni e io no

Si è preso il pomeriggio libero. E una bottiglia di buon vino.
Telefono spento, non capitava da secoli. Doccia, vestiti puliti, quasi fosse un appuntamento. Arrivando al mobile del giradischi ha un’esitazione. Prende in mano il disco, osserva la copertina a lungo. 

Due soli pensieri lo sfiorano: il primo riguarda la sua personale opinione del soggetto immortalato, dopo la richiesta di risarcimento. E pace, esiste il karma, ne è convinto. Il secondo è che quel pezzo di cartone, quel bambino che nuota è il suo personale ritratto di Dorian Gray. Anzi, che lui stesso è, per quel disco, il quadro che invecchia. Quel fottuto bambino rimarrà per sempre piccolo, nudo e con pistolino notevole. Quel disco rimarrà per sempre giovane. Per sempre meraviglioso. Per sempre adorato. Lui invece no, invecchierà, diventerà noioso, conservatore e malinconico. Il disco si nutrirà di lui, perché il patto è stato sancito nel 1991 e mai verrà spezzato. Non c’è un solo disco che lui abbia amato che di colpo sia invecchiato male. O che proprio sia invecchiato. 

È il dono che la musica porta con sé, è il modo che la musica ha per fregare il tempo. Perché ci sono tempi scanditi dalle estati, dai viaggi, dalle relazioni, tempi scanditi da olimpiadi, nascite, morti e successi. Ma sono tutti punti sulla linea temporale. 

La musica invece ci segue, a volte ci insegue. La nostra relazione con i dischi che amiamo ha un inizio, raramente una fine, perché si impasta con la nostra vita, si intreccia nella storia, diventa colonna sonora, diventa compagna. A volte è un accento, a volte medicina. 

Lui aveva da poco fatto le analisi per colesterolo e tristezza, le principali candidate del suo malessere. Dieta e musica. Nessuno aveva contemplato il vino, ergo, fanculo. 

Andrea nevermind 30Nevermind compie trent’anni. E lui no. Lui ne ha compiuti di più. Però Nevermind e lui hanno compiuto trent’anni, quindi è il caso di festeggiare come si deve. 

Si siede per terra, si accende una sigaretta, il fruscio della sigaretta si confonde con quello della puntina. E allora cuffie su, il mondo resti fuori, questa è una cosa tra lui e i Nirvana.

Quattro accordi, che sono un portale per l’inizio di tutto. L’alfa degli anni novanta, il big bang, forse involontario o forse no, che cambiò le regole del gioco. Una overture che puzzava di icona generazionale dopo soli cinque secondi. Poi Novoselic riportava la calma, poco prima che Kurt chiamasse tutti alle armi. Letteralmente. 

“Venite siore e siori, venite grandi e piccini. Vi mostreremo come intrattenere tutti quanti per quasi quarantacinque minuti! Uno spettacolo di freaks da psicoanalisi, un trio di emarginati che mettono in versi, su un palco, il loro personal disagio! Rimarrete incantati da golosissimi riff e ritornelli orecchiabili, e nel mentre faremo passare testi pesantissimi, senza che nessuno sanguini dalle orecchie! Intanto caricate i fucili, si sa mai!”.

Benvenuti nella palestra più famosa della storia della musica. Potere di MTV, potere di una generazione pronta a smontare le permanenti di molte band. L’onda lunga degli anni ottanta sbatteva contro tre ragazzi armati di rabbia, intelligenza, sensibilità e una discreta dipendenza dagli oppioidi. 

La depressione, la disillusione, una geniale ironia a tratti macabra. Smell Like Teen Spirits era programmatico, era il manifesto di un disco, di un pensiero, di un inizio. 

(Scivola la puntina, scivola giù altro vino.)

Kurt gioca con Burroughs, e poi fa cantare tutti i fans dell’ultima ora, perfetti analfabeti funzionali, un ritornello che descrive la follia collettiva che li sta per investire. In Bloom. Sì, però. 

Però è la seconda canzone in cui si parla di armi, Kurt. 

Però questa non è solo ironia. Qua si parla di incomunicabilità. “I like beautiful melodies telling me terrible things”, diceva Tom Waits. Sembra la terza legge incisa a scalpello sulle tavole del grunge. 

Come as You Are continua sulla stessa ambiguità, sulle sfocature, in una canzone dove le parole scivolano una dentro l’altra, dove il nemico diventa memoria, dove aprirsi all’altro è una continua scommessa, dove essere disarmati è l’unica condizione per la conoscenza. 

(Vino. Serve vino.)

Paura, depressione, fuga di Breed. Si cade poi nel paradiso artificiale di Lithium, dove è bipolare la struttura della canzone, che diventa lei stessa messaggio, facendo per un attimo comparire McLuhan sopra la puntina. No, sarà il vino. Però la canzone-è-il-messaggio, poche storie. 

Polly rovescia i punti di vista, è come se a metà di una partita a scacchi vi scambiaste le parti. È un esercizio di stile, ma di nuovo è anche una domanda profonda sulla comprensione e sulla visione della realtà. Si passa a Heller, al Comma 22 , nelle terre tiratissime di Territorial Pissing, tre accordi in 2:22 per un crescendo di alienazione, di differenze, di urla disperate, mentre Grohl maltratta definitivamente la batteria e il “The Terminator”, il rullante comprato apposta per Nevermind dal suono quantomeno incisivo. 

Si passa ai sentimenti, all’amor scortese, quello per Tobi Veil, anche se Drain You fa un po’ di confusione tra infanzia, sesso e droga. Tra fluidi corporei e sostanze stupefacenti, tra dipendenze e interscambi. O forse è tutto voluto, sepolto solo da un velo di buoni accordi per celare il significato ai più?

Stay Away è un collage di frasi fatte, è inno alla superficialità. Il puzzle di Nevermind è quasi completo. Serve il non-sense di On a Plain, perché Kurt lo dirà, anni dopo: era pigro, spesso scriveva i testi all’ultimo e non sempre questi avevano un senso vero e proprio. “Impressionismo cazzaro”, fu definito da critico anonimo. A volte uscivano grandi cose, a volte materiale buono per la psicoanalisi, a volte solo parole.

(Sono veramente ubriaco)

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Something in The Way ha dentro l’essenza di Nevermind. In studio proprio non veniva. Butch Vig, che durante le registrazioni rubava i takes a Kurt con ogni mezzo possibile, si accorge che il cantante stava finalmente suonando da dio, ma era in sala di regia, con la chitarra scordata e senza qualcuno che gli desse il ritmo. Ma era buona, vera e unica. Prese Novoselic e scordò il basso. E seguì il violoncello.
Nevermind era questo. 

Kurt urla ancora per qualche minuto nella ghost track. 

Poi la puntina esce dal solco. 

Silenzio, un bicchiere vuoto, un sospiro. 

Nevermind è stato il primo che “ho lasciato entrare”. Il primo album che ho amato, studiato, giustificato, idolatrato, tradito.
Nevermind fu il primo bacio. Indimenticabile, umido, direbbe il signor Gump, inaspettato. Sperato.
È il mio Dorian Gray, sarà sempre lì, identico e monolitico nella sua grandezza. 

Nevermind compie trent’anni. E io no. Loro sono diventati una pagina nera sul diario del liceo. Otto aprile, data dell’annuncio. Lasciarono un groviglio indistricabile di domande, un peso infinito nella testa di un adolescente. Fu un dolore fisico, che ricordo bene. La loro fine e la loro storia successiva sembrarono le risposte alle domande di Nevermind. Tre vie, tre possibili bivi da prendere, tre modi di affrontare la vita. Servono gli anni in più che ho per accettare il fatto che il lieto fine non è tanto rock. 

Ma questo album servì a iniziare qualcosa. Servì per aprirsi a una nuova musica, a nuovi anni, a trovare nei Pearl Jam il mio “bright side” del grunge e innamorarmi di nuovo, servì per i dischi, i concerti, la musica. 

Servì per parlare con nuove persone, con amici che resistono, servì a condividere, a ballarci su e a viaggiare cantando. Servì riascoltarlo dieci anni dopo, vent’anni dopo e vedere dove cazzo stavo andando. Serve riascoltarlo anche a distanza di trent’anni e sentire che gusto ha. 

Nevermind compie trent’anni. Io molti di più, ma stiamo ancora bene insieme. 

Senza arrossire, sono fortunato. 

Oh well, wathever, 

Nevermind. 

 

Andrea Riscossa

 

appunti andrea nevermind 30

Davide Shorty @ Arena Puccini

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• Davide Shorty •

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Arena Puccini (Bologna) // 22 Settembre 2021

 

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I Fast Animals and Slow Kids tra passato, presente e futuro

Con già dieci anni di carriera alle spalle, tornano i Fast Animals and Slow Kids con il loro ultimo lavoro, dal titolo È Già Domani. Abbiamo fatto due chiacchiere per parlare del nuovo disco, del tour appena concluso e soprattutto di tempo che scorre. 

 

Ciao ragazzi e grazie per quest’intervista. Avete appena finito il vostro primo tour dell’era post Covid. Come vi sentite, com’è stato?

Aimone: “Noi stiamo bene. È un momento in cui ci sembra che tutto stia tornando ad una sorta di normalità, dato che abbiamo appunto fatto un tour e adesso sta per uscire un nuovo disco, quindi sembra veramente che la vita stia tornando alla normalità, anche se ci rendiamo conto che non è proprio del tutto così. Per quanto riguarda il tour, è andato davvero bene. Abbiamo fatto questo tour in acustico dove ci siamo confrontati con una nuova modalità di musica e, nonostante all’inizio fossimo un po’ spaventati, nel corso del tempo ci abbiamo preso la mano e ci è piaciuto moltissimo. È stato un concerto intimo, di confronto, di chiacchiera… Abbiamo raccontato la storia di questi ultimi dieci anni di musica in giro per l’Italia. È stato davvero emozionante e anche i feedback sono stati positivi. Dopo due anni di ‘stop’ ci ha fatto molto bene, sia all’umore che alla testa.

 

Parlando invece del nuovo disco, in È Già Domani fin dal titolo torna un tema per voi piuttosto ricorrente, ovvero il tempo. Come mai questo titolo? E qual è il vostro rapporto col futuro?

Alessio: “Le due risposte sono legate.”

Aimone: “Sì, sono decisamente legate. È Già Domani è un titolo che mette in relazione da una parte il tempo che scorre e dall’altra il fatto che non facciamo altro che farlo scorrere più velocemente. Ci troviamo in una condizione — e questo ci sembra un po’ anche il leitmotiv del disco — in cui presente e futuro si sono estremamente avvicinati, quasi a fondersi. Tutto ciò che facciamo adesso è in proiezione di qualcosa che saremo tra cinque minuti, tra due ore, tra sei anni… E se da una parte questa cosa è bella perché spinge a fare qualcosa di migliorativo, a essere ogni giorno qualcosa di diverso e a crescere, dall’altro lato vivi anche una sorta di pressione perché quello che sei in quell’istante non è altro che qualcosa che dovrai essere dopo. È come se non riuscissimo più a vivere questo presente staccandolo completamente dall’idea di noi stessi tra qualche tempo. Il disco si muove in questo dualismo e lascia tante domande aperte, il che è un’altra sua particolarità. Ci sono domande a cui non diamo risposta, mentre normalmente chiudevamo un pezzo in se stesso, come se fosse un monolite. In questo caso invece i pezzi rimangono ‘eterei’ dal punto di vista delle tematiche. Inoltre, un’altra particolarità di È Già Domani che ci piace molto è che nel titolo mettiamo insieme un po’ di presente, un po’ di passato e un po’ di futuro: ‘è’ il presente, ‘già’ il passato e ‘domani’ il futuro. Ci piaceva filosofeggiare un po’ con questa visione di fondo.”

 

In questo album compare anche il vostro primo feat, Cosa ci direbbe con Willie Peyote. Com’è nata l’idea di collaborare?

Aimone: “Mentre stavamo scrivendo questa canzone ci siamo resi conto che c’era una parte in cui ci stava una spiegazione più concreta, più specifica. Volevamo che ci fosse una variazione perché ci sembrava quasi incompleta. Questa sensazione prettamente artistica, unita ai due anni di isolamento e distanza, ci ha portato a dire ‘okay, collaboriamo con qualcun altro’. E questo qualcun altro doveva essere una persona che ci capisse bene, un amico a cui avremmo potuto spiegare il testo in onestà, che avrebbe capito il nostro punto di vista e che avesse a sua volta un punto di vista che noi potessimo capire. Qualcuno con cui parlassimo ‘la stessa lingua’, insomma. Abbiamo chiesto a Willie perché lo stimiamo da un punto di vista artistico, quindi sapevamo che potevamo fare qualcosa di figo, e perché è un amico. Possiamo avere una conversazione reale, parlare di qualsiasi cosa e per noi era importante dato che, se ci deve essere il primo feat, deve essere una cosa dove ‘cadi in piedi’. È una prassi che si usa spesso in musica, ma noi non l’avevamo mai fatta. Fatta così, però, è una cosa che rifaremmo volentieri. È andata bene e siamo molto contenti.”

 

Fask interview

 

Quando è uscito Animali Notturni aleggiava un po’ la critica che “non foste più gli stessi di Hybris e di Alaska“. Come avete reagito?

Aimone: “Ma è vero! Noi non siamo più gli stessi di Hybris e Alaska, ma non siamo più gli stessi nemmeno di Animali Notturni. Io non sono più lo stesso di ieri! Abbiamo sempre fatto quello che era nelle nostre quattro teste, quindi, se esiste una coerenza, esiste una nostra coerenza interna che consiste nell’essere rappresentativi di noi stessi ogni volta che scriviamo qualcosa. Secondo me è molto più facile per un artista mantenere la stessa cifra stilistica una volta trovata una certa forma, così da non tradire mai nessuno. In realtà per noi non funziona così, perché la musica è troppo importante e soprattutto salva le nostre vite, quindi essere disonesti e fare qualcosa che non è più nelle nostre corde sarebbe peggio di sperimentare e provare a fare cose che invece sentiamo più nostre, sta tutto lì… Poi in generale c’è sempre una possibile critica per ogni disco che esce, ma abbiamo imparato a non ascoltarle nel corso di questi dieci anni. Le uniche che ascoltiamo sono le critiche interne: se uno di noi critica qualcosa di un pezzo vuol dire che non gli piace e se non gli piace è un problema. Già dobbiamo trovare una sintesi tra le nostre teste, ed è complessissimo così. Se in più dovessimo ascoltare anche le teste degli altri diventerebbe un inferno. Poi siamo persone che pensano molto alle cose, ragioniamo mille volte su quello che ci viene detto, quindi abbiamo deciso di concentrarci su un’unica coerenza, che è la nostra: quella di quattro persone che hanno cominciato a fare musica insieme dieci anni fa e sono amiche da una vita.”

 

In È Già Domani ci sono canzoni molto diverse tra loro, sia per sound che per testi. Metterle insieme è stata una scelta più ragionata o più casuale?

Aimone: “Molto ragionata. È Già Domani è un disco estremamente ‘cosciente’, nel senso che abbiamo avuto molto tempo per pensare, ripensare e scrivere i testi e questa forse è anche una differenza con i dischi precedenti tranne il primo. Le canzoni che abbiamo selezionato sono partiti da una scrematura magari di 40 pezzi. Con tanto tempo, ci siamo trovati di fronte a questi pezzi e li abbiamo riascoltati mille volte, parlando sia di testi che di arrangiamenti. Anche la scaletta, l’artwork, tutto è estremamente ragionato in modo che questo disco fosse concreto e rappresentativo di noi stessi.”

 

A novembre sono dieci anni da Cavalli. Se poteste tornare indietro nel tempo e incontrare i FASK di quel periodo, c’è qualcosa che vorreste dir loro?

Aimone: “Direi loro di non lasciare il furgone fuori ad Arezzo quella sera perché è stato un bel trauma. Direi loro di non fare alcune date che abbiamo fatto…”

Alessandro: “Di non leggere le recensioni.”

Aimone: “Sì, di non leggere le recensioni del primo disco per non demoralizzarsi, anche se di fatto poi non ci siamo demoralizzati… Non lo so, io in realtà sono molto felice del percorso dei FASK, di quello che eravamo a 20 anni e di quello che siamo diventati adesso. È un percorso molto lineare, fatto con le persone con cui hai iniziato. Poi c’è sempre qualcosa da migliorare o da recriminare al te stesso più giovane…”

Alessio: “Probabilmente i FASK dell’inizio non sarebbero stati pronti a fare le scelte di adesso. Non potremmo nemmeno consigliare di fare prima un determinato passaggio. è tutto molto giusto e calato nel momento…”

Aimone: “Ah, e poi gli direi bravi per non aver mai cambiato membri della band, per aver sempre premiato questo senso di amicizia e di unità che ci fonda e ci tiene in piedi da tempo. C’è una sorta di scudo che abbiamo nei confronti di tutto questo.”

 

Francesca Di Salvatore

I Ministri @ Jump Festival

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• I Ministri •

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Jump Festival

Piazza Saffi (Forlì) // 18 Settembre 2021

 

[/vc_column_text][vc_empty_space][vc_column_text]Foto: Luca Ortolani

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Spiritbox “Eternal Blue” (Rise Records, 2021)

Melodia furiosa

Gli Spiritbox, band canadese originaria dell’isola di Vancouver, nella Columbia Britannica, attiva dal 2016, sono pronti a dare al pubblico il loro primo full length, intitolato Eternal Blue. Ormai si sa, nei sottogeneri del Metal più moderno, soprattutto nel MetalCore, è spesso difficile spiccare ed è abbastanza comune che varie band, anche se con background completamente diversi e luoghi di provenienza più vari, possano risultare simili tra loro e che, soprattutto nei ritornelli, ci comunichino qualcosa di “già sentito” rischiando di restare nell’anonimato. Per questo, gli Spiritbox hanno sempre cercato di farsi strada nell’originalità, provando a distinguersi attraverso quello che è diventato il loro punto di forza, ovvero l’alternanza di leggerezza e pesantezza nel sound. 

Questa dualità che caratterizza la band canadese è facilmente riconoscibile già nei primi due brani presenti nell’album, Sun Killer e Hurt You. Infatti, se la prima mostra un animo più sinfonico, magari ricordando a tratti anche band come gli Evanescence ma dal carattere più moderno, la seconda resta più ancorata ai canoni del MetalCore, con chitarre e bassi pesanti affiancati ad uno scream aggressivo alternato al ritornello melodico con voce pulita. La terza traccia, Yellowjacket, presenta una grande sorpresa per gli amanti del genere, ovvero un featuring con una delle voci più potenti e importanti nel panorama Core, quella di Sam Carter degli Architects. Un brano carico e incredibile, in cui il contributo dato da un artista come Carter è più che palpabile e dove a fare da padrone è proprio lo scream di quest’ultimo, arricchito dai cori emozionali tipici del MetalCore che ricordano molto band come i Parkway Drive.

La fantastica frontwoman Courtney LaPlante ci delizia per tutta la durata dell’album con la sua voce armoniosa e piacevole, il cui apice si manifesta nella meravigliosa Secret Garden e nel brano di chiusura, Constance, solenne e introspettiva. 

Cosa dovrebbe aspettarsi dunque l’ascoltatore da Eternal Blue? Sicuramente un album molto valido, assolutamente non scontato e sentimentale, a tratti commovente. Gli Spiritbox mostrano dunque una combo vincente che sono sicuramente in grado di gestire, dimostrandosi capaci e maturi nonostante questo sia il loro primo full-length. Una band, quindi, che avrà tanto da dire nel panorama MetalCore.

 

Spiritbox

Eternal Blue

Rise Records

 

Nicola Picerno