Ok, lo ammetto: sono davanti ai miei due fogli (quello su cui ho preso appunti a biro e quello digitale di word) da mezz’ora e sto incontrando qualche difficoltà a scrivere la recensione del concerto al Sequoie Music Park di Glen Hansard. Ogni volta che arrivo faticosamente alla fine di una frase la rileggo e mi sembra che non renda giustizia allo spettacolo al quale ho assistito ieri sera, che è stato perfetto sotto ogni punto di vista; la scaletta, l’esecuzione impeccabile, la performance emozionante, il contesto, l’atmosfera, la quasi totale assenza di cellulari in aria, le magliette dei Dinsoaur Jr. indosso al pubblico, la frescura nonostante la stagione e così via. Insomma, la sensazione è che questo concerto si avvicini al concetto di ineffabilità ma, sperando non sia così, lascio perdere inutili preamboli e provo a raccontarlo.
A dire il vero, l’arrivo è traumatico e molto disorientante. Davanti all’ingresso svolazzano magliette di Yngwie Malmsteen e mentre faccio la fila sento in lontananza, e vorrei poter dire in sottofondo, pessima trap (mi scuso per la ridondanza) accompagnata dal classico “bella raga” alla termine di ogni base. Mentre mi guardo intorno impaurito, cercando qualche segnale che mi indichi che sono nel posto giusto, l’unica cosa a cui riesco a pensare è “chissà dove sono finito, ora devo rimettermi in macchina e arriverò sicuramente tardi al concerto che devo recensire […]” ma per fortuna c’è sempre una spiegazione: il virtuoso svedese della sei corde aveva suonato la sera prima e il parco ospita contemporaneamente due festival, uno rivolto ai più giovani e uno nel cui cartellone si trovano, oltre a Glen Hansard, Nick Mason e gli immarcescibili Kool & The Gang. Chiarito il malinteso mi accomodo e attendo l’inizio del concerto. Qui arriva la parte difficile dell’articolo.
Il menestrello di Dublino (definizione che di qui a poco si rivelerà riduttiva e fuorviante) è in tour per promuovere il suo ultimo album, All That Was East Is West Of Me Now, uscito nel 2023. Si tratta di un disco elettrico le cui canzoni, che occupano una buona parte della setlist e che dal vivo sono ancora più intense, rock e belle delle versioni in studio, spiazzano chi, come me, si aspettava un concerto soft. È una bellissima sorpresa. La musica è elettrizzante e coinvolgente, Glen tira calci nel vuoto in preda all’entusiasmo e il violinista rompe l’archetto dopo un assolo distorto e sperimentale. Mi sembra un buon momento per sottolineare che la band, come si dice nell’ambiente, spacca! La pianista svolge senza problemi l’arduo compito di non far rimpiangere Marketa Irglova, il chitarrista colora gli arpeggi di Hansard con interventi perfetti, il batterista trascina l’intero gruppo con le sue rullate e il bassista ci regala linee bellissime come l’introduzione di Down On Our Knees, in cui echeggiano tanto gli anni ’80 dei Cure quanto le produzioni più recenti di Mark Lanegan.
L’inizio è folgorante e lo show non fa che migliorare quando Glen si fa passare dall’operosissimo roadie la chitarra scassata di Once e suona When Your Mind’s Made Up, uno dei momenti più toccanti della colonna sonora del film e della serata. Oltre a proporre i grandi classici del suo repertorio, la star (anche se è una persona così umile e alla mano che il termine star un po’ stona) della serata chiacchiera tanto; d’altronde la comunicazione è un fattore fondamentale della carriera di uno che è nato come artista di strada. Così scopriamo che alcune canzoni sono state pensate in un supermercato siciliano e registrate in uno studio vicino al Lago di Como. Si vede che quello che fa ha un significato speciale per lui, che le sue canzoni non sono parole al vento, che le sente, che si abbandona e che ha una passione sconfinata per la musica che riesce a trasmettere a tutti i presenti, che ascoltano, cantano, fanno air drumming, restano a bocca aperta e si emozionano.
Glen suona con la stessa credibilità canzoni alternative degli anni ’90 de The Frames, la sua prima band, come la stupenda Revelate, ballate tranquille che si concludono sul bordo del palco con lui che canta senza il microfono e brani altrui. È infatti una girandola di eventi, un concerto di sorprese, di dediche a persone vicine e lontane, di cover fuori scaletta. A metà concerto invita un paio di amici a suonare insieme a lui una canzone scritta dal padre di uno dei due (Gloria, di Claudio Chieffo e non di Umberto Tozzi, come hanno pensato tutti), dopodiché non smette di chiamare gente sul palco. A questo punto è la volta di un’amica coinvolta in un medley improvvisato di Her Mercy e Drive All Night di Springsteen, che il cantautore attacca facendosi allungare dall’onnipresente, reattivo roadie un capotasto e accordando la chitarra semiacustica sulla dissolvenza finale del primo dei due pezzi. Per questo motivo il concerto è stato accompagnato dalla costante sensazione che stesse per accadere qualcosa di inatteso e di incredibile; e alla fine non sarebbe stato così strano se si fosse palesato Eddie Vedder nel momento in cui Glen lo ha salutato, rivolgendo anche a lui un pensiero, dedicando anche a lui una canzone, l’ultima della serata.
Io credevo di andare a sentire Outspan de The Commitments o un cantautore malinconico con il cuore spezzato (altrimenti detto broken hearted hoover fixer sucker guy) e invece sono andato a sentire Glen Hansard, che è tutto questo e molto di più, che tiene la chitarra come Dylan, ma a parte questo non è paragonabile a nessuno. È un musicista vero, nel senso che sa suonare la chitarra, sa usare gli accordi e sa scrivere canzoni, tutte doti ormai tristemente dimenticate; è un cantante bravissimo, perché sa urlare e sussurrare, graffiare e accarezzare con la sua voce, a volte acuta e a volte bassa; e poi è rock, folk, soul, acustico, elettrico, eclettico.
È stato il mio primo concerto di Glen Hansard e sicuramente non sarà l’ultimo.
Gianluca Maggi