TOdays Festival 2022 • Day 3
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sPAZIO211 (Torino) // 28 Agosto 2022
PRIMAL SCREAM
YARD ACT
DIIV
ARAB STRAP
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Il terzo giorno dei TOdays ha come protagonista la lineup. Un meraviglioso dessert, per completare l’indigestione, nomi da festival internazionale, nelle stesse sei ore.
Siamo infatti al primo sold-out dei tre giorni, ma era inevitabile.
Iniziano gli Arab Strap, ovvero l’unica coppia che si sia riunita in tempi di pandemia, per altro dopo quindici anni di separazione. Aidan Moffat e Malcolm Middleton sul palco sono un polo magnetico, creano musica, atmosfera, racconto, conto e caffè, grazie. La loro esibizione galleggia sull’elegante tappeto sonoro creato da Middleton sui cui Moffat recita e canta i suoi testi. Hanno iniziato nel 1995, e si vede. Soprattutto si sente. Monolitici.
Il secondo, golosissimo, nome sul cartellone sono i DIIV, in tour per presentare l’ultimo lavoro, Deceiver, un disco che racconta la rinascita, o, forse, data la storia personale del cantante Zachary Cole Smith, siamo davanti a una resurrezione. L’album è stato registrato a Los Angeles e prodotto da Sonny Diperri (Nine Inch Nails, My Bloody Valentine).
Suonano ben tredici brani, trascinandoci tutti in un universo parallelo di dream pop e shoegaze, quasi patinato, a volte invece sporco e graffiato a ricordare certi momenti lirici di Corgan e soci.
Ciondolano i giovani.
Ciondolano i cinquantenni.
Ciondola il meteo (di nuovo).
E ciondola Torino da tre giorni.
È un set di altissimo livello, di maniera ma sorprendente, e alza tantissimo l’asticella della serata.
Asticella che faticano a superare gli Yard Act, terza band in lista. Erano attesi, attesissimi, e il loro live, al netto di tutto è stato buono. Dodici pezzi, dieci da The Overload, la super hit eponima che ha fatto ballare lo sPAZIO211 in toto, tutto ben eseguito anche se con qualche ma. Ho colto sfumature che nell’album non avevo colto e che hanno increspato il mio nasone. Era come se un rumore di fondo dei Franz Ferdinand si fosse incastrato nel mixer, cambiando d’accento l’intero album. Che rimane un disco di altissimo valore, sia chiaro.
“What an amazing lineup” chiosa il cantante James Smith, ricordandoci che la serata deve ancora vivere quello che tutti attendono come l’evento del TOdays 2022: i Primal Scream che ci ripropongono Screamdelica.
Sul palco sale una leggenda vivente, Bobby Gillespie, fasciato in un sobrio completo che riprende la copertina di un’altra leggenda: l’album Screamadelica, uscito nel 1991 e di cui avremmo dovuto festeggiare il trentennale. L’odioso condizionale è lì a ricordarmi e a riportare alle cronache che la band inglese, del glorioso album, ha suonato due pezzi, il secondo dei quali nell’unico brano dell’encore. Niente full album. Hanno suonato un’ora, titoli di coda compresi, e ci hanno lasciato con il cuore infranto e senza limoncello.
Però.
Però alla fine ho sentito un set dei Primal Scream. Ho visto Gillespie. Movin’ on Up l’hanno suonata, torno a casa pure asciutto. Non sarà questo dispetto in zona cesarini a rovinare la tre giorni. La lineup della terza sera entra nella lista dei concerti torinesi da ricordare, vicino a quelli, pieni di mitologia, degli anni novanta. Perché Torino, in questo ultimo week end di agosto aveva un po’ quel sapore di una volta, di capitale inconsapevole di un movimento un po’ indie un po’ sabaudo, di piccolo centro magnetico per band che poi avrebbero segnato un’epoca. In fondo, al netto degli streaming, dei social, dei telefoni sempre più verticali, quello che conta è sempre e solo quello che accade sul palco e lì sopra la musica viene giudicata, goduta, ammirata, assaggiata. L’opera d’arte nell’epoca della sua instagrammabilità, ha valore quando vive nel momento del live. Segnare.
Fine del festival, torno a casa e metto su Screamadelica.
In tasca quattro token.
Scarpe da lavare, polpacci di ghisa.
Ma ho ancora i bassi che saltellano sul diaframma.
Andrea Riscossa
foto di Ilenia Arangiaro
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TOdays Festival 2022 • Day 2
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sPAZIO211 (Torino) // 27 Agosto 2022
FKJ
MOLCHAT DOMA
LOS BITCHOS
SQUID
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]La seconda serata del TOdays inizia con una piacevole sorpresa. Gli Squid riescono in quindici minuti a richiamare il pubblico sotto il palco, a farlo ciondolare prima, saltellare poi e pogare infine. Fidatevi, dato l’alto numero di austeri sabaudi presenti, riuscire a sciogliere così le genti non è da tutti.
I cinque ragazzi di Brighton sono saliti sul mio personalissimo podio, senza scendere dalla prima posizione. Uno show senza momenti di calo, divertente, equilibrato tra il ben suonato e il buon delirio, con un cantante/batterista che sa essere piuma e sa essere fero, e del resto non è un caso se BBC Radio se li coccola, se KEXP li ha già invitati un anno fa e se la critica ha finito le metafore e le iperboli. Davvero eccellenti ed inaspettati.
Poi ci sono un’australiana, una uruguaiana, una svedese e un’inglese. Quella che potrebbe sembrare l’inizio di una (brutta) barzelletta è invece il quadro delle provenienze delle Los Bitchos, seconda band in cartello. Ancora più affascinante sarebbe elencare la lista delle influenze musicali o, ancora meglio, delle sfumature che si possono cogliere nel loro set. Come in una gara di degustazione di barolo ma coi frizzipazzi sotto la lingua, ho colto, nell’ordine: base di cumbia, anni settanta, condita con surf music, un pizzico di dream pop, a volte solo pop, una spolverata di punk, cadenze metal, follia e gioia Q.B..
Tutto questo, già al loro primo live di qualche anno fa, fece innamorare della loro musica un certo Alex Kapranos, noto ai più come leader dei Franz Ferdinand, che da quel giorno diventa il loro produttore.
Che dire di più. Divertenti, sicuramente originali, forse un po’ ripetitive, nonostante la mole di influenze citate.
Terzo gruppo in cartellone, i Molčat Doma, che giustificano la presenza di giovini vampiri new-goth a bersi una birra vicino a me.
Mentre si avvicina un temporale di biblica memoria, mi sovvengono i Subsonica, quando inneggiavano al Cielo su Torino. In questo caso è al fianco del gruppo bielorusso, creando un’atmosfera di gioioso Ragnarǫk, tra lampi e un sound che è un inno alla darkwave, alla coldwave, insomma quel piglio lì. I tre di Minsk devono la loro gloria ai social, in particolare a TikTok, che li ha portati dritti al successo negli USA. Il loro primo singolo, Sudno (Boris Rizhy), solo su Spotify conta qualcosa come 163 milioni di streaming.
Il loro live è coerente con immagine e cornice, non esce mai dai binari del genere sopracitato (tanto che omaggiano direttamente The Cure in una intro, citando A Forest) e svolge il suo compito, seppur in cirillico.
A chiudere la serata ci pensa FKJ, acronimo French Kiwi Juice, e al secolo Vincent Fenton.
Il palco viene trasformato in un salotto, con tanto di divano e luci soffuse. Pianoforte, batteria, chitarra, un sax e poco altro di analogico. Il polistrumentista francese ha un approccio simile a Tash Sultana, ma punta più sulla qualità e sul minimalismo, lo spettacolo è più intimista e meno di impatto. Ha raggiunto i due miliardi di streaming e ha collezionato un numero di live impressionante, compresi Coachella e Lollapalooza. Suona diversi generi, dalla french house al nu jazz, ma incasellare la sua musica in un solo genere o corrente è un esercizio vano.
Il suo live è stato funestato da una tempesta tropicale che ha lentamente spostato il pubblico verso zone riparate. Per i pochi eroici spettatori FKJ ha comunque portato a termine il suo show, dispiace non averlo applaudito fino all’ultima nota.
Fine della seconda serata, siamo zuppi ma salvi in auto.
In tasca due token.
Scarpe fradice e morale alto.
Molto, molto bene.
Andrea Riscossa
foto di Roberto Mazza Antonov
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TOdays Festival 2022 • Day 1
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sPAZIO211 (Torino) // 26 Agosto 2022
TASH SULTANA
BLACK COUNTRY, NEW ROAD
HURRAY FOR THE RIFF RAFF
ELI SMART
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Il compito di rompere il ghiaccio e dare inizio alla festa spetta a Eli Smart, giovane cantautore di origine hawaiana, trapiantato in quel di Liverpool e seguito dalla stessa etichetta di Arlo Parks. Il mix piuttosto ardito produce quello che lo stesso artista definisce “Aloha Soul”.
Sul palco c’è una band di ragazzi capaci e che si divertono, con un sound sicuramente figlio di contaminazioni lontane, ma che alla fine, al netto di tutto, fa semplicemente ballare il pubblico sotto palco con una proposta fresca, di facile ascolto e piacevole. Insomma, uno spritz per iniziare va più che bene.
Da registrare il fatto che il bassista sembri il figlio segreto di Jack Black, cosa che, inevitabilmente, lo fa diventare subito un idolo assoluto.
Si metta agli atti anche il fatto che l’intera band, finito lo show, è scesa tra il pubblico e ha partecipato e ballato fino all’ultima canzone dell’ultimo gruppo.
Con Hurray For the Riff Raff si cambia registro. La seconda band della prima serata alza l’asticella, ma era previsto. Alynda Segarra sembra una giovane Patti Smith, per presenza e padronanza dei testi. Le sue radici portoricane e newyorchesi si fondono in un mix che spazia dal folk al (quasi) raggaeton. Sugli scudi il bassista che suona con un dito il basso, con la mano destra le tastiere e si diletta nei cori, il tutto contemporaneamente. Sfatato pubblicamente il dramma del multitasking maschile.
Son stati una piacevole sorpresa, soprattutto dopo averli visti dal vivo.
Ora, sappiate voi che leggete che il sottoscritto era sottopalco soprattutto per il terzo nome in cartellone, i Black Country, New Road, orfani di Isaac Wood.
La setlist del collettivo è composta da brani mai registrati e nulla, quindi, proviene dai due dischi precedenti, For the First Time e Ants From Up There.
I nostri però non deludono. In riga, spalmati sul palco come improbabili personaggi di una inquadratura di un film di Wes Anderson, danno vita a quanto di più vicino a un klezmer jazzato minimalista post-qualcosa. Per quanto questa definizione abbia senso. Si susseguono dialoghi senza regole tra strumenti, che diventano attori di un racconto e che entrano in scena con urgenza, per mostrare un punto di vista, a costo di farlo fuori tempo. Un Satie con la sindrome di Tourette.
A chiudere segue Tash Sultana, il live più atteso dal pubblico della serata, quello anagraficamente più giovane dell’intero festival. Del resto la giovane polistrumentista australiana ha una storia tutta social, talento e streaming a grandine. Nasce come artista di strada, nel 2016 pubblica su youtube il singolo Jungle. In cinque giorni arriva al milione di visualizzazioni (ora ne conta 149 milioni, è ancora online). Nel 2016 crea la sua etichetta indipendente Lonely Lands Records e pubblica il primo EP, Notion. Seguono tour, fama mondiale, due dischi.
Sul palco di Torino Tash suona tutto quello che le passa vicino. Dalla chitarra al flauto, dalle percussioni al sax. Si auto-campiona con la loop station, crea e costruisce il pezzo davanti al pubblico, poi improvvisa. La prima parte dello show è una dimostrazione muscolare di talento. Non c’è autotune, sono brandelli di bravura analogica che passano per la loop station e che riverberano e amplificano, diventano subacquei, perdendosi in lunghissimi assoli.
È padrona del palco, nonostante la giovane età e le dimensioni ridotte. Un piccolo punto di fuga lassù, sul palco, in perenne movimento e urgenza creativa.
Finita la prima serata, abbiamo orecchie sazie e gambe molli.
In tasca tre token.
Scarpe distrutte e polvere nei denti.
Benissimo.
Andrea Riscossa
foto di Roberto Mazza Antonov
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Bay Fest 2022 • Day 4
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B A Y F E S T
• Day 4 •
Pool Party!
Mapo Club (Bellaria Igea Marina) // 14 Agosto 2022
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ANTI-FAG
foto di Luca Ortolani
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Bay Fest 2022 • Day 3
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B A Y F E S T
• Day 3 •
Parco Pavese (Bellaria Igea Marina) // 13 Agosto 2022
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THE HIVES
CIRCLE JERKS
RAW POWER
THE BABOON SHOW
SPIDER
ACID BRAINS
Acoustic Stage:
YOTAM BEN HORIN
MIKE NOEGRAF
foto di Luca Ortolani
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Bay Fest 2022 • Day 2
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B A Y F E S T
• Day 2 •
Parco Pavese (Bellaria Igea Marina) // 12 Agosto 2022
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THE INTERRUPTERS
MILLENCOLIN
IGNITE
MAKE WAR
THE LAST GANG
GUN.INC.
foto di Luca Ortolani
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Bay Fest 2022 • Day 1
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B A Y F E S T
• Day 1 •
Parco Pavese (Bellaria Igea Marina) // 11 Agosto 2022
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FLOGGING MOLLY
BOUNCING SOULS
SICK OF IT ALL
THE FLATLINERS
GET DEAD
THE LOYAL CHEATERS
foto di Luca Ortolani
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Paolo Nutini @ Pistoia Blues
L’attesa inizia nel 2014, anno di pubblicazione di Caustic Love dopo il quale passano ben otto anni di silenzio fino alla recente uscita di Last Night in the Bittersweet, progetto con cui ha richiamato i fan attorno a sé, anche se non lo avevano mai scordato. Così, Paolo Nutini, il cantante britannico di origini toscane, ha chiuso l’ultima edizione del Pistoia Blues Festival con un sold out già annunciato e una piazza che lo ha circondato in un abbraccio caloroso di applausi, salti, sorrisi e canzoni cantate o masticate a fior di labbra. Un modo meraviglioso per accogliere chi ha lasciato un segno nel tuo cuore musicale, e per salutare una città che, come ogni anno, ospita vere e proprie esperienze sonore.
Entrare nella piazza attraversando i controlli della sicurezza è ormai una prassi a cui non faccio più attenzione, tanto il servizio è veloce e professionale, senza intoppi e con tanta cortesia che, ammetto, fa sempre piacere. Vorrei dirvi che vedere tutte quelle persone in attesa mi sorprende, ma non è vero, lo trovo normale quando il palco promette tanta bravura ed emozioni, però ogni volta è come se fosse la prima, e ti fa piacere vedere quante persone hanno voglia di essere lì, come parte viva e pulsante dell’evento. A differenza della serata in cui si sono esibiti i Simple Minds, in piazza non ci sono sedie, ad eccezione dei classici spalti, ma non sembra un problema per nessuno, anzi, c’è un certo piacere a ricominciare a vivere i concerti come succedeva prima della pandemia. L’età è varia, un artista come Nutini riesce a riunire intere generazioni, e le differenze di qualsiasi tipo si annullano per qualche ora.
Come la sera precedente, anche questa esibizione non è preceduta da nessun opener, Paolo Nutini sale sul palco semplicemente, esibendo una normalissima t-shirt chiara, jeans, un capello folto, forse qualche chiletto che il tempo ha concesso anche a lui, e tutta la voglia di infuocare quel pubblico che non aspetta altro da anni. Il loop rarefatto e potente di Afterneath apre il concerto, tra gli applausi e le voci estasiate del pubblico. Dall’aspetto del cantautore scozzese diresti che stava passando per caso davanti al palco, ha trovato un microfono, ha raccolto amici musicisti in una band e ha iniziato a cantare catturando l’attenzione di tutta la piazza. Non cerca di compiacere l’occhio del pubblico, a lui interessa l’orecchio e tutto ciò che può suscitare suonando, dimostrando di essere uno di quegli artisti talmente capaci che non deve vestirsi come un pagliaccio per riempire il palco. E Nutini sa come muoversi seguendo la propria musica, oppure facendosi seguire da essa, senza strategia, ma solo con la voglia di stare bene con chi lo ascolta.
Grida i titoli delle canzoni come un regalo lanciato al suo pubblico, mentre lascia che altre parlino da sole con l’attacco delle prime note. Lose It è uno squarcio nell’aria, mentre Scream (Funk My Life Up) si avvale di un ritmo groovoso del funky, ma è con Acid Eyes che arriva, almeno per me, quella sensazione che prende ogni centimetro di pelle, partendo dal basso che sfoggia le sue capacità vocali tra toni alti e bassi, mentre il brano acquista un arrangiamento più rock rispetto all’originale. L’atmosfera sonora è rarefatta, sui monumenti vengono proiettati morbidi giochi di luce, mentre i battiti sono quelli del cuore di un pubblico che all’unisono inizia a cantare, e continuerà a farlo per molti altri brani, tra cui la sperata Candy, che riempie l’aria e il respiro di nostalgica e dolce fatalità. Intanto l’artista non solo canta, ma parla, fa delle battute, alza il bicchiere di birra per brindare con tutti quelli che sono lì, con il corpo, oppure solo col pensiero. Through the Echoes, invece, fa male, arriva con il suo timbro graffiante che ti strazia, non più un canto, quasi una richiesta di ascoltare veramente, prestare attenzione a chi abbiamo dentro di noi. Per Coming Up Easy il palco si popola di una schiera di sei corde che trasfigurano la piazza in un viaggio verso mete lontane, campi di qualcosa che attraversi con la mente, forse campi di quell’amore che la musica, solo lei, ti dà il coraggio di attraversare.
Con il ritornello di Shine a Light, in pieno bis, coglie l’occasione di omaggiare i Simple Minds che lo hanno preceduto la sera prima cantando Don’t You (Forget About Me) per poi riprendere il suo brano, ma confermando così un legame con il gruppo che, come lui, proviene dal panorama musicale scozzese. L’esibizione dell’artista si conclude con un secondo bis in cui canta Guarda che luna di Fred Buscaglione, quell’omaggio ai grandi artisti del nostro passato che troppo spesso ci scordiamo. La canzone è struggente e inaspettata, come la sua interpretazione che è talmente intensa da rendere emozionato anche lui. In quel brano ci sono tutte le sue origini, tutta la sua sensibilità, la storia musicale che forse il padre si è portato dall’Italia e con cui è cresciuto. Il pubblico ascolta in religioso silenzio. C’è chi balla, chi si abbraccia, non necessariamente sono coppie, alcuni sono amici in piccoli gruppi. La musica quando è bella non ha età, e quando arriva ti scordi dell’alterigia con cui viene catalogata in compartimenti stagni e ti lasci solo trascinare dall’emozione del momento, dai ricordi che può evocare, o semplicemente dalla bellezza che senti far parte di te, anche se non sai come possa succedere.
A fine serata, dalla piazza usciamo in una città che non ha voglia di dormire e popola il vivace centro mescolandosi a chi ha ancora le note nelle orecchie e nel cuore. Con me c’è Giulia, l’amica che mi ha accompagnata in questo concerto, e ha il sorriso più bello che si possa immaginare, oltre a tutta alla soddisfazione di chi ha vissuto una piccola bolla di sapone dove l’arte ci difende dalla noia quotidiana. In fin dei conti la felicità ha la distanza di un giro di do. Abbracci Pistoia con tutta la settimana che ti ha regalato, la stanchezza del corpo, la forza dello spirito, le luci che popolano ancora gli occhi. Si tratta di un arrivederci, ma già l’atmosfera del festival ti manca, solo qualche video e qualche scatto salvato sul cellulare ti dicono che non è stato un sogno, che è stato tutto vero. Saluti con il pensiero tutti quelli che hanno reso possibile questa bella esperienza, dagli artisti ai fonici, al servizio di sicurezza, perché tutti sono importanti perché un concerto possa essere realizzato. E non rimane altro che aspettare l’edizione del 2023.
Alma Marlia
Simple Minds @ Pistoia Blues
Ma suonano ancora? Assolutamente sì, e non solo suonano, celebrano i loro 40 anni di hit con un tour mondiale dove Celebrating 40 Years of Hits diventa un vero e proprio motto. Questi sono i Simple Minds, che finalmente, dopo due anni di rinvii a causa della pandemia, hanno fatto tappa il 15 luglio al Pistoia Blues Festival 2022, scegliendo il palco toscano per esibirsi in una serata che ha abbracciato musicalmente i 42 anni della loro carriera con una formazione diversa da quella degli esordi, ma sempre capitanata dalla voce di Jim Kerr e dalle corde di Charlie Burchill.
Provenienti dalla Scozia, terra di musica raffinata tra cui troviamo anche artisti come i Franz Ferdinand e Mogwai, i Simple Minds provengono dalla scena punk della Glasgow anni ’70 per poi addentrarsi negli anni ’80 con una serie di singoli di successo come Promised You a Miracle del 1982 o Waterfront del 1983. Tuttavia, è con la pubblicazione di Don’t You (Forget About Me) nel 1985 che diventano una delle più grandi band mondiali e tra la fine degli anni ’80 e dell’inizio degli anni ’90 vendono circa 60 milioni di dischi in tutto il mondo. Ma è proprio negli anni ’90 che per il gruppo inizia un lento declino e per un po’ la band si riduce a un duo formato da Jim Kerr e Charlie Burchill. Sono gli anni 2000 che vedono i Simple Minds riprendere forza pubblicando non meno di sette album in studio, tra cui l’ultimo, Walk Between Worlds del 2018, che ha raggiunto la quarta posizione nella classifica degli album del Regno Unito, e andare in tournée con l’arrivo dei nuovi membri Cherisse Osei alla batteria, Berenice Scott alle tastiere, Ged Grimes al basso.
Con questi ricordi in mente, mi avvicino alla piazza dove vedo file serpentine di un pubblico eterogeneo, accomunato dall’aver passato l’adolescenza in pieni anni ’80, e pronto, per una sera, a tornare indietro nel tempo, con un po’ di nostalgia per il tempo passato, e la voglia di catturarlo per una qualche ora di nuovo nel presente. Il concerto è sold out, la piazza è piena di sedie pronte ad accogliere il pubblico, ma nei dintorni c’è anche chi, non avendo potuto comprare il biglietto, aspetta trepidante ai margini, oltre le transenne, nella speranza di catturare qualche nota, un pezzo di strofa, chissà, magari quello che li ha fatti innamorare tanti anni fa.
Il concerto inizia senza un’esibizione di una band di supporto, su un palco che si accende di luci e colori vivi e forti, che infuocano subito la piazza con le prime note e un Jim Kerr ansioso di concedersi al pubblico con la sua voce e sonorità sintetiche hanno trascinato il pubblico presente in un sound di pieni anni ’80. Kerr si muove sul palco con voglia di divertirsi e disinvoltura e anche se l’aspetto tradisce gli anni che sono passati, la sua energia sembra non essere stata toccata dal tempo. Parla in un italiano stentato ma efficace con il pubblico, l’impatto emotivo è alto, mentre Glittering Prize si muove su uno sfondo di paillette scintillanti che salgono verso un cielo indefinito insieme alla sua voce e neppure l’inciampo di qualche parola scordata di Promised You a Miracle lo ferma: Kerr chiede scusa e ricomincia, tra gli applausi di tutti, perché solo chi ama davvero ciò che fa può cadere senza abbattersi, e rialzandosi sempre.
Dalla leggerezza di Promised You a Miracle, l’aria si riempie delle iniziali sfumature più cupe di Book of Brilliant Things dove la voce calda e profonda di Sarah Brown incanta il pubblico, mentre la musica lo scuote con la deriva rock che esplode successivamente, e da un canto evocativo, con l’arrivo di Kerr passa a vera grinta. La Osei fa scalpitare il pubblico con il suo assolo di batteria, lei che sta con i suoi strumenti al centro del palco, in alto, come una dea che abbraccia e sorveglia la band e il pubblico, si muove con forza e decisione, i capelli che si sono raffiche di battiti nell’aria, e le bacchette che sembrano l’estensione del suo corpo. Ed è in quel momento che sai che da grande vorrai diventare una tosta batterista.
Mi guardo intorno e vedo che il pubblico ormai si è alzato, pochi sono quelli rimasti seduti, i più temerari vanno sotto il palco a scattare una foto per cui sono pronti a rischiare tutto, anche il rimprovero del servizio di sicurezza, e scappare felici come se avessero rubato un attimo di gioia. C’è chi balla e canta, come ballava e cantava il pubblico di giovanissimi del concerto di Ariete della serata precedente. Negli occhi la stessa voglia di musica e di libertà. Li immagini nella loro quotidianità, nella varietà dei mille lavori, magari seri professionisti, madri e padri attenti e preoccupati di ogni inquietudine dei propri figli, e poi li vedi lì, lontani dai pensieri per il momento di un concerto. Mentre l’immaginazione cavalca, Kerr incita tutti ad avvicinarsi al palco ed è il delirio, vengo travolta di ondate di persone che scendono dagli spalti per prendere un posto in prima linea, che si fanno spazio tra le sedie, le allontanano per vivere il concerto come deve essere vissuto: con tutto il proprio corpo. Magnificamente indisciplinati. Con l’attesissima Don’t you (Forget About Me) si raggiunge l’estasi e il delirio esplodono, e tutto è lecito, anche ballare come se non ci fosse un domani con passi che il tempo sembra aver scordato ma che la musica, solo per noi, riporta. Il brano viene interpretato con una sezione di canto extra-lunga, Kerr porge il microfono al pubblico per farlo partecipare e il pubblico non se lo fa ripetere due volte, anzi, non vedeva l’ora e canta a loop un “Lalala” per un tempo che sembra infinito.
Il bis di rito inizia con un “Non vogliamo andare a casa! Vogliamo suonare più musica!” gridato da Kerr al microfono, in cambio di un boato di voci e applausi. Berenice Scott lascia le tastiere per duettare con la Brown in Speed Your Love to Me che diventa dolce ed evocativa, delicata, quasi una pausa che apre all’attesissima Alive and Kicking, decisa e potente. Il concerto si chiude con Sanctifying Yourself, il kick potente della batteria incalza le persone a ballare, la voce di Kerr invita a perdersi per una volta oppure per sempre su uno sfondo rosso dove volano sagome di colombe bianche. C’è il rock nell’aria, la voglia di scrollarsi i problemi via di dosso, barattarli per un po’ di bellissime note.
Vado via dalla piazza con adrenalina nel cuore e nelle gambe, ma tra tutte le canzoni che hanno infiammato la serata, ripenso alla ballata Belfast Child, che ha ammutolito la piazza in religioso silenzio, per poi riempire l’aria di synth e batteria, con l’abbraccio della chitarra elettrica di Burchill. Una pausa surreale con il timbro di Kerr che riesce sempre a librarsi nell’aria, anche se il tempo gli ha donato delle sfumature a volte più basse, ma non per questo ne ha intaccato l’intensità. Mi vengono alla mente alcune critiche che ho letto per esibizioni per altri gruppi e cantanti a cui il tempo ha inevitabilmente cambiato un po’ la voce. Più che critiche, vendette musicali. Eppure questi artisti continuano a fare musica da anni, continuano a far provare emozioni, sensazioni che altrimenti rimarrebbero chiuse lì, in qualche parte di noi che neppure conosciamo. Questa è per me l’arte, non mantenere le corde vocali dei vent’anni, che poi, alla fine, l’età passa anche per il pubblico, ed è bello vedere che viaggiamo verso il futuro insieme.
Alma Marlia
Ariete @ Pistoia Blues
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• Ariete •
Piazza Duomo (Pistoia) // 14 Luglio 2022
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]Ritrovare tutto come sembra di averlo lasciato dà sempre la sensazione che il tempo non passi così velocemente come si dice, e così, dopo aver appena chiuso gli occhi dopo un concerto, ecco che Pistoia Blues Festival 2022 li riapre per ospitare un’altra protagonista del progetto Storytellers: la giovane cantautrice Ariete. Nata ad Anzio, classe 2002, l’artista, al secolo Arianna Del Giaccio, fa parte della corrente indie pop del panorama musicale italiano di cui in poco tempo è diventata protagonista con decisione e semplicità, passando dalla partecipazione a X-Factor del 2019 dove la sua eliminazione non è stata per lei un ostacolo, bensì un’esperienza che l’ha fatta crescere fino a portarla, ora, a calcare i palchi di tutta la penisola.
Le strade di Pistoia sono questa volta riempite da un pubblico molto più giovane rispetto a quello di serate precedenti. All’inizio, sono circondata da vari adolescenti da soli, altri accompagnati dai genitori che, come me, si avventurano all’interno della piazza. Ci sono ragazzi anche più grandi, alcuni poco più che ventenni, che mi guardano con la stessa curiosità mista a divertimento con cui anche io e i miei amici, molti anni fa, guardavano i coraggiosi “zii” che si mescolavano alla nostra generazione. Quanto ci vuole poco, giusto qualche anno, per capire che l’amore per la musica non ha età. Altri non ci fanno caso, mentre qualcuno vede il pass e mi chiede informazioni pensando che sia della sicurezza.
La serata si apre con l’esibizione dei BNKR 44, più che un gruppo, un collettivo musicale di sette ventenni della provincia di Firenze che scaldano il pubblico con il loro rap italiano, battute, il loro occupare ogni spazio libero del palco che trasmette la loro la voglia di divertirsi ed essere protagonisti della scena per tutto il tempo che gli è concesso. Nel frattempo, piazza del Duomo si popola sempre di più, l’età degli spettatori si alza, diventa più eterogenea, e anche se ormai lo sai, ogni volta è bello vedere come la musica riesca ad unire le generazioni, quelle che un po’ si amano e si scontrano nella vita di tutti i giorni, ma che per qualche ora si scorda dei conflitti per costruire un nuovo ricordo da condividere.
Durante la pausa tra gli opener e l’esibizione di Ariete, i ragazzi sotto il palco applaudono, chiamano a gran voce l’artista, fanno commenti fisici e sentimentali, la voglia di ascoltarla e vederla si può quasi toccare. Improvvisamente, mi trovo in un bosco di cellulari alzati in attesa di cogliere l’attimo tanto atteso in uno scatto, forse in un video da far diventare una storia, il futuro ricordo del concerto. Finalmente, Ariete sale sul palco! Sono circondata da uno scroscio di applausi, gridolini di esultazione mentre guardo quella ragazza acqua e sapone, con il corpo esile perso dentro a un jeans e una camicia extra large, gli occhi che guardano tutti sotto la tesa di un cappello che lascia sfuggire qualche ricciolo bruno: l’anti-divismo fatto persona. E con la stessa semplicità con cui è salita sul palco, abbraccia la chitarra e lascia che le note di Specchio si diffondano per la piazza, per andare oltre lo sguardo serio dei palazzi, superare le transenne e girare per le strade della città. L’impatto emotivo esplode, subito, senza se, senza ma.
Ariete canta molti dei suoi successi, che, anche se rispetto ad altri artisti più esperti possono non sembrare molti, racchiudono un percorso artistico e personale di rilievo, come Quel Bar, il suo primo singolo, che diventa parte del cuore musicale della serata con il suono morbido e fluido della sola chitarra acustica. In canzoni come Giornate noiose oppure Cicatrici, scritta a quattro mani con Madame, oppure Tatuaggi, l’artista non racconta la sua generazione come un narratore venuto da lontano, lei la rappresenta nelle sue dolcezze, nei disagi profondi e incerti, nelle certezze che sbaragliano molti quarantenni, nell’allegria e nella leggerezza dei vent’anni che non può e non deve essere condannata. La sua voce è dolce, ma non per questo non possiamo definirla decisa e consapevole di ciò che sta esprimendo, la musica arriva, ma non è aggressiva neppure quando dal semplice accompagnamento della chitarra si passa al supporto della band. I testi sono belli, c’è scrittura, voglia di comunicare parlando il linguaggio della propria età. E poi c’è lei, che riesce a creare un legame emotivo con tutto il pubblico, quello venuto ad ascoltarla perché già la adora, ma anche quello che è lì per curiosità o perché trascinato da qualche figlio. Quella ragazza di appena vent’anni riesce a catturare l’emozione, sì. Si muove sulla scena senza esitazione, ma non per questo scorda di essere lì, davanti a tanta gente, e ne senti tutta l’adrenalina, quella che forse abbiamo tutti a quell’età quando raggiungiamo qualcosa di bello, quella che alcuni artisti con tanti anni di esperienza alle spalle sembrano aver scordato, e che, per quanto tecnicamente bravi, hanno barattato per un qualche porto sicuro.
Su quel palco, lei non canta e basta, parla, dialoga, scherza con chi ha davanti come un’amica, raccoglie i pupazzi e i reggiseni che le vengono lanciati, racconta del difficile periodo del Covid19 e della distanza sofferta da molti di noi, decide che quella distanza è l’ora di annullarla partendo proprio da quelle assi che la sorreggono e fa salire sulla scena tre fan, tre ragazze che con le loro storie di forza e fragilità si aprono a quella piccola parte di mondo pronta ad ascoltarle. Eccola la “generazione di imbecilli” che parla di sé, racconta abissi e superfici della gioventù, e non vedo e non sento niente che non abbia visto e sentito quando quell’età ce l’avevo anche io, e qualcuno guardava alla mia generazione col ghigno da primo della classe. Perché in fin dei conti “Essere giovani fa schifo/ e non poter decidere fa tanto male”, canta Ariete dal suo microfono, e il ritornello diventa un unisono, un canto comune, forse uno sfogo di una gioventù che ha il dito degli esperti di vita puntato addosso. I ragazzi cantano, cantano come fossero all’uscita di scuola, in attesa di un bus che li porterà chissà dove, e in fondo quello che sognano è solo la musica e un po’ di libertà. Lasciamogli vivere quei vent’anni, o quei quindici, quei venticinque, senza caricarli del peso dei quaranta, o anche oltre, delle responsabilità di un futuro che è ancora nelle nostre mani. Non condanniamoli solo perché quell’età non l’abbiamo più.
Un commento a parte va a L’ultima notte, commissionata prima da Netflix come colonna sonora per la serie Summertime e diventata poi quella dello spot di un famoso gelato, e, ammetto, il brano con cui ho davvero conosciuto l’artista. La canzone colpisce per come rievoca l’allegria e la nostalgia di morbide sere d’estate passate tra amici, falò e sguardi innamorati, pesca tra i ricordi emotivi di un’età dove tutto sembra possibile e la vita la vivi in punta di labbra. Ariete colpisce per tutta l’emozione che riesce ad esprimere nelle sfumature della voce, nella sua interpretazione semplice e i sorrisi che senti su ogni parola. Questo ci mostra come con il famoso “sistema” musicale, quello più ampio, il mainstream, si possa collaborare rimanendo però, al tempo stesso, coerenti con le proprie scelte artistiche. Ariete lo dimostra, si può fare!
Il concerto si chiude con il rituale bis, dove l’artista canta la più recente Castelli di lenzuola e chiude con la più vecchia 18 anni, storie autobiografiche che arrivano al cuore e a qualche lacrima di chi le ascolta. Lei come sempre la interpreta l’ultima traccia con la sua naturale semplicità, ma il testo è spietato, ha in sè lo squarcio profondo in una vita adolescente che dovremmo ascoltare di più, forse conoscere un po’ meglio, e a volte chiederle anche come sta. Dicono che l’arte debba allontanare dalla banalità e scuotere, beh, Ariete lo fa, se glielo permettete e non la allontanate dalle vostre playlist solo per la sua giovane età.
Alma Marlia
foto di Aurora Ziani
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Willie Peyote @ Pistoia Blues
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• Willie Peyote •
Piazza Duomo (Pistoia) // 13 Luglio 2022
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foto di Aurora Ziani
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